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Tra le altre forme voglio segnalare che anche il “genio femminile” si manifesta in stili femminili di santità. Così papa Francesco al n. 12 della recente Esortazione apostolica Gaudete et exsultate.

cerchio1Ognuno è se stesso, da piccolo e da grande. Pertanto ognuno, se coerente, si esprime secondo la propria identità. Il papa stesso chiarisce: “siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova” (Ge 12). Io e miliardi di altre donne presenti su questo mirabile cosmo, pur in situazioni anche opposte, abbiamo una unica finalità che è espressa in un ordine divino: “Siate santi, perché io, il Signore Dio vostro, sono santo” (Lv 19,2). E’ un imperativo. Di lì non si scappa. Lo vuoi o non lo vuoi, la vocazione di ogni persona è alla santità, alla perfezione dell’amore ed ognuno/a la esprime secondo le proprie peculiarità. Non c’è altra strada. Ed è entusiasmante. Costi quel che costi. Scrive ancora papa Francesco: “Lascia che la grazia del tuo Battesimo fruttifichi in un cammino di santità. Lascia che tutto sia aperto a Dio e a tal fine scegli Lui, scegli Dio sempre di nuovo. Non ti scoraggiare, perché hai la forza dello Spirito Santo affinché sia possibile, e la santità, in fondo, è il frutto dello Spirito Santo nella tua vita (cfr Gal 5,22-23) (GE 15).

E Dio, venuta la pienezza dei tempi, in Gesù Cristo, ce ne ha tracciato il percorso ben dettagliato nel Vangelo: è il percorso delle Beatitudini. Un percorso decisamente nuovo, ‘controcorrente’, non facile, ma affascinante. Si tratta di essere poveri in spirito, vivere un‘esistenza austera e povera, “indifferenti verso tutte le cose create”; salute e malattia, ricchezza e povertà, onore e disonore, vita lunga o breve e così via… (GE 69).

Ma non basta. Gesù propone di essere miti e misericordiosi. L’agitazione e l’arroganza producono stanchezza, perciò “è meglio essere sempre miti, e si realizzeranno le nostre più grandi aspirazioni: i miti avranno in eredità la terra” (GE,74). Il papa richiama la misericordia come capacità di perdono e chiarisce: “dare e perdonare è tentare di riprodurre nella nostra vita un riflesso della perfezione di Dio, che dona e perdona in modo sovrabbondante” e conclude deciso: “Guardare e agire con misericordia, questo è santità” (GE 81-82).

E non basta ancora. La scalata è bella anche se faticosa: per giungere alla santità è necessario anche essere ‘puri di cuore’ e ‘operatori di pace’. La prima – secondo il papa – si riferisce a “chi ha un cuore semplice, senza sporcizia, un cuore che sa amare… Il Signore si aspetta una dedizione al fratello che sgorga dal cuore”.

La seconda, forse impegna proprio nel nostro tempo, con una visione alla globalità delle situazioni: sempre e comunque spargere spruzzi di pace, leggeri ma fecondi.

“Essere nel pianto” e “perseguitati per la giustizia” secondo Gesù non sono una calamità. E’ beatitudine. Scrive il papa: “La persona che vede le cose come sono realmente, si lascia trafiggere dal dolore e piange nel suo cuore è capace di raggiungere le profondità della vita e di essere veramente felice. Quella persona è consolata, ma con la consolazione di Gesù…. Così può avere il coraggio di condividere la sofferenza altrui e smette di fuggire dalle situazioni dolorose. In tal modo scopre che la vita ha senso nel soccorrere un altro nel suo dolore, nel comprendere l’angoscia altrui, nel dare sollievo agli altri” (GE 76).

                                                       sr Biancarosa Magliano,fsp

                                                       biancarosam@tiscali.it

 

 

 

 

Custode delle notizie: una vera e propria missione

fake1Custode delle notizie: una vera e propria missione

Si celebra domenica 13 maggio c.a., giorno della festa liturgica dell’Ascensione, la 52.ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali sul tema “La verità vi farà liberi. Fake news e giornalismo di pace”. Papa Francesco che per questa giornata pubblica il messaggio, si è soffermato più volte sul tema della verità nell’informazione a partire dal discorso rivolto agli operatori dei media, tre giorni dopo la sua elezione alla Cattedra di Pietro. In quell’occasione, il 16 marzo del 2013, Francesco ricordava ai giornalisti che la loro professione “comporta una particolare attenzione nei confronti della verità”.

Sulla centralità della verità, il Papa si sofferma nel discorso al Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti italiani, il 22 settembre del 2016. “Amare la verità – sottolinea Francesco – vuol dire non solo affermare, ma vivere la verità, testimoniarla con il proprio lavoro”. Bisogna dunque “vivere e lavorare”, “con coerenza rispetto alle parole che si utilizzano per un articolo di giornale o un servizio televisivo”. Torna sull’argomento anche nell’intervista al settimanale cattolico belga “Tertio” il 7 dicembre 2016. La disinformazione, afferma, “è una cosa che può fare molto danno nei mezzi di informazione”. “La disinformazione è probabilmente il danno più grande che può fare un mezzo, perché orienta l’opinione in una direzione, tralasciando l’altra parte della verità”. Ribadisce poi con forza che i media devono essere “molto limpidi, molto trasparenti”.

Il 16 dicembre 2017, parlando ai membri dell’Unione stampa periodica italiana e della Federazione Italiana Settimanali Cattolici, Francesco mette in guardia sui danni che può arrecare all’informazione “l’ansia della velocità” e “la spinta al sensazionalismo”. Si avverte, chiede il Papa, “la necessità di un’informazione affidabile con dati e notizie verificati, che non punti a stupire e a emozionare, ma piuttosto si prefigga di far crescere nei lettori un sano senso critico”. Solo così, conclude il Papa, si “eviterà di essere costantemente in balia di facili slogan o di estemporanee campagne d’informazione, che lasciano trasparire l’intento di manipolare la realtà, le opinioni e le persone stesse, producendo inutili polveroni mediatici”.

Non poteva essere più attuale, dunque, il tema scelto quest’anno da Papa Francesco.

Per inquadrare uno scenario sempre più caratterizzato da un sovraccarico informativo, dove ogni utente può trasformarsi in un produttore di contenuti, si può partire dai numeri: in appena 60 secondi, vengono pubblicati 3 milioni di contenuti su Facebook, 430mila tweet, compiute 2 milioni e 315mila ricerche su Google, inviate 150 milioni di email e 44 milioni di messaggi su WhatsApp, visualizzati 2 milioni e 700mila video su YouTube.

È questo il contesto che si trova a fronteggiare il giornalista, alle prese con lettori/utenti sommersi da un tale flusso di informazioni che ne cattura l’attenzione e spesso li rinchiude in “camere dell’eco” dove si rafforzano soltanto le proprie convinzioni. Per tale ragione il Papa si rivolge al “custode delle notizie” che, “nel mondo contemporaneo, non svolge solo un mestiere, ma una vera e propria missione”. Nella “frenesia delle notizie e nel vortice degli scoop”, il giornalista deve infatti “ricordare che al centro della notizia non ci sono la velocità nel darla e l’impatto sull’audience, ma le persone”. L’invito di Francesco è a “promuovere un giornalismo di pace, non intendendo con questa espressione un giornalismo ‘buonista’, che neghi l’esistenza di problemi gravi e assuma toni sdolcinati. Intendo, al contrario, un giornalismo senza infingimenti, ostile alle falsità, a slogan ad effetto e a dichiarazioni roboanti; un giornalismo fatto da persone per le persone, e che si comprende come servizio a tutte le persone, specialmente a quelle – sono al mondo la maggioranza – che non hanno voce”. Un giornalismo, prosegue il Santo Padre, “che non bruci le notizie, ma che si impegni nella ricerca delle cause reali dei conflitti, per favorirne la comprensione dalle radici e il superamento attraverso l’avviamento di processi virtuosi; un giornalismo impegnato a indicare soluzioni alternative alle escalation del clamore e della violenza verbale”.

Definendo “lodevoli le iniziative educative che permettono di apprendere come leggere e valutare il contesto comunicativo” tanto quanto “le iniziative istituzionali e giuridiche”, Francesco si spinge oltre e individua una chiave di lettura per prevenire e identificare i meccanismi della disinformazione: la definisce “logica del serpente”, colui il quale “si rese artefice della ‘prima fake news’ (cfr. Gen 3,1-15), che portò alle tragiche conseguenze del peccato, concretizzatesi poi nel primo fratricidio (cfr. Gen 4) e in altre innumerevoli forme di male contro Dio, il prossimo, la società e il creato”. La strategia di questo “abile ‘padre della menzogna’ (Gv 8,44) è proprio la mimesi, una strisciante e pericolosa seduzione che si fa strada nel cuore dell’uomo con argomentazioni false e allettanti”. Di fronte al “virus della falsità”, riconosce il Papa, il “più radicale antidoto” è lasciarsi “purificare dalla verità”.

D.S.

Rimanete nel mio amore…

vite_tralci1Dal Vangelo di Giovanni       Gv 15,9-17

«Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.

Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

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Un testo ricchissimo, questo del Vangelo di oggi, che fa parte, anch’esso, del lungo discorso di congedo, in quell’ultima sera, che il Maestro trascorse coi suoi, prima di consegnarsi alla morte.

Un discorso, tutto sull’amore, e che molti esegeti considerano il “testamento” stesso di Gesù, la consegna da lui fatta ai discepoli, assieme all’Eucarestia, sigillo permanente dell’amore, totalmente dato, sino al limite estremo. “Rimanete nel mio amore”.

La scorsa domenica, la liturgia eucaristica invitava a riflettere sull’esortazione del Signore a rimanere in Lui, come tralci in una vite; oggi, la stessa esortazione è, a dimorare in Lui; non ci sono più immagini, né simboli ad indicare la comunione, ma è l’invito, a fare di Dio la nostra abitazione, o, che è lo stesso, a lasciarci inabitare totalmente da Lui.

L’abitazione vera del cristiano, non è dunque, un luogo nello spazio, ma l’amore stesso di Cristo; è Lui, la dimensione nella quale vivere, crescere ed operare; solo qui, e non altrove, l’uomo conosce e vive la sua vera identità, che è l’amore di carità, che lo rende somigliante al suo creatore, quel Dio che è carità.

Certo è facile abusare di questi termini e banalizzarli; ma il discorso del Signore si fa concreto, drammaticamente concreto, quando dice: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come lo vi ho amati”, e quale sia la misura e il modo dell’amore di Cristo, lo conosciamo bene, tuttavia Lui stesso lo specifica dicendo: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i suoi amici…”

E’ un’amore esigente, che non si ferma alla sola benevolenza, o all’affetto legato semplicemente all’emozione; l’amore, di carità, è un lungo cammino da compiere, e il suo percorso non sempre è agevole; come scriveva Michel Quoist: “…dopo Gesù Cristo, amare, significa esser crocifissi per un altro… “Amare è anche questo; perché amare, come Cristo ama, significa donarsi, senza misura e senza aspettare niente in cambio, e perdonare, sempre, come ha perdonato Lui.

“Questo vi comando:, amatevi gli uni gli altri “; e su questo comandamento l’uomo si costruisce cristiano, in ogni circostanza della vita.

Può sembrar strano, riguardo all’amore, e, all’amore più alto, che esso sia un comando, una legge, ma la forza, con la quale il Signore vi insiste, sta ad indicare, che siamo di fronte ad una scelta che non ammette alternative, amare è l’impegno fondamentale della vita, l’unica risposta alla scelta che Dio, in Cristo, ha fatto di noi, “prima della creazione del mondo, per trovarci, al suo cospetto, santi e irreprensibili nell’amore…” ( Ef.1,3 ss.)

E l’evangelista Giovanni commenta: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.

In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo, la vita per lui.

In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.” (1 Gv 4,7 1)

Questa forza d’amare, questa virtù, perché di virtù si tratta, non è qualcosa che nasce da noi, ma sorge dall’Alto, nell’eternità di Dio, e, a questo dono, noi ci apriamo, nel nome di Cristo Gesù.

” Abbiamo conosciuto e creduto all’amore di Dio per noi ” scrive Giovanni nella sua prima lettera, (4,16 ) e il Papa Benedetto XVI commenta:”…soltanto così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All’inizio dell’essere cristiano, non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte, e, con ciò, una direzione decisiva…” ( Deus caritas est.)

E’ la nostra Pasqua, già ora nel tempo, un evento, che ci fa creature nuove, perché l’amore di Dio, per opera di Cristo, ci trasforma da servi, in figli e amici: “…vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ ho fatto conoscere, a voi…”.

E’ questa la realtà profonda, del nostro essere cristiani, quel dimorare nell’ amore del Signore Gesù, che ci svela il Padre, la sua vita, il suo progetto, per la salvezza di tutti gli uomini.

E’ quel che leggiamo, oggi, negli Atti degli Apostoli: “…Pietro disse loro: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma, chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a Lui accetto»… stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo scese sopra tutti coloro che ascoltavano…(At 10,25 27.34 35. 44 48 ).

A questo progetto del Padre, anche noi collaboriamo, non per nostra iniziativa, ma perché scelti e costituiti dallo stesso Maestro e Redentore:”…io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga…”.

E’ il frutto della missione, della predicazione e della testimonianza, che nella Chiesa, ancora rendiamo al Risorto, fintanto che non sia realizzato pienamente quel che il salmo canta:

“Tutti i confini della terra hanno veduto la salvezza del nostro Dio. Acclami al Signore tutta la terra, gridate, esultate con voci di gioia.” (Salmo 97)

sr Mariarita Pisano O.P.

Monastero Domenicano SS.mo Rosario

Sfide e Speranze della Vita Consacrata Giovane a Cuba

Delegazione Cile, Perù, Cuba

SFIDE1Le juniores presenti a Cuba, nei giorni 27-29 aprile c.a. hanno partecipato a un intenso corso di Formazione. Esso aveva come tema centrale “le sfide e le speranze che vengono offerte dalla realtà cubana”. E ciò è stato fatto anche tenendo presente l’esperienza che vive la vita Consacrata giovane in quel Paese. Un apporto forte è stato offerto inoltre dalla realtà internazionale del gruppo: 3 cubani e 9 cubane, 2 salvadoregne, 1 filippina,1 peruviana, 1 haitiana, 1 cilena, 1 colombiana, 1 brasiliano, 1 guatemalteca, 1 paraguayana e 4 della repubblica Domenicana. Ha condotto l’incontro p. Luis Fernando s.j. Egli da subito li ha invitati ad accogliere la realtà cubana nella sua peculiarità, in quanto diversa dalle altre realtà del Continente americano. Hanno così potuto conoscere la realtà di quel Paese, soprattutto per le disuguaglianze che esistono nelle loro stesse Congregazioni. Le differenze tra Cuba e gli altri paesi sono davvero notevoli.

Ma la sfida più grande per i superiori provinciali è quella di avere uno sguardo oggettivo sull’idoneità dei candidati alla specifica missione, anche perché a Cuba – per una specifica e vera maturazione psicologica e spirituale – si necessita un tempo prolungato. Inoltre la missione a Cuba è diversa da quella che si compie in altri Paesi. Non vi esistono le strutture a cui sono abituati i religiosi stranieri. Per questo la sfida che devono affrontare è quella di rimanervi per accompagnare il popolo cubano con gioia e speranza alla scoperta della presenza e dell’azione di Dio ne loro oggi storico. Le religiose possono dare testimonianza della fraternità vissuta nell’amore di Cristo che le ha convocate e che le manda a portare la gioia di sentirsi famiglia di Dio.

b.m.

In Italia gli ortodossi superano i musulmani

In Italia gli ortodossi superano i musulmani

MUSULMANI2Secondo le più recenti stime di Fondazione ISMU, gli stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2017 che professano la religione cristiana ortodossa si confermano come l’anno precedente i più numerosi (oltre 1,6 milioni, +0,7%), seguiti dai musulmani (poco più di 1,4 milioni, -0,2%) e dai cattolici (poco più di un milione, -0,1%) [1].

 Passando alle religioni di minor importanza quantitativa, i buddisti stranieri sono stimati in 188mila (+3,5% rispetto al 1° gennaio 2016), i cristiani evangelisti in 124mila (+2,3%), gli induisti in 73mila (+0,8%), i sikh in 72mila (+0,9%), i cristiani copti in 19mila (+2,1%). Considerando anche cristiani di altre confessioni non comprese tra le principali (111mila in totale al 1° gennaio 2017, +3,8% rispetto ad inizio 2016), i cristiani (compresi i cattolici) stranieri residenti in Italia risultano in tutto 2,9 milioni, in aumento dello 0,6% nell’ultimo anno.

 Anche se non includono gli stranieri non iscritti in anagrafe le elaborazioni di ISMU mettono in mostra che il panorama delle religioni professate dagli stranieri è variegato e sfata in particolare il pregiudizio secondo cui la maggior parte degli immigrati professa l’Islam. Per quanto riguarda le provenienze si stima che la maggior parte dei musulmani stranieri residenti in Italia provenga dal Marocco (408mila), seguito dall’Albania (206mila), dal Bangladesh (103mila), dal Pakistan (100mila), dall’Egitto (96mila), dalla Tunisia (93mila) e dal Senegal (87mila).

 Circa un terzo dei cristiani ortodossi vive in Lombardia o nel Lazio. La regione in cui la presenza di stranieri di fede cristiana ortodossa è maggiore è la Lombardia, con 268mila presenze, seguita dal Lazio con 263mila e poi più a distanza da Veneto (174mila), Piemonte (161mila), Emilia Romagna (158mila) e Toscana (117mila).

 I musulmani si concentrano soprattutto in Lombardia. La regione in cui vivono più stranieri residenti di fede musulmana, minorenni inclusi, è la Lombardia: sono 360mila, pari ad oltre un quarto del totale degli islamici presenti in Italia. Al secondo posto troviamo l’Emilia Romagna con 178mila musulmani, al terzo il Veneto dove i musulmani sono 134mila, al quarto il Lazio con 120mila presenze appena davanti al Piemonte (117mila).

 Gli immigrati cattolici sono presenti soprattutto in Lombardia e secondariamente nel Lazio. La regione italiana in cui vivono più immigrati cattolici è la Lombardia, con 273mila presenze, seguita dal Lazio (153mila), dall’Emilia Romagna (94mila), dalla Toscana (84mila), dal Veneto e dal Piemonte (76mila in entrambe le regioni).

 La provincia di Milano è in cima alla classifica per residenti musulmani e cattolici. Quella di Roma per numero di stranieri cristiano-ortodossi. La provincia di Milano è capolista per numero di stranieri residenti sia musulmani (115mila pari all’8,1% del totale nazionale) sia cattolici (143mila pari al 13,8% del totale nazionale), in entrambi i casi leggermente davanti a quella di Roma (che conta 98mila stranieri musulmani e 134mila stranieri cattolici).

 La provincia di Roma invece primeggia per numero di cristiani ortodossi (211mila, pari al 13,0% del totale nazionale), seguono le provincie di Torino (99mila) e Milano (88mila). Dopo le province di Milano e di Roma, i musulmani si concentrano soprattutto in quelle di Brescia (61mila) e Bergamo (50mila).

 (articolo tratto da www.ismu.org)

[1] In questi conteggi non sono compresi né gli stranieri irregolari nel soggiorno o non iscritti in anagrafe, né coloro i quali hanno acquisito la cittadinanza italiana. Sono inclusi invece i minorenni di qualsiasi età, neonati compresi, ipotizzando per loro la medesima appartenenza religiosa dei connazionali come appurate dalle più recenti indagini regionali lombarde.

Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto…

Dal Vangelo di Giovanni      Gv 15, 1-8

vite1«Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

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La liturgia di questa domenica sottolinea la necessità di “rimanere” in Gesù, un tema particolarmente caro all’apostolo Giovanni. Nella sua prima lettera afferma: “Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli in lui”. E nella parabola della vite i tralci i termini “rimanere” e “dimorare” ne sono il cuore. L’immagine della vigna, nel suo simbolismo religioso, era molto nota ai discepoli di Gesù. Uno degli ornamenti più vistosi del tempio eretto a Gerusalemme da Erode e che Gesù frequentò era appunto una vite d’oro con grappoli alti come un uomo. Ma soprattutto nelle Scritture il tema della vigna era tra i più significativi per esprimere il rapporto tra Dio e il suo popolo. Isaia, nel mirabile “canto della Vigna” descrive la delusione di Dio nei confronti di Israele, sua vigna, che aveva curato, piantato, vangato, difeso, ma dalla quale non ha avuto altro che frutti amari. Geremia rimprovera il popolo d’lsraele: “Io ti avevo piantata come vite feconda e tutta genuina. Come mai sei diventata una vite aspra, selvatica e bastarda?” (2, 21).

Nelle parole di Gesù, c’è un cambiamento piuttosto singolare, la vite non è più Israele, ma lui stesso: “Io sono la vera vite”. Nessuno l’aveva mai detto prima. Per comprendere appieno queste parole è necessario collocarle nel contesto dell’ultima cena, quando Gesù le pronunciò.

Quella sera il discorso ai discepoli fu lungo, complesso e con i toni di gravità propri degli ultimi momenti della vita: un vero e proprio testamento. Nel primo discorso chiarisce chi è la vera guida del popolo del Signore; e dice: “Io sono il buon pastore”. Subito dopo, iniziando il secondo discorso, afferma: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo”. Gesù si identifica con la vite, specificando che è la “vera” vite; ovviamente per distinguersi dalla “falsa”.

Ma non è una vite isolata. Gesù aggiunge: “io sono la vite e voi i tralci”. I discepoli sono legati al Maestro e sono parte integrante della vite: non c’è vite senza tralci, e viceversa. Potremmo dire che il legame dei discepoli con Gesù è appunto come quello della vite con i tralci, essenziale e forte. E’ un legame che va ben oltre i nostri alti e bassi psicologici le nostre buone o cattive condizioni. L’antico segno biblico della vigna riappare qui in tutta la sua forza. Con Gesù nasce una vigna più larga e più estesa della precedente e soprattutto percorsa da una nuova linfa’, l’agape, l’amore stesso di Dio. La forza di questo amore è dirompente: permette di produrre molto frutto. Dice Gesù: “In questo è glorificato il padre mio: che portiate molto frutto”.

Il Vangelo prosegue: “Ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto”. Sì, proprio quelli che “portano frutto”, conoscono anche il momento della potatura. Sono quei tagli che di tempo in tempo, appunto come accade nella vita naturale, è necessario operare perché possiamo essere “senza macchia” (Ef 5, 27). Il testo evangelico non vuol dire che Dio manda dolori e sofferenze ai suoi figli migliori per provarli o purificarli. No, non è in questo che va intesa la potatura, il Signore non ha bisogno di intervenire con le sofferenze per migliorare i figli. La verità è molto più piana. La vita spirituale è sempre un itinerario o, se si vuole, una crescita. Ma non è mai né scontata né naturale, e non è un progresso univoco.

Ognuno di noi ha l’esperienza della crescita in se stesso di frutti buoni assieme a sentimenti cattivi, ad abitudini egoistiche, ad atteggiamenti freddi e violenti, a pensieri malevoli, a spinte di invidia e di orgoglio.:. E’ qui che si deve potare, e non una volta sola, perché sempre si ripresentano questi sentimenti, seppure in modi e con manifestazioni diverse. Non c’è età della vita che non esiga cambiamenti e correzioni, e quindi potature.

E’ la condizione per portare frutto per non seccarsi ed essere quindi tagliati e bruciati. Forse quella sera i discepoli non capirono, magari, si saranno chiesti: “ma che vuol dire rimanere con lui se sta per andarsene?” In verità, Gesù indicava una via semplice per restare con lui; si rimane in lui se le “sue parole rimangono in noi”. E’ la via che intraprese Maria, sua madre, la quale “conservava nel suo cuore tutte queste cose”. E’ la via che scelse Maria la sorella di Lazzaro, che restava ai piedi di Gesù.

E’ la via tracciata per ogni discepolo. Nella tradizione bizantina c’è una splendida icona che riproduce plasticamente questa parabola evangelica. Al centro è dipinto il tronco della vite su cui è seduto Gesù con la Scrittura aperta. Dal tronco partono dodici rami su ognuno dei quali è seduto un apostolo, con la Scrittura aperta tra le mani.

E’ l’icona della nuova vigna, l’immagine della nuova comunità che ha origine da Gesù, vera vite. Quel libro aperto che sta nelle mani di Gesu è lo stesso che hanno gli apostoli: è la vera linfa’ che permette di “non amare a parole né con la lingua. ma coi fatti e nella verità”.

a cura di V.P.

 

Trento, con “Religion2go” la religione entra nel mondo virtuale

1Si chiama “Religion2go” la nuova app allo studio della Fondazione Bruno Kessler di Trento che ha come obiettivo quello di mettere la tecnologia al servizio della religione. Come? Attraverso la nuova app “Replicate”, grazie alla quale con il proprio smartphone è possibile fotografare un oggetto – in questo caso un oggetto di culto – e crearne una copia digitale in 3D da condividere “to go” in rete, attraverso un visualizzatore, o addirittura vissuto in forma di realtà virtuale. “Questo progetto – spiega Fabio Poiesi, del Centro per le tecnologie dell’informazione e della comunicazione Ict – nasce da un percorso avviato con l’Istituto di scienze religiose, che fa parte del polo umanistico della Fondazione. Si basa su un percorso di osservazione partecipata che sta coinvolgendo rappresentanti religiosi di vario credo”. “In Italia esistono 840 comunità religiose di credo diverso – spiega Sara Hejazi, dell’Istituto di scienze religiose trentino – abbiamo avviato una serie di interviste a ministri di culto in tutta Italia e ad oggi le testimonianze raccolte riportano un grande interesse sulla questione della virtualizzazione. Il mondo virtuale può essere usato per mettere insieme generazioni diverse o per superare le distanze geografiche, creando ponti tra le comunità religiose sparse in tutto il mondo”.

L’applicazione permette di raccogliere con lo smartphone una serie di immagini dell’oggetto che si intende “virtualizzare”; le fotografie vengono selezionate automaticamente e inviate a un database centrale, che ricompone la figura e la restituisce sul telefonino in 3D. “Grazie alle moderne tecnologie – aggiunge Poiesi – l’oggetto divenuto virtuale può essere ricreato con una stampante 3D”.

Non ci sono soluzioni miracolistiche

scuola1Mentre si susseguono numerosi i fatti di cronaca che stigmatizzano atti indisciplinati di vari studenti della Penisola, non mancano purtroppo le “ricette” di soluzioni semplicistiche al problema. Nemmeno la scuola è indenne dal costume italiano di trasformare gli accadimenti in “fenomeni”, da curare con pillole di saggezza spiccia o direttamente con il Codice Penale: c’è, infatti, chi invoca un richiamo al contratto dei docenti per tutelarli da ragazzi bulli e genitori violenti. Uno scenario da Far West. D’altronde, che andare a scuola fosse una missione da eroi e che far lezione domandasse, oltre ad una grande competenza, una buona dose di coraggio, era ormai risaputo. Non ci sono soluzioni miracolistiche.

Le radici di questa confusione partono da lontano, da una causa disgregante la società nella sua essenza. Da quando la famiglia, quale cellula fondante del vivere civile, è stata ferita nei suoi diritti, confusione e squilibrio sono più evidenti, nei rapporti interpersonali e tra le forze che animano la società, partiti compresi. Le stesse prevaricazioni dell’uno sull’altro, con la pretesa di spaccarsi a vicenda, dimostrano una assoluta mancanza di dialogo, che dovrebbe stare naturalmente al cuore della società civile per la sua sopravvivenza. Evidentemente, ne è compromesso il nucleo.

Entrando maggiormente in medias res, occorre ricordare che la Repubblica non “attribuisce” i diritti alla famiglia, ma si limita a “riconoscerli” e a “garantirli”, in quanto preesistenti allo Stato, come avviene per i diritti inviolabili dell’uomo, secondo quanto dispone l’articolo 2 della Costituzione. Da qui possiamo ripartire per trovare le motivazioni giuridiche atte a riflettere ed eventualmente a comprendere come poter sanare il guasto evidente della società contemporanea, dovuto anche alla grave crisi della famiglia. Occorre infatti chiarire i rapporti tra famiglia e Stato superando una errata sussidiarietà al contrario. Un welfare capace di ristabilire l’armonia e il corretto ordine delle sue componenti, recuperando una dimensione “a misura di famiglia”, sarà la garanzia contro ogni deriva di matrice individualista o collettivista. Nella famiglia il “noi” non sacrifica il singolo bensì, mentre rispetta quest’ultimo e ne persegue il bene, ha di vista il bene comune. La famiglia diviene cosi modello per una società improntata a solidarietà, partecipazione, aiuto reciproco, giustizia. Scrive sapientemente Gregoria Cannarozzo in “Il principio di sussidiarietà, la scuola e la famiglia”: “(..) la interazione scuola-genitori nel nuovo scenario creato dalla costituzionalizzazione della sussidiarietà orizzontale e verticale e recepito dalla riforma del sistema di istruzione e di formazione (legge 53/2003) dà nuova cittadinanza alla famiglia potenziando la reciproca valorizzazione del ruolo e della funzione di quella che è la prima e fondamentale formazione sociale entro cui si svolge la personalità di ciascuno (art. 2 della Costituzione). Proprio in forza del fatto che, specificamente nella famiglia, che può essere considerata, per i suoi aspetti di reciprocità, relazionalità, solidarietà, fiducia, una delle forme primarie della Welfare Community, e fonte di capitale sociale, la persona diventa titolare di diritti non in quanto semplice individuo bensì in quanto membro della famiglia medesima.” La società e lo Stato, nelle loro relazioni con la famiglia, hanno l’obbligo, di attenersi al principio di sussidiarietà, in forza del quale le autorità pubbliche non devono sottrarre alla famiglia quei compiti che essa può svolgere da sola o liberamente associata con altre famiglie. Questo contempla il dovere da parte delle stesse autorità di sostenere la famiglia, assicurandole tutti gli aiuti di cui essa ha bisogno per assumersi in modo adeguato le sue responsabilità.

La crisi odierna appare cosi la risultanza di una logica ambivalente che lo Stato dal Novecento ad oggi ha adottato verso la famiglia: da un lato l’ha esaltata come luogo degli affetti privati, cellula del mercato e del consenso politico, dall’altro l’ha nei fatti combattuta come sfera caratterizzata da legami forti e stabili, potenzialmente oppressivi. Un’ambivalenza che ne ha caratterizzato la sfera educativa. Non si guarda alla famiglia come soggetto di diritti e di azioni che incidono nella società civile, bensì come soggetto che consuma in una logica stringente di mercato. Eppure sarebbe importante che il rapporto tra famiglia, società intermedia e Stato si mantenesse costante, aperto e costruttivo per affrontare insieme le criticità che emergono dalla società contemporanea.

L’identità umana, benché non si esaurisca nell’esperienza familiare, ritrova in essa la palestra che le permette di realizzarsi in pienezza. Una civiltà che non è in grado di difendere la vita dei più deboli, dei nascituri, dei più poveri e degli ammalati, uno Stato che non riconosce e non difende il diritto primordiale alla scelta in ambito educativo da parte della famiglia si condannerebbero alla disumanizzazione e finirebbero per rinnegare i principi democratici, espressi a parole nella carta costituzionale. Un monito che ci richiama alla nostra responsabilità. “La Costituzione è il fondamento della Repubblica. Se cade dal cuore del popolo, se non è rispettata dalle autorità politiche, se non è difesa dal governo e dal Parlamento, se è manomessa dai partiti verrà a mancare il terreno sodo sul quale sono fabbricate le nostre istituzioni e ancorate le nostre libertà.” (Luigi Sturzo).

A che cosa serve riconoscere un diritto se poi non lo si garantisce? È una domanda che viene proposta dal 2010, senza ottenere alcuna risposta. Ricordiamo la sapienza dei Costituenti, coraggiosi davvero, se si considera che sono stati disposti a dare la vita e a non ricevere il vitalizio. All’art. 3 dei princìpi fondanti della Costituzione, essi scrivono: «È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio». È stato più volte dimostrato che i genitori, per esercitare la propria inderogabile responsabilità educativa, devono poterla esprimere liberamente. E la libertà implica una possibilità di scelta, che necessariamente –se non si vuol ricadere in quella contraddizione in termini che, per dirla con le parole di Aristotele, “ci rende tronchi”– domanda pluralismo educativo. Buona la scuola pubblica statale (cioè dallo Stato gestita e controllata), buona la scuola pubblica paritaria (quella scuola che dallo Stato non è gestita, ma controllata).

Ma l’Italia ignora questo elementare principio di diritto: in realtà, la famiglia è considerata dallo Stato “incapace di intendere e di volere”. Può scegliere, infatti, di ricoverare il nonno al San Raffaele pagando un ticket, ma non può scegliere di educare il figlio presso una buona scuola pubblica paritaria, la quale fa parte, come la pubblica statale, del Servizio Nazionale di Istruzione. I genitori, con il loro lavoro, non riescono a pagare e le tasse per la scuola pubblica statale e la retta che fa funzionare la scuola pubblica paritaria che vorrebbero. I poveri, insomma, devono pagare due volte per esercitare il loro diritto di libera scelta, nonostante la Costituzione reciti: «La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali (art. 33, comma 4)». In Italia il figlio dell’operaio e quello del portinaio non possono scegliere una buona scuola pubblica paritaria, mentre può farlo il figlio del deputato, anche del grillino, che in campagna elettorale era contro le paritarie, ma intanto vi accompagnava ogni giorno il pargolo, pagando una retta di € 3.500 annui. La famiglia povera, dunque, deve iscrivere il figlio alla scuola pubblica statale. Non resta che pensare che lo Stato italiano abbia applicato il secondo comma dell’art. 30: «Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti».

L’Italia è, in questo ambito, la più grave eccezione in Europa. Una libertà così osteggiata poteva forse non alimentare il processo di delegittimazione del ruolo dei genitori e, con loro, dei docenti? Una scuola che negli anni ha rifiutato la valutazione e la meritocrazia, una scuola preda dei sindacati, che l’hanno ridotta ad ammortizzatore sociale, poteva forse aspettarsi un esito differente? E oggi, pur di continuare a negare l’urgenza di garantire la libertà di scelta educativa ai genitori (assicurata invece, ad esempio, nella laica Francia), si stigmatizzano gli studenti come violenti, si rispolvera la notizia di reato e la pena, invocando una tutela per i docenti. Follia, ignoranza o –peggio– malafede?

Il fenomeno sociale odierno ci impone una riflessione non punitiva o di tutela, bensì di garanzia del diritto principe dei genitori, che è quello di esercitare liberamente la propria responsabilità educativa: solo da qui potrà scaturire la legittimazione di tutte le parti coinvolte. I sindacati, i politici, i cittadini sono disponibili ad una serietà di argomentazione su questo tema?

La via maestra per assicurare una effettiva autonomia delle istituzioni scolastiche e una reale parità scolastica passa dalla riorganizzazione del finanziamento dell’intero Sistema Nazionale di Istruzione attraverso la definizione del costo standard di sostenibilità per allievo. Lo dimostra scientificamente – dati alla mano – il saggio Il diritto di apprendere. Nuove linee di investimento per un sistema integrato, ed. Giappichelli 2015, di Alfieri, Grumo, Parola, con la prefazione dell’on. Stefania Giannini. In pratica, dotando ogni alunno di un cachet da spendere nell’istituto che intende scegliere, si realizzerebbe finalmente il pluralismo educativo, dando così alle famiglie la possibilità di decidere fra una buona scuola pubblica statale e una buona scuola pubblica paritaria, a costo zero. Si attiverebbe, inoltre, una sana concorrenza tra le scuole pubbliche, statali e paritarie, mirata al miglioramento dell’offerta formativa. L’alternativa è quella dei finanziamenti a pioggia per fantomatici progetti, che rappresenta però il tracollo economico della scuola pubblica statale nonché l’impossibilità di garantire il pluralismo educativo offerto dalla pubblica paritaria.

È il rischio della scuola unica di regime, che già si corre nell’indifferenza dei più.

 sr AnnaMonia Alfieri

 

SOTTO LA TUA PROTEZIONE…

MADONNAIl popolo cristiano fin dagli inizi, nelle difficoltà e nelle prove ricorre alla Madre, come indica la più antica antifona mariana: Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta.

Cerchiamo rifugio. I nostri Padri nella fede hanno insegnato che nei momenti turbolenti bisogna raccogliersi sotto il manto della Santa Madre di Dio. Un tempo i perseguitati e i bisognosi cercavano rifugio presso le nobili donne altolocate: quando il loro mantello, che era ritenuto inviolabile, si stendeva in segno di accoglienza, la protezione era concessa. Così è per noi nei riguardi della Madonna, la donna più alta del genere umano. Il suo manto è sempre aperto per accoglierci e raccoglierci.

Ce lo ricorda bene l’Oriente cristiano, dove molti festeggiano la Protezione della Madre di Dio, che in una bella icona è raffigurata mentre, col suo manto, ripara i figli e copre il mondo intero. Anche i monaci antichi raccomandavano, nelle prove, di rifugiarsi sotto il manto della Santa Madre di Dio: invocarla – “Santa Madre di Dio” – era già garanzia di protezione e di aiuto e questa preghiera ripetuta: “Santa Madre di Dio”, “Santa Madre di Dio” … Soltanto così. Questa sapienza, che viene da lontano, ci aiuta: la Madre custodisce la fede, protegge le relazioni, salva nelle intemperie e preserva dal male. Dove la Madonna è di casa il diavolo non entra. Dove la Madonna è di casa il diavolo non entra. Dove c’è la Madre il turbamento non prevale, la paura non vince. Chi di noi non ha bisogno di questo, chi di noi non è talvolta turbato o inquieto? Quante volte il cuore è un mare in tempesta, dove le onde dei problemi si accavallano e i venti delle preoccupazioni non cessano di soffiare! Maria è l’arca sicura in mezzo al diluvio. Non saranno le idee o la tecnologia a darci conforto e speranza, ma il volto della Madre, le sue mani che accarezzano la vita, il suo manto che ci ripara. Impariamo a trovare rifugio, andando ogni giorno dalla Madre.

Non disprezzare le suppliche, continua l’antifona. Quando noi la supplichiamo, Maria supplica per noi. C’è un bel titolo in greco che dice questo: Grigorusa, cioè “colei che intercede prontamente”. E questo prontamente è quanto usa Luca nel Vangelo per dire come è andata Maria da Elisabetta: presto, subito! Intercede prontamente, non ritarda, come abbiamo sentito nel Vangelo, dove porta subito a Gesù il bisogno concreto di quella gente: «Non hanno vino» (Gv 2,3), niente più! Così fa ogni volta, se la invochiamo: quando ci manca la speranza, quando scarseggia la gioia, quando si esauriscono le forze, quando si oscura la stella della vita, la Madre interviene. E se la invochiamo, interviene di più. È attenta alle fatiche, sensibile alle turbolenze le turbolenze della vita -, vicina al cuore. E mai, mai disprezza le nostre preghiere; non ne lascia cadere nemmeno una. È Madre, non si vergogna mai di noi, anzi attende solo di poter aiutare i suoi figli.

Un episodio può aiutarci a capire. Accanto a un letto di ospedale una madre vegliava il proprio figlio, dolorante dopo un incidente. Quella madre stava sempre lì, giorno e notte.

Una volta si lamentò col sacerdote, dicendo: «Ma il Signore non ha permesso una cosa a noi madri!». «Che cosa?» – chiese il prete. «Prendere il dolore dei figli», rispose la donna. Ecco il cuore di madre: non si vergogna delle ferite, delle debolezze dei figli, ma le vuole con sé. E la Madre di Dio e nostra sa prendere con sé, consolare, vegliare, risanare.

Continua l’antifona, liberaci da ogni pericolo. Il Signore stesso sa che ci occorrono rifugio e protezione in mezzo a tanti pericoli. Per questo, nel momento più alto, sulla croce, ha detto al discepolo amato, a ogni discepolo: «Ecco tua Madre!» (Gv 19,27).

La Madre non è un optional, una cosa opzionale, è il testamento di Cristo. E noi abbiamo bisogno di lei come un viandante del ristoro, come un bimbo di essere portato in braccio. È un grande pericolo per la fede vivere senza Madre, senza protezione, lasciandoci trasportare dalla vita come le foglie dal vento. Il Signore lo sa e ci raccomanda di accogliere la Madre. Non è galateo spirituale, è un’esigenza di vita. Amarla non è poesia, è saper vivere. Perché senza Madre non possiamo essere figli. E noi, prima di tutto, siamo figli, figli amati, che hanno Dio per Padre e la Madonna per Madre.

Il Concilio Vaticano II insegna che Maria è «segno di certa speranza e di consolazione per il peregrinante popolo di Dio» (Cost. Lumen gentium, VIII, V). È segno, è il segno che Dio ha posto per noi. Se non lo seguiamo, andiamo fuori strada. Perché c’è una segnaletica della vita spirituale, che va osservata. Essa indica a noi, «ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni» (ivi, 62), la Madre, che è già giunta alla meta. Chi meglio di lei può accompagnarci nel cammino?

Che cosa aspettiamo? Come il discepolo che sotto la croce accolse la Madre con sé, «fra le cose proprie», dice il Vangelo (Gv 19,27), anche noi, da questa casa materna, invitiamo Maria a casa nostra, nel cuore nostro, nella vita nostra. Non si può stare neutrali o distaccati dalla Madre, altrimenti perdiamo la nostra identità di figli e la nostra identità di popolo, e viviamo un cristianesimo fatto di idee, di programmi, senza affidamento, senza tenerezza, senza cuore.

Ma senza cuore non c’è amore e la fede rischia di diventare una bella favola di altri tempi.

La Madre, invece, custodisce e prepara i figli. Li ama e li protegge, perché amino e proteggano il mondo. Facciamo della Madre l’ospite della nostra quotidianità, la presenza costante a casa nostra, il nostro rifugio sicuro. Affidiamole ogni giornata. Invochiamola in ogni turbolenza. E non dimentichiamoci di tornare da lei per ringraziarla.

Papa Francesco, Omelia, Celebrazione eucaristica

Basilica S. Maria Maggiore, 28 gennaio 2018

Io sono il buon pastore…

Dal vangelo di Giovanni  Gv 10, 11-18

pastore1«Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

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La IV domenica di Pasqua ci presenta come ogni anno il testo evangelico del Buon Pastore (Gv 10,1-21) e si svolge nel clima della giornata di preghiera per le vocazioni. Il testo giovanneo viene suddiviso in tre parti: nell’ano in corso (ciclo B) il testo è quello centrale (Gv 10,11-18) dove Gesù stesso spiega il significato dell’immagine del buon pastore . La pericope si divide in tre parti: vv. 11-13 l’identità del buon pastore; vv. 13-16 la conoscenza esistente tra il pastore e il suo gregge ed infine vv. 17-18 il dono della vita. E’ evidente il legame pasquale con questo capitolo 10 giovanneo, dove sotto l’allegoria del pastore e della porta si parla dell’unico mediatore che Dio ha inviato per salvare il suo popolo (con riferimenti pure all’Esodo), mediatore che offre la sua vita. Il capitolo 10 si apre con una formula solenne e con la seguente affermazione: “In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore . La mancanza di un’introduzione qualsiasi tradisce il legame con il capitolo precedente e le sue tematiche, in particolare l’espulsione del cieco risanato a causa della sua fede in Gesù Cristo. L’affermazione di Gesù è dunque rivolta a quanti sono citati al capitolo 9 e cerca di spiegare la situazione. Si tratta di una forma letteraria, quella utilizzata nel capitolo 10, che non è propriamente una parabola, né un’allegoria, ma un insegnamento simbolico, segreto, misterioso, che prepara ed esige una rivelazione aperta, esplicita (I. de la Potterie). Un discorso enigmatico con un forte contenuto messianico, circa l’opera di Gesù e la sua identità. Infatti l’apertura (al v. 1 con la formula solenne: in verità, in verità io vi dico) richiama l’attenzione a qualcosa di fondamentale e importante. I testi scritturistici abbinati al vangelo di questa domenica, oltre al salmo pasquale (sal 117) sono un brano della prima lettera di san Giovanni (1Gv 3,1-2) dove ritroviamo il tema della conoscenza vitale tra Gesù / Dio Padre e noi suoi figli e il testo di Atti (At 4,8-12) in cui Pietro afferma che solo nel nome di Gesù c’è salvezza. La centralità dell’opera di Cristo Gesù nel piano di salvezza di Dio Padre appare così in piena luce, mostrando che essa si compie nel dare la vita; un modello a cui i discepoli sono invitati a guardare e in cui ogni vocazione nella Chiesa prende forma e può sussistere. Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Dopo la spiegazione dell’immagine della porta (che occupa i vv. precedente) ora Gesù afferma di essere lui il buon o meglio il bel (in greco kalos) pastore . Il termine impiegato non è di carattere estetico e non si riferisce all’aspetto di Gesù, quanto la sua missione e le sue opere (vedi 2,10; 10,32-33) e si potrebbe tradurre anche perfetto e vero . L’immagine del pastore, che troviamo anche nei sinottici in testi diversi su Gesù e le sue opere (vedi Mt 18,12-14; Lc 15,3-7; Mt 9,36-38; Mc 6,34; 14,27; Mt 10,16; 25,31-11; Lc 12,32) ha sullo sfondo molti passi AT ed ha un chiaro valore messianico (vedi Mi 5,3; Ez 34,23-31; Ger 3,15; 23,35; Sal 23; Zc 13,7-9). La seconda parte del v. 11 specifica in che modo Gesù è il buon pastore: egli dà la propria vita per le pecore . L’espressione dare la propria vita riportata più volte in questo brano (v. 11.15.17.18) e che ritroviamo nel capitolo 13 per la lavanda dei piedi ( cfr. Gv 13,4.12, dove si parla delle vesti, simbolo della vita stessa) è tipica di Giovanni per indicare il libero gesto di Gesù che si mette nella mani del Padre in favore delle pecore, gli uomini e le donne di ogni tempo, in vista della loro salvezza. E’ lui li pastore messianico che giunge a dare la sua vita, a donare se stesso, a privarsi della vita per il bene delle sue pecore, degli altri (vedi Gv 15,13). L’idea è rafforzata dal paragone che segue con il mercenario, il quale ha con le pecore un rapporto di interesse economico, gli servono per il suo benessere. Al contrario il buon pastore ha con esse un rapporto d’amore e di fede, è lui che sacrifica la sua vita per il bene delle pecore. Il messaggio è rivolto anche a quanti nella chiesa primitiva e di sempre svolgeranno il ruolo di pastori: anch’essi dovranno essere animati dai sentimenti qui descritti e che anche san Pietro ripropone (vedi 1Pt 5,2-4). Pure negli Atti c’è un eco di questo nel discorso di Paolo a Mileto (At 20,29.31). Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. La seconda parte della pericope odierna mette in luce un altro aspetto: quello della conoscenza, altro tema mutuato dall’AT (vedi Os 6,6; Am 3,2; Ger 22,16; Sal 139,1-6) e dal contesto biblico generale in cui il verbo greco ginòsko indica una conoscenza esistenziale dove tutta la persona e la sua esperienza concreta è coinvolta. Il tema della conoscenza (già emerso nei vv. 4-5 di questo capitolo 10) tra Gesù e i suoi ha come riferimento e matrice la conoscenza tra il Padre e il Figlio, si tratta di una conoscenza reale e intensa, dall’amore ( 1Cor 8,3: chi ama Dio è da lui conosciuto dirà san Paolo). Una amore che si allarga oltre i confini di Israele, oltre i confini della chiesa primitiva di Gerusalemme e giunge a tutti gli uomini e le donne. Un’apertura missionaria che sarà quella della Chiesa: “E’ caratteristico del vangelo di Giovanni proiettare lo guardo sul futuro della Chiesa (cf. 4,34-38; 12,20-24), partendo dalla situazione di Gesù. Paragonando il v. 16 con il contenuto dei vv. 1-5, a cui rimanda in particolare la ripetuta menzione dell’ovile, vediamo due periodi … Il primo periodo è legato … alla vita terrena di Gesù. Il secondo periodo, che segue l'”esaltazione” legata all’offerta della sua vita, concerne le pecore venute da ogni dove: è il tempo della Chiesa, che vive sotto la guida del Signore glorificato” (O. Kiefer). Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18 Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio”. Infine la terza parte del vangelo che oggi ci viene proposto riprende il tema del donare la vita, con un nuovo elemento: il rapporto tra Gesù e il Padre è legato a questo dono di sé che è pure il suo comando .

Nel testo di Giovanni troviamo diversi riferimenti a questa idea (12,24.32; 15,13; 16,21): l’amore del Padre per il Figlio e per il mondo e l’amore del Figlio per il Padre e per il mondo si manifesta nell’obbedienza sino alla morte di croce, dove si dona completamente e liberamente per dare la vita in abbondanza a noi e a cui il Padre risponde con la resurrezione il luogo in Gesù riprende di nuovo la sua vita donata. Ogni discepolo ha quindi in Gesù un modello secondo l’evangelista Giovanni, perché in lui può vedere/riconoscere l’amore di cui anche la sua vita deve essere normata (cfr. 1Gv 3,16). Dalla pagina evangelica di oggi oltre al ritratto di Gesù scaturisce quello dei suoi discepoli e della Chiesa intera.

Monastero Matris Domini