Via Giuseppe Zanardelli, 32

00186 Roma - Italia

+39 06 6840051

Fax +39 06 56561470 segreteria@usminazionale.it

Title

Autem vel eum iriure dolor in hendrerit in vulputate velit esse molestie consequat, vel illum dolore eu feugiat nulla facilisis at vero eros et dolore feugait

Author Archive %s admin2

Il Regno di Dio è come un granello di senape…

Dal Vangelo di Marco                      Mc 4,26-34

SEMINATORE1Diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».

Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».

Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

………………………………………..

“Il regno di Dio è pure un po’ di lievito mescolato alla pasta… Tutta la pasta umana sarà sollevata da una grazia oscura e onnipotente. I cuori apparentemente più lontani da Cristo saranno dilatati. Bisogna sotterrare l’Amore nel mondo.”. Così scriveva il romanziere francese F. Mauriac nella sua “Vita di Cristo”, parlando appunto del regno di Dio, quel regno sul quale la liturgia eucaristica di questa domenica richiama la nostra l’attenzione, sia col passo del profeta Ezechiele, e più esplicitamente col brano del Vangelo che contiene due delle stupende parabole del regno.

Il passo del vangelo di Marco non cita quel piccolo pugno di lievito che fa fermentare la pasta, ma cita altre due realtà, all’apparenza piccole, come il chicco di grano e l’ancor più piccolo granello di senape, il più piccolo di tutti i semi che sono sulla terra… secondo le parole stesse di Cristo; due realtà che potrebbero sembrare trascurabili, tanto è irrilevante il loro peso e il loro volume, ma che contengono in sè un’energia vitale insospettabile; infatti, una volta gettati nel terreno, sia il chicco di grano che il granello di senape affiorano dal buio della terra spaccando le zolle e si affacciano alla luce; il primo per produrre la spiga, ricca di molti altri chicchi, il secondo trasformandosi rapidamente da sabbia scura in un flessuoso arbusto e poi in albero, con rami e fronde che accolgono e danno riparo agli uccelli.

Dunque il Regno di Dio non entra nella Storia con clamore, né con segni strepitosi che abbaglino la vista o incutano timore; esso scende tra gli uomini come il lievito che, nascosto nella farina, dà vita alla massa voluminosa e morbida da cui trarre il pane; oppure come il seme che nel buio della terra si trasforma spontaneamente. Il Regno di Dio, presente invisibilmente nella Storia, la feconda dall’interno, la orienta e la rende capace di aprirsi alla salvezza che viene da Dio; infatti non è per volontà umana, né per opera della sua intelligenza che l’uomo si salva; ma unicamente per dono di grazia: dono da accogliere, da amare e da far fruttificare.

Il Regno di Dio che nel racconto di Marco è paragonato ad un seme è, effettivamente, il seme della Parola, gettato dal Padre nel solco oscuro della Storia umana perché si apra alla bellezza della vita vera.

Fuor di metafora, il seme della Parola è il Figlio stesso di Dio, il Verbo coeterno col Padre, lui stesso Dio che, nella pienezza dei tempi, si è fatto uomo in Gesù di Nazareth, il Cristo redentore.

E’ Cristo che ha portato tra gli uomini il regno di Dio, Lui, Gesù di Nazareth, che si è fatto simile a quel chicco di grano di cui Giovanni dice che se cade nel terreno porta molto frutto (Gv 12,24).

E’ la vicenda umana del Signore Gesù, mirabilmente descritta da Paolo, nell’inno cristlogico che recita: Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo…. umiliò se tesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce… (Fil 2,6-8).

Il seme che dà vita, che fa fiorire sulla terra la sovranità del Dio che è Amore, è il Figlio dato per noi, Gesù, che ha vissuto tra gli uomini come uno di loro, rivelando la ricchezza infinita della misericordia del Padre e il progetto della Sua volontà che chiama ogni uomo o donna di ogni tempo e latitudine alla comunione con la stessa vita divina.

Chicco di grano o piccolissimo granello di senape, il Regno di Dio, donato dal Padre per mezzo del Figlio, è una realtà divina solo apparentemente impercettibile, ma che ci trasforma e, con la forza misteriosa della grazia, ci fa creature nuove in Cristo, nel quale siamo chiamati a vivere come tralci dell’unica vite, capaci, con lui, di operare grandi cose: di estendere sino ai confini della terra il Regno di Dio, in cui unico sovrano è l’Amore che vivifica e salva.

sr Maria Giuseppina Pisano o.p.

Giornata Mondiale del Rifugiato 2018

Giornata Mondiale del Rifugiato 2018

#WithRefugees

withrefugees1Il 20 giugno si celebra in tutto il mondo la Giornata Mondiale del Rifugiato, appuntamento annuale voluto dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ha come obiettivo la sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulla condizione di milioni di rifugiati e richiedenti asilo che, costretti a fuggire da guerre e violenze, lasciano i propri affetti, la propria casa e tutto ciò che un tempo era parte della loro vita. E soprattutto invita a non dimenticare mai che dietro ognuno di loro c’è una storia che merita di essere ascoltata. Storie di sofferenze, di umiliazioni ma anche di chi è riuscito a ricostruire il proprio futuro, portando il proprio contributo alla società che lo ha accolto.

Per perseguire questo obiettivo l’Agenzia ONU per i Rifugiati (UNHCR) prosegue la campagna #WithRefugees, che vuole dare visibilità alle espressioni di solidarietà verso i rifugiati, amplificando la voce di chi accoglie e rafforzando l’incontro tra le comunità locali e i rifugiati ed i richiedenti asilo.

#WithRefugees è anche una petizione, con la quale l’UNHCR chiede ai governi di garantire che ogni bambino rifugiato abbia un’istruzione, che ogni famiglia rifugiata abbia un posto sicuro in cui vivere, che ogni rifugiato possa lavorare o acquisire nuove competenze per dare il suo contributo alla comunità. La petizione vera’ presentata all’Assemblea delle Nazioni Unite entro la fine del 2018 in occasione dell’adozione del Global Compact per i rifugiati.

La petizione, le storie dei rifugiati e delle rifugiate, le testimonianze di solidarietà di esponenti del mondo della cultura, dello sport e dello spettacolo, e l’elenco e le informazioni sulle principali iniziative in programma su tutto il territorio nazionale sono disponibili sul sito della campagna www.unhcr.it/withrefugees.

Basta esser vivo per essere incompleto. Basta esser vivo per essere certo che il mio compito non è ancora finito. Gilbert Chesterton

palline1e… – continua il nostro autore – Basta esser vivo per avere il dovere di dimostrarlo al mondo. Tre ‘Basta’ che in una sintomatica ‘ascesa’ dal singolo individuo si eleva all’universale. Dalla singola persona al ‘mondo’: esplicitamente a ‘tutti’, ovunque essi siano; in qualsiasi situazion- età, salute, lavoro, luogo, posizione sociale – si trovino. Siamo vivi, sì: il nostro cuore palpita, la nostra mente pensa, i nostri arti si muovono, ma in forza della nostra stessa identità di persona umana, ognuno di noi è incompleto, imperfetto, indigente. Ha limiti. Non arriva a tutto e può provocare disagi; causare molestie. In sintesi, possiamo essere un disturbo. Soltanto le tre Persone della Sanissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, singolarmente e insieme, sono assolutamente e necessariamente perfette.

Come essere incompleto, ognuno di noi è un bisognoso, un indigente; necessita altro, necessita altri, necessita gli altri. Non solo, ma ognuno e tutti abbiamo delle incombenze verso noi stessi e nel confronto e nelle nostre relazioni con il prossimo, vicino o lontano, potremmo essere graditi o invisi. Nel quotidiano -come consiglia il nostro autore – non possiamo essere o comportarci come sprovveduti che si credono al sicuro o si lasciano guidare da quella dissipazione o da quella superficialità che disintegrano le basi della stessa nostra personalità. Con dolce convinta fermezza dobbiamo suscitare in noi stessi una vigilanza e una propulsione innovativa che ci spinga, o, meglio ancora ci costringa in un impegno inflessibile di crescita, di maturazione. Non possiamo essere persone a metà. Ognuno e tutti, senza paventare insidie e pericoli, dobbiamo avere il coraggio di attraversare le paludi della mediocrità, forse di un pigro anonimato, e immetterci decisamente sul viale di una disciplina saggia e tenace che ci porta ad essere finalmente quella ‘persona completa che sa compiere il proprio compito e risponde al dovere di darne evidente prova al mondo’.

sr Biancarosa Magliano

biancarosam@tiscali.it

Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?

Dal vangelo di Marco   Mc 3,20-35

slideEntrò in una casa e di nuovo si radunò una folla, tanto che non potevano neppure mangiare. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: «È fuori di sé».

Gli scribi, che erano scesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del capo dei demòni». Ma egli li chiamò e con parabole diceva loro: «Come può Satana scacciare Satana? Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non potrà restare in piedi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non potrà restare in piedi. Anche Satana, se si ribella contro se stesso ed è diviso, non può restare in piedi, ma è finito. Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega. Soltanto allora potrà saccheggiargli la casa. In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna». Poiché dicevano: «È posseduto da uno spirito impuro».

Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: «Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano». Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre».

………………………………………………………………………

Si radunò una folla Questo brano segue immediatamente la scelta dei dodici apostoli fatta da Gesù, con l’amara annotazione su Giuda il quale poi lo tradì (Mc 3,19): seguire Gesù, essere stati scelti da lui, stare con lui sembra non essere sufficiente. Marco cerca di dircelo in questi due episodi incastrati tra di loro: l’incontro mancato con la madre e i parenti nel cui interno è posizionata la diatriba con gli scribi venuti da Gerusalemme. Cosa significa essere discepoli del Cristo se anche gli apostoli scelti da lui sono a rischio di tradimento? Gesù non è capito dagli avversari, ed è logico, neppure dai parenti che lo conoscono dalla nascita; seguirlo significa assimilare il suo pensiero, liberarsi dai luoghi comuni, entrare nel suo cuore per amare come lui, orientati dalla volontà del Padre. Ci viene detto che Gesù entra in una casa dove è raggiunto da una folla, tanto che non potevano neppure mangiare. L’indicazione in una casa non è tanto per dare spessore al racconto indicandone la logistica, piuttosto per indicare uno spazio delimitato (che non è quello fisico dei muri) capace di determinare chi è dentro e chi è fuori, chi comprende l’insegnamento del Signore e chi non è capace di comprendere o che fraintende, come gli scribi che pur sono nella casa o i familiari che rimangono fuori di essa.

«È fuori di sé». L’atteggiamento di Gesù preoccupa i familiari; è talmente distante dalle consuetudini, talmente in contrasto con l’autorità religiosa (gli scribi scesi da Gerusalemme) che decidono di andare a prenderlo [il testo greco usa la parola catturarlo (kratesai) usata per la cattura del Battista (Mc 6,17) e poi di Gesù (Mc 14,44)]. Il loro giudizio è chiaro: «È fuori di sé». È singolare che il Vangelo annunciato e custodito dalla prima comunità cristiana abbia voluto trasmettere questo episodio; sappiamo quale sia la considerazione in cui era tenuta Maria e come i fratelli del Signore abbiano avuto un ruolo rilevante nella comunità di Gerusalemme (At 1,14). Eppure, Maria e i familiari rimangono fuori di quella casa il cui era Gesù, questo fa riflettere sul senso e l’importanza del testo. Non meno tremendo è il giudizio degli scribi: Costui è posseduto da Beelzebùl. Hanno visto la potenza di Gesù, ma la loro precomprensione è più forte, il loro modo di considerare Dio e di comprendere la religione li porta a ragionare in modo sofisticato e affermare il contrario di ciò che era evidente ai loro occhi. Gesù è il più forte (Mc 1,7), annunciato dal Battista; che libera la casa dell’uomo dal Satana.

Non sarà perdonato in eterno La parabola dell’uomo forte si conclude con un giudizio tremendo. È una parola dura perché non ci piace sentir parlare di giudizio eterno; perché l’immagine di Dio che ci siamo fatta è tutta concentrata sulla bontà, la pazienza e il perdono di Dio; perché l’idea di peccato è cancellata dal nostro orizzonte e non ci rendiamo conto di quanto siamo schiavi del male. La corruzione spirituale è peggiore della caduta di un peccatore, perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché «anche Satana si maschera da angelo della luce» (2 Cor 11,14). (Papa Francesco «Gaudete et exsultate» n.165). Che cosa, poi, sia il peccato contro lo Spirito Santo è tutto da capire: non riconoscere l’azione e la presenza di Dio, attraverso il suo Spirito, in Gesù Cristo, rifiutare di riconoscere il suo amore nella morte e resurrezione. Questa parola non riguarda i non credenti, quanto coloro che avrebbero tutti gli strumenti per vedere e riconoscere l’azione dello Spirito e la rifiutano, perché questa altera i loro principi religiosi, le loro tradizioni o peggio i loro interessi. Sono condannati alla perdita di senso, alla vacuità delle fede, alla materialità della vita, essi si pongono fuori, lontani dalla pienezza della vita eterna che in Cristo Gesù ci è donata.

Ecco mia madre e i miei fratelli! Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui; Gesù si guarda attorno per non perdere di vista nessuno, a tutti questi annuncia chi fa parte della sua famiglia, non rifiuta i legami di sangue, ma li trasfigura: sono coloro che, come lui, compiono la volontà di Dio. L’espressione rasenta l’assurdo; non solo dichiara costui per me è fratello, sorella ma arriva chiamarlo madre, lui stesso afferma di diventare «figlio» di tante madri e fratello di tanti fratelli e sorelle. Questa è la Chiesa in cui la relazione col Signore dà senso e significato alle relazioni con tutti gli uomini e le donne.

Don Luciano Cantini

Il card. Sandri a suore armene: non perdete la speranza

suore1A conclusione del 170.mo anniversario di fondazione della Congregazione delle Suore Armene dell’Immacolata Concezione, il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, ha presieduto ieri, nella solennità del Corpus Domini, la celebrazione eucaristica, presso la chiesa di San Nicola da Tolentino in Roma, che è annessa al Pontificio Collegio armeno.  A concelebrare la Messa,  animata dal Coro armeno delle giovani allieve della Scuola di Gyumri, anche mons. Krikor Coussa, vescovo armeno cattolico di Iskenderiya (Alessandria di Egitto) e mons. George Assadourian, vescovo ausiliare del Patriarca Gregorio Pietro XX.

Collaborare al dono di Dio per l’umanità

Nell’omelia il card. Sandri ha posto l’accento sui carismi della Congregazione, quali l’accoglienza e l’educazione, e sulla necessità che essa continui attraverso le opere a collaborare al dono di Dio per l’umanità. “In questi 170 anni – ha detto il porporato – troviamo anche delle pagine eroiche: penso in particolare alla grande risposta di carità che avete intrapreso circa cento anni fa, quando siete diventate come delle sorelle e della madri per le orfane rimaste prive dell’amore di una famiglia a causa dello scatenarsi della violenza di quello che chiamiamo Metz Yegern. Lo avete fatto con più di 400 ragazze a Costantinopoli prima, ma poi anche vicino a Roma, a Castelgandolfo, dove giunsero nel 1922 per volontà di Papa Pio XI e poi trasferite l’anno successivo a Torino su interessamento del Governo Italiano”.

Rinascere nella carità

Ponendo l’accento sulla storia della Congregazione, il card. Sandri ha aggiunto: “Siete rinate attraverso la carità concreta per i piccoli e i poveri voi che per prime avevate subito violenze: tutte le case di Istanbul erano state distrutte, 13 consorelle massacrate e 26 deportate. E così avete continuato a vivere. E anche nel tempo più vicino a noi, quando nel 1991 si riaprirono le porte dell’Armenia, siete andate e avete avviato le attività che io stesso ho visitato con gioia e molto apprezzato”

Perseverare anche oggi

Dalla storia – ha proseguito il prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali – deve arrivare l’indicazione per l’oggi a perseverare, ad avere fede, a non perdere mai la speranza anche di fronte a situazioni che possono provocare scoraggiamento: “Il Signore stesso – ha affermato il cardinale – venga in soccorso di quella che a volte è anche una nostra mancanza di fede: ci aiuti a rimanere ben fondate sul dono della sua Carità, che nella Santa Eucarestia ha il suo vertice più alto, e a vivere una esistenza eucaristica attraverso le opere che abbiamo iniziato e quelle che potremo ancora intraprendere”.

Sinodo dei Vescovi sui giovani

In riferimento alle allieve della Scuola di Gyumri, che hanno animato con i loro canti la celebrazione eucaristica, il card. Sandri ha rivolto il pensiero al prossimo Sinodo dei Vescovi di ottobre, dedicato proprio ai giovani. “In questo anno dedicato loro dalla Chiesa, sappiano cercare la vera gioia conoscendo il Signore, sappiano apprezzare il dono della vera libertà che Lui solo ci garantisce, si interroghino sulla loro vocazione e il loro futuro perché anche grazie al loro contributo scompaiano le violenze, le guerre e le persecuzioni, e si avvicini la realizzazione della promessa di nuovi cieli e terra nuova”.

Fonte: Vatican news – 05.06.018

Mese Missionario Straordinario e Sinodo per l’Amazzonia

Mese Missionario Straordinario e Sinodo per l’Amazzonia, opportunità di evangelizzazione

missione1Sinodo per l’Amazzonia e il Mese Missionario Straordinario, eventi che si celebreranno entrambi nell’Ottobre 2019, sono due opportunità di evangelizzazione, per mettere in pratica il richiamo a “riqualificare evangelicamente la missione della Chiesa nel mondo”. Lo afferma il Messaggio di Papa Francesco che ha ricevuto in udienza oggi, 1° giugno, i Direttori nazionali delle Pontificie Opere Missionarie, riuniti per la loro Assemblea Generale annuale a Sacrofano (Roma) dal 28 maggio al 2 giugno. Il Papa sottolinea l’importanza di una reale “conversione missionaria”. Con questo spirito è stato scelto il tema per il Mese Missionario dell’ottobre 2019, annunziato dal Pontefice: “Battezzati e inviati: la Chiesa di Cristo in missione nel mondo”. Il tema ricorda che “la missione è una chiamata insita nel Battesimo ed è di tutti i battezzati”, ha detto Francesco. Così la missione è invio per la salvezza che opera la conversione dell’inviato e del destinatario: la nostra vita è, in Cristo, una missione! Noi stessi siamo missione perché siamo amore di Dio comunicato, siamo santità di Dio creata a sua immagine. La missione è dunque santificazione nostra e del mondo intero, fin dalla creazione (cfr Ef 1,3-6). La dimensione missionaria del nostro Battesimo si traduce così in testimonianza di santità che dona vita e bellezza al mondo, afferma papa Francesco. La coincidenza tra i due eventi – il Sinodo per l’Amazzonia e il Mese Missionario Straordinario – “ci aiuti a tenere fisso il nostro sguardo su Gesù Cristo nell’affrontare problemi, sfide, ricchezze e povertà; ci aiuti a rinnovare l’impegno di servizio al Vangelo per la salvezza degli uomini e delle donne che vivono in quelle terre”, si legge nel testo. “Preghiamo affinché il Sinodo per l’Amazzonia possa riqualificare evangelicamente la missione anche in questa regione del mondo tanto provata, ingiustamente sfruttata e bisognosa della salvezza di Gesù”, dice il Papa.

Fonte: Agenzia Fides

Prese il pane…prese un calice e rese grazie

Dal vangelo di Marco   Mc 14,12-16.22-26

calice-e-pane1Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.

E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».

Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

…………………………………………………….

C’era un tempo in cui la festività del Corpus Domini, che la Chiesa ovunque celebra oggi, come per sottolineare la grandezza di questo “dono di vita”, era sentita in modo particolare. Non si limitava soltanto alla Messa solenne, che voleva proclamare la immensità del dono fattoci da Gesù nella Eucarestia, ma le vie dei nostri paesi o delle nostre città si addobbavano in modo eccezionale, festoso, fino a comporre sulle strade, dove doveva passare la processione, “le fioraie”, ossia disegni veramente artistici composti con petali di fiori di varia natura. Il Santissimo Sacramento non doveva assolutamente passare inosservato, ma doveva conoscere una accoglienza quale nessun uomo merita, perché nessuno merita un grazie così pieno come Gesù: Solo Lui, il nostro “buon pastore”, “vero amico dell’anima”, di cui non possiamo fare a meno.

Forse oggi tutto questo è scemato ad una cerimonia frettolosa, per non disturbare troppo gli uomini, che “hanno altro da fare” e non capiscono più il dono di Dio. Forse noi uomini riserviamo onori, drappi, fioraie e quanto volete a uomini che sono ben piccola cosa, quando sono solo trionfo di egoismo e di potenza, che hanno preso il posto di Dio.

Sembrerebbe incredibile, ma è segno della nostra povertà di fede, il non riuscire a capire Dio quando si fa talmente vicino a ciascuno di noi, da offrire non solo la Sua potente guida, ma si fa nostro pane. Pane di vita: ossia un amore che non si ferma alla periferia della nostra vita, come tante volte avviene tra di noi, ma va così oltre che è come un vedere spalancarsi il cielo: un cielo che la nostra miopia non riesce a sopportare. Noi siamo troppo abituati a stare alla periferia del fratello, anche quando siamo amici: l’amore di Gesù entra nel profondo come a farsi uno di noi, con noi.

Quando Gesù annunciò il grande dono del suo amore, un amore totale che non si limita a fare dono della vita sulla croce, ma va oltre, “si fa mangiare”, non viene capito: non solo, ma viene abbandonato da chi lo seguiva, come le sue parole fossero frutto di un folle, che oramai non sa più cosa dice e che ha perso, proprio nel momento di annunciare la profondità dell’amore, la ragione! “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo, dice Gesù. Se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Allora i giudei si misero a discutere tra di loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”.

E Gesù: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita…” Ma molti dei suoi discepoli, racconta sempre Giovanni, dopo aver ascoltato, dissero: “Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?”…Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai dodici “Forse anche voi volete andarvene?” Gli rispose Simon Pietro: “Signore da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna: noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv. 6,61-70).

Possiamo facilmente immaginare l’amarezza che era in quel momento nel cuore di Gesù. Aveva fatto una solenne offerta di sé agli uomini, come solo un innamorato sa fare. Conoscendo la nostra povertà, il grande bisogno di un amore che fosse davvero sostegno della vita, si offre di farsi pane, di farsi stritolare per amare. Ma non è stato capito. Fino a quando Gesù si limitava a dire Parole di vita, lo seguivano come un profeta, che forse aiutava a trovare la verità di cui tutti abbiamo bisogno. “Uno che parlava con autorità” lo definivano. Ma quando va oltre, come è nella natura di chi ama totalmente, ossia non si ferma al piccolo segno dell’amore, come è il miracolo, ma ti dice: “Io amo tanto, ma così tanto che mi faccio mangiare da te, perché io sia il sangue, il cuore della tua vita” allora l’uomo fa fatica a cogliere il profondo significato dell’amore.

E’ il grande dramma che avviene anche nelle nostre amicizie o nel nostro amare. Vorremmo arrivare a vivere dell’altro, farsi dono, al punto da essere la forza, la ragione della felicità di chi si ama, ma non riusciamo, troppe volte, né a capire questo linguaggio, né a vivere “facendoci dono totale”, ma rimpiccioliamo l”immensità del “ti amo” a poche briciole, che sono le tante parole che ci diciamo, i tanti gesti che offriamo che, troppe volte, sono egoismo inespresso, e non sappiamo in fondo “amare”, ossia essere vita di chi si ama. Eppure lo si desidera tanto, ogni volta che davvero amiamo. Comprendiamo l’amarezza di Gesù nel vedere tanti che pure si dicono cristiani, ma abbandonano la festa della Eucarestia, almeno la domenica: festa di trovarsi tra di noi: festa di sedersi alla mensa eucaristica, come nel Cenacolo; festa di sentire il dono di Gesù che si fa “amore come pane spezzato”, per cogliere con Lui la gioia di vivere, gustando la serenità di essere da Lui amati e quindi dare amore.

Deve essere tanta l’amarezza di Gesù amore, nel vedere che troppi preferiscono uno sport per la salute del corpo trascurando totalmente la salute dell’anima, che è la più vitale. Guardando le nostre Chiese, la domenica, sempre più deserte come se la Messa non interessasse più, comprendiamo la tristezza di Gesù, la tristezza di non capire “quel ti amo tanto da farmi mangiare”.

Eppure, se ci interroghiamo profondamente, è di Lui che abbiamo fame e sete: il resto è un cercare cibi che non nutrono. Ed è la profonda tristezza degli uomini. E noi lo abbiamo capito?

Penso a tanti fratelli che costruiscono la propria vita ogni giorno sulla Eucarestia, di cui non possono fare a meno: un nutrirsi di quel pane divino che poi fa della vita quotidiana “pane spezzato” per i poveri che hanno fame di amore. Come hanno fatto tutti i santi, ieri e oggi.

Quando chiesi a mia mamma la ragione della sua messa quotidiana (e aveva una famiglia numerosa e povera da governare) mi rispose: “Senza Gesù non riuscirei a amarvi tutti e sempre, anche nelle grandi difficoltà. Lui è tutto”. Ed esigeva che ogni giorno anche noi ragazzi facessimo la Comunione, perché amava dirci, davanti alle nostre lamentele: “Meglio una buona comunione che una povera colazione”. Ma chi ha colto la gioia della vita? Questi santi, che attingevano la forza dalla Eucarestia, o noi?

Mons. Antonio Riboldi

Il disperato appello dei vescovi del Congo: “La situazione peggiora di ora in ora”

GUERRA1«La situazione sta peggiorando di ora in ora ed evidenzia una recrudescenza del banditismo urbano. Non passa giorno senza che giungano notizie di terrificanti scene di uccisioni, rapimenti in diverse aree del Paese». Sono le parole nette e preoccupate al centro di un accorato appello – l’ennesimo – della Conferenza episcopale congolese (Cenco) rilasciato nella giornata del 24 maggio scorso, al culmine di un nuovo periodo di grossa tensione e nuove instabilità. La Chiesa, divenuta ormai un soggetto pienamente politico, si erge da tempo a difesa della democrazia e dei diritti e insiste sull’applicazione degli Accordi di San Silvestro che, siglati nel dicembre del 2016 grazie alla mediazione dello stesso episcopato, prevedevano l’indizione di elezioni entro il 2017 e indicavano una road map per il ritorno alla normalità di un Paese distrutto da anni di conflitto latente, povertà endemiche e, recentemente, il ritorno di Ebola (anche se il contagio, come afferma l’Oms, sembra essere stato fortunatamente limitato e ridimensionato).

 Da alcuni mesi a questa parte, sono proprio i vescovi e i laici cattolici a rappresentare il problema principale per Kabila la cui dura risposta non si è fatta attendere: dal dicembre scorso soffoca nel sangue le manifestazioni pacifiche organizzate da comitati di fedeli cattolici (cui si sono uniti ultimamente attivisti di altre confessioni e religioni) mentre ha vietato ogni forma di raduno e minacciato di reprimere rigorosamente ogni protesta.

 Al comando da ormai oltre 17 anni, Kabila ha accettato i principi dell’intesa di San Silvestro con riluttanza perché, secondo la Costituzione, non avrebbe potuto ricandidarsi e quindi addotto ogni motivo utile per rimandare le elezioni. Alla fine, dopo varie insistenze anche internazionali, l’8 novembre scorso, ha fissato il voto per il 23 dicembre 2018. Ma, è notizia delle ultime settimane, sta nuovamente mettendo in atto subdoli tentativi per posticipare le urne o, comunque, per riuscire a ricandidarsi.

 «Ci preoccupa ancora di più – continua l’appello dei vescovi – la serie di dichiarazioni che giungono dalla maggioranza presidenziale che evocano la possibilità di un altro mandato per l’attuale presidente della Repubblica, con grande disprezzo della nostra cara Costituzione e dell’Accordo di San Silvestro che, a tale riguardo, è molto chiaro».

 Raggiunto al telefono da Vatican Insider don Donatiene Nshole, segretario della Conferenza episcopale, esprimi i grandi timori della Chiesa e di un’intera popolazione. «Kabila non dice nulla, lascia parlare i suoi alleati e collaboratori i quali rilasciano dichiarazioni molto ambigue. Si parla di possibile ricandidatura, in spregio dell’Accordo di San Silvestro e della stessa costituzione che è molto chiara: dopo due mandati non c’è alcuna possibilità di ricandidarsi».

 «Kabila – prosegue il sacerdote – avrebbe dovuto già lasciare a dicembre del 2016. Siamo estremamente preoccupati, perché se il presidente intende veramente correre di nuovo per le elezioni, assisteremo a un netto deterioramento della situazione politico-sociale del Paese. La gente non accetterà mai questa eventualità e se il governo mostrerà di procedere in quella direzione non mancheranno disordini. Nel frattempo, giungono quotidianamente notizie di violenze e stragi nelle città così come nelle zone di Beni Butembo, Goma e altre. Ai confini, la gente continua a fuggire».

Dalla fine dello scorso anno si sono susseguite manifestazioni organizzate dai laici cattolici spesso represse nel sangue, il timore ora è che ce ne possano essere di nuove. «Si moltiplicano voci di future marce organizzate dai laici cattolici e la società civile per manifestare la preoccupazione di tutto il popolo per la situazione che si sta verificando», spiega don Nshole. «Il 25 febbraio scorso, si è svolta una imponente manifestazione che faceva seguito all’appello dei vescovi cattolici a chiedere giustizia e rispetto degli accordi e a mostrare che il popolo stava con gli occhi aperti. Il principio alla base era dire no a un potere che agiva secondo la legge del più forte. Ci sono stati molti scontri, morti, ma il popolo non si è lasciato intimorire ed è pronto di nuovo a scendere in piazza. C’è un rischio reale di arrivare a una rivoluzione perché la gente è senza speranza, non crede più nell’accordo o nel dialogo. So per certo che i laici cattolici si stanno preparando a riprendere le marce e a mobilitare più forze».

Sulla risposta avuta all’appello del 24 maggio, il segretario della Conferenza episcopale dichiara: «Abbiamo sentito l’urgenza di far udire la nostra voce nella speranza che con questo appello il governo capisca che la strada è senza dubbio sbagliata. Non abbiamo ricevuto risposte ufficiali, ma in privato tantissime persone, di diverse appartenenze, ci hanno fatto arrivare le loro congratulazioni. La gente ormai vede nella Chiesa l’unica struttura organizzata capace di fronteggiare il potere e sempre più si rivolge a noi nella speranza di un cambiamento».

Homo Cyborg. Il futuro dell’uomo…

HOMO CYBORG1Homo Cyborg. Il futuro dell’uomo, tra tecnoscienza, intelligenza artificiale e nuovo umanesimo.

Quale sarà l’evoluzione del genere umano? Ci attende un futuro da “cyborg”, a metà tra uomo e macchina? Dove sono arrivate le nuove scoperte scientifiche e le nuove tecnologie applicate alla vita? È lecito porsi delle domande su eventuali limiti in questo campo?

Su queste questioni epocali si è confrontato il Convegno nazionale dell’Associazione Scienza & Vita in programma il 25 maggio c.a. a Roma.

L’associazione S&V, ha inteso dare il  proprio contributo per cercare risposte all’appello urgente lanciato da Papa Francesco (ottobre 2017): “La potenza delle biotecnologie, che già ora consente manipolazioni della vita fino a ieri impensabili, pone questioni formidabili. È urgente, perciò, intensificare lo studio e il confronto sugli effetti di tale evoluzione della società in senso tecnologico per articolare una sintesi antropologica che sia all’altezza di questa sfida epocale”.

Partendo dalla presa di coscienza della contemporaneità della prospettiva trans/post-umanista, l’intento è stato quello di offrire ai partecipanti, attraverso una approfondita riflessione antropologica e l’incontro con alcune esperienze concrete, alcuni possibili strumenti di discernimento per orientarsi in tale scenario e per valutare come e con quali presupposti l’innovazione tecnologica possa realmente garantire uno sviluppo umano autentico. In tale prospettiva il convegno è stato non solo un’esperienza intellettuale, ma anche un’esperienza concreta di riflessione e di azione in chiave antropologica, da esportare nel proprio spazio sociale.

I lavori sono stati introdotti dalla relazione del Cardinale Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Conferenza Episcopale Italiana.

“Il nuovo umanesimo” è “una grande sfida, non solo per la Chiesa, ma per l’umanità intera”. Nel mondo contemporaneo, osserva il cardinale, “è ormai emersa una nuova questione sociale che investe la sfera economica e quella antropologica, la dimensione culturale e quella politica, i cui riflessi si fanno sentire profondamente anche in ambito religioso”. Ed è proprio “la consapevolezza di questa nuova questione sociale che ci impone la sfida del nuovo umanesimo. Una questione sociale che tende ad interpretare e a vedere in modo unitario la crisi antropologica e quella economica, la crisi ambientale e quella politico-culturale”.

“Il nuovo potere tecnico non è solo un’applicazione economica della scienza nella vita quotidiana ma è una concezione filosofica del mondo e una visione parareligiosa della vita comune”. Di qui l’esortazione a intellettuali e scienziati “a dare una nuova forma e un nuovo senso a quell’umanesimo cristiano e laico che per secoli ha caratterizzato la vita quotidiana del continente europeo. La sfida del nuovo umanesimo non è una questione da eruditi rinchiusi nella Torre Eburnea ma è un progetto di grandissimo respiro che ha come ambizione ultima la ‘custodia dell’umanità’”. Di fronte al rischio di un “nuovo Adamo tecnologico” occorre, come ha in più occasioni affermato il Papa, “un nuovo umanesimo europeo vicino agli ultimi”. Un umanesimo, “non di facciata”, ma “estremamente concreto, che si proponga di umanizzare la tecnica, rendendola al servizio dell’uomo, e di custodire la vita umana in ogni istante dell’esistenza”.

L’invito è a non avere paura dei “segni dei tempi” e ad “analizzare cosa si muove sotto la superficie del mare” per “capire come e perché si muovono le correnti che agitano il mondo in cui viviamo”. “Tutti noi siamo chiamati ad esercitare questo sguardo e ad assumere questa prospettiva storica”, oggi “un po’ marginale nel dibattito pubblico” ma invece “estremamente importante”. Di qui il monito a non dimenticare che “il mondo in cui viviamo” è “il prodotto di un processo storico” all’interno del quale si è verificato 40 anni fa un evento ancora oggetto di riflessione: la nascita di Louise Brown, prima bambina nata con la fecondazione in vitro.

Con riferimento quindi al “futuro della natura umana”, citazione dal titolo di un noto volume di Jürgen Habermas, il presidente Cei ricorda i timori del filosofo tedesco per i rischi dell’incontro tra medicina riproduttiva e ingegneria genetica: una società in cui viene esaltato “il potere taumaturgico della tecnica” che rende disponibile ciò che prima era indisponibile, “ovvero la creazione della vita”, e “lo strapotere dell’economico nella vita degli uomini” assurto a “criterio di giudizio” anche nelle questioni eticamente sensibili. Oggi, le società occidentali sembrano “attraversate da una profonda crisi antropologica che sta mercificando tutto, persino il corpo degli esseri umani” mentre la “cultura del benessere” anestetizza la mente e il cuore delle persone tramite una “nuova idolatria del denaro” e attraverso “la riduzione dell’essere umano ad uno dei suoi bisogni: il consumo”.