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Autem vel eum iriure dolor in hendrerit in vulputate velit esse molestie consequat, vel illum dolore eu feugiat nulla facilisis at vero eros et dolore feugait

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BAMBINIÈ cambiata la geografia mondiale del fenomeno, ma non la sua entità. I bambini soldato continuano ad essere utilizzati nei conflitti armati, nonostante gli accordi internazionali, fra cui quello fondamentale entrato in vigore il 12 febbraio 2002, all’origine della Giornata internazionale contro l’uso dei bambini soldato […].

Eppure l’emergenza bambini soldato sembra finita in fondo alla lista dall’agenda internazionale. Dei fondi per l’aiuto allo sviluppo solo lo 0.6% viene utilizzato per smobilitare e reintegrare i bambini rapiti dalle milizie e costretti a commettere atrocità e a combattere, accusa l’organizzazione Child Soldiers International. E non viene fatto abbastanza per impedire che in alcuni Paesi i bambini vegano arruolati, a volte anche negli eserciti regolari.

L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite sui bambini nei conflitti armati stila un elenco di 56 gruppi armati e di sette eserciti regolari che reclutano e utilizzano bambini. Durante il 2017, più di 3000 casi sono stati registrati solo nella Repubblica democratica del Congo e almeno 19.000 nel Sud Sudan. L’impiego di bambini soldato è inoltre raddoppiato nel Medio Oriente.

È cresciuto anche lo sfruttamento delle bambine, sia nei conflitti che come schiave sessuali. La milizia terrorista Boko Haram in Nigeria ha usato 83 bambini come bombe umane solo nei primi otto mesi del 2017, e il 66% erano bambine. «I bambini soldato sono ideali perché non si lamentano, non si aspettano di essere pagati e se dici loro di uccidere, loro uccidono» ha detto un ufficiale dell’esercito nazionale del Chad in una testimonianza riportata dalla Coalizione Stop all’uso dei bambini soldato!, una rete di organizzazioni italiane impegnate sia con progetti sul campo che nella sensibilizzazione a livello internazionale.

Vale la pena leggere le loro testimonianze: «Io sono stata rapita in un campo in pieno giorno», dice Ester,14 anni, rapita da un gruppo armato in Uganda e costretta a lavorare per i ribelli. «Dovevamo camminare tutto il tempo e procurare cibo per i ribelli. Dopo due mesi ho avuto la possibilità di scappare. Adesso vivo a Gusco ma torno spesso a casa. Ciò che desidero è tornare a scuola».

Zachariah, ora ha 15 anni e ne aveva 12 quando soldati di un gruppo armato hanno circondato la sua scuola situata in una zona rurale del Nord-Kivu e lo hanno condotto assieme a molti altri compagni nella foresta. Per 3 anni è stato esposto a pericoli, sofferenze, percosse, malnutrizione e malattia, prima di essere finalmente rilasciato. Dei suoi compagni di scuola dice: “la maggior parte sono morti”.

Fra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio di questo anno la missione Minuss delle Nazioni Unite ha liberato in Sud Sudan 311 bambini soldato, tra cui 87 bambine. Si tratta della prima fase di un programma che ha l’obiettivo di smobilitare 700 bambini soldato nella regione di Yambio. Tra questi 563 combattono con le forze dell’ex presidente Salva Kiir e 137 in quelle dell’ex vicepresidente Riek Machar. La missione ha visto la collaborazione di Unicef, capi religiosi e autorità locali per negoziare la liberazione, ma è solo un piccolo passo. Sono infatti 19.000 i bambini soldato in Sud Sudan. Che continuano a subire violenze e sono costretti a loro volta a commetterne.

Emanuela Citterio

(articolo tratto da www.mondoemissione.it)

INSIEME1Sono preoccupato per l’isolamento che viviamo nella mia comunità: ciascuno si occupa delle proprie cose, con relazioni minime con i fratelli, mentre verso l’esterno c’è un’attività frenetica. È come una specie di doppia personalità: estremamente sociale, simpatica e disponibile ad extra, ma alquanto ermetica ad intra, forse perché le persone non si sentono valorizzate. Un formatore

 Fino a qualche anno fa queste parole potevano riferirsi, con certezza, soprattutto alle realtà maschili. Oggi invece non si può dire la stessa cosa: anche molte realtà femminili soffrono nel vedere le loro giovani e meno giovani chiudersi nelle proprie stanze, non appena possono. Qui, davanti a cellulare e computer si apre un mondo, anche bello: si naviga tra notizie di attualità, scambio di chat, Skype con la propria famiglia o con gli amici. Insomma, dentro la propria stanza c’è un intero mondo relazionale, invisibile a chi sta intorno, ma reale. Oppure ci si dedica appassionatamente ad attività apostoliche, solo che mentre fuori la persona è una sorta di eroe multitasking, dentro il proprio ambiente si spegne. Pare ci sia una forza centrifuga che allontana i membri delle comunità dai propri focolari domestici.

Che succede?

A domanda rilancio un’altra domanda: la vita comunitaria è ancora attraente per i suoi membri? Talvolta ho l’impressione che il modo di pregare, il modo di stare insieme, perfino il modo di svagarsi non corrisponda ai desideri e alle esigenze dei suoi membri. Consacrati e consacrate possono vivere secondo uno stile che non piace proprio a loro stessi, il che è piuttosto paradossale. Alessandro d’Avenia, ricordando l’esperienza di Ulisse, mosso dal desiderio e dalla passione di tornare ad Itaca, per sé e per i suoi compagni, aggiunge che però «prima bisogna aver reso la pietrosa Itaca il luogo più bello per cui lottare […] Ma dov’è finita Itaca?».

Per accendere la passione per la propria “terra” occorre ripensare a come renderla ospitale per chi vi abita.

Penso soprattutto al rapporto (spesso indefinibile) che lega i membri tra loro: relazioni a volte adolescenziali, cioè fatte di affetti appiccicosi e limitanti, relazioni altre volte formali, più che fraterne, che non sanno di molto e non possono certo animare la vita di comunità, né rappresentare una forza di attrazione reciproca. Non è raro che un seminarista o una consacrata dicano di sentirsi più valorizzati in parrocchia che in comunità. Eppure Itaca è tale «proprio grazie ai legami che la rendano Itaca».

Allora c’è qualcosa che non torna: ci si conosce poco, tempo ed energie scarseggiano, forse si dà per scontato che una stessa vocazione renda automaticamente il vivere insieme una fraternità, invece non è così.

C’è però un altro aspetto che mi sembra di cogliere oggi: le comunità spesso sono vissute come luoghi di passaggio, o trampolino di lancio per i percorsi individuali, come se la vita in comune non avesse un senso in se stessa. Molti “soffrono” la vita comunitaria perché non è abbastanza attenta alla persona, a “me”, e per questo cercano spazi esterni di realizzazione di sé.

Allora c’è da riflettere su cosa ci si attenda dalla vita comunitaria, cosa la vita comunitaria voglia dare ai suoi membri, e viceversa.

È come se l’aspetto del vivere insieme non fosse parte integrante della vocazione, ma un dettaglio eventuale, che deve comunque sottomettersi alle esigenze di ciascuno. I gruppi a movente ideale soffrono molto oggi un indebolimento del loro aspetto comunitario, forse proprio come reazione ad un passato dove invece il gruppo era una sorta di “mito”, a discapito dell’individuo.

Mi pare sia questa la grande sfida della vita in comune nel nostro tempo, lo dico da laica che la osserva ammirata: tornare a credere di più in se stessa grazie ai suoi testimoni appassionati ed autentici, che insieme ad altri fratelli e sorelle – non amici, né sposi/e, né commilitoni – desiderano vivere il carisma scelto e, perché no?, che hanno anche il coraggio di ripensare se la propria terra si possa migliorare, rendendo Itaca meno pietrosa.

Fonte: cittanuova.it

…Vide e credette…

Dal Vangelo di Giovanni                    Gv 20, 1-9

Pasqua

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

……………………………………………..

La pericope odierna è tutta incentrata sul tema della “tomba vuota”. Essa, com’è noto, non è sufficiente a “dimostrare” la resurrezione di Gesù, non è una “prova” di essa; e tuttavia è un importante indizio, un “segno” per chi sa leggerlo correttamente.

Giovanni, che ama esprimere attraverso singoli ed emblematici personaggi diverse posizioni, ci presenta nel cap.20 le tre diverse reazioni di fronte alla tomba vuota di Maria Maddalena, di Pietro e dell’ “altro discepolo”, che è poi lo stesso Giovanni, il “Discepolo amato”.

Giunta al sepolcro, Maria vede (“blépei”) la pietra tolta, ribaltata via. Il suo vedere è espresso con “blépo”, un verbo greco che indica il vedere fisico, il semplice scorgere con gli occhi, la percezione materiale. Da questa percezione deriva alla donna una conclusione puramente umana: il cadavere non c’è più, quindi è stato rubato, portato via. Di qui il suo dolore, anzi la sua angoscia, perché le è stata sottratta – forse per sempre – l’unica reliquia che le era rimasta del suo amato Maestro.

Ella avverte di ciò i due maggiori esponenti della comunità cristiana primitiva e anch’essi vanno subito, e di corsa, al sepolcro. Pietro, cui Giovanni ha dato la precedenza, entra nella tomba e “osserva” tele e sudario piegati accuratamente. Questa volta il verbo greco è “theoréin”, che dice più del semplice vedere fisico: significa infatti “scrutare attentamente” ed implica uno sguardo attento, riflessivo, interrogante. Infatti dal passo parallelo di Luca (c.24, a.12 b) veniamo a sapere che Pietro era “pieno di stupore” per l’accaduto.

Infine anche il terzo personaggio emblematico del racconto, “l’altro discepolo”, entra nel sepolcro e di lui l’autore dice che “vide e credette”. Questa volta il verbo greco tradotto con “vide” è “éiden”, il perfetto di “horào”, che significa guardare, percepire, prendere conoscenza; nel linguaggio biblico del N.T. il verbo indica anche la visione spirituale. Siamo cioè a un terzo gradino di profondità rispetto agli altri due verbi esaminati.

Che cosa vide e che cosa credette Giovanni?

Gli esegeti hanno dato risposte diverse, anche perché il v.7 costituisce una vera e propria “crux” interpretativa.

Da parte mia ho trovato convincente la proposta di traduzione fatta dal sacerdote biblista Don Antonio Persili (ampiamente citato da V. Messori in “Dicono che è risorto”, capp.12°-13°), il quale

ha dedicato interi decenni (sic!) a studiare Giov.20,3-8, esplorando non solo il testo originale, ma il contesto storico, archeologico, antropologico, gli usi e i costumi funerari del tempo, etc.

Sulla base di una ben documentata analisi filologica, egli propone una traduzione dei vv.6-7 diversa da quella ufficiale e cioè:

NON “[Pietro] osservò i teli posati là, 7e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.”

MA: “[Pietro] contempla le fasce distese e ( 7) il sudario, che era sul capo di lui, non disteso con le fasce, ma al contrario avvolto in una posizione unica”.

Che cosa si evince da questa traduzione?

Anzitutto le fasce, cioè le strisce di tela che avvolgevano il lenzuolo funerario (o sindone), se prima erano rialzate (perché all’interno c’era il corpo), ora sono “abbassate”, “distese”; cioè intatte, non manomesse, non disciolte. “Esse – afferma Persili – costituiscono la prima traccia della Resurrezione: era infatti assolutamente impossibile che il corpo di Gesù fosse uscito dalle fasce, semplicemente rianimato, o che fosse stato asportato, sia da amici che da nemici, senza svolgere quelle fasce o, comunque, senza manometterle in qualche maniera” (da “Sulle tracce del Cristo Risorto”).

Ma soprattutto risulta interessante il particolare del sudario (cui Giovanni dedica un intero versetto, il 7), che, secondo la traduzione proposta, si trova non separato dalle bende, bensì sopra le bende, nel punto in cui stava la testa del cadavere, “avvolto in una posizione unica”; infatti “unica”, cioè singolare, eccezionale, irripetibile, appare la posizione di tale sudario agli occhi di Pietro e Giovanni, perché è una sfida alla forza di gravità! Come poteva un telo rimanere “rialzato” ed “avvolto” senza nulla dentro? L’unica spiegazione plausibile è che il sudario fosse rimasto per così dire “inamidato” per l’essiccarsi (immediato) dei profumi liquidi abbondantemente versati su di esso al momento della sepoltura: era un involucro “imbalsamato”, che conservava ancora la forma di ciò che aveva contenuto fino a qualche ora prima, come se il corpo l’avesse misteriosamente attraversato senza scomporlo. Del resto Gesù risorto non sarebbe apparso all’improvviso nel cenacolo, a porte chiuse?

Ora, Pietro e Giovanni videro le medesime cose, ma solo di Giovanni si dice che “vide e credette”, perché? E che cosa “vide” Giovanni, che cosa “credette”?

Anzitutto Giovanni, a differenza di Pietro, era rimasto con Gesù fino alla fine, aveva assistito alla sua sepoltura e ora, chinatosi sul sepolcro, vede che bende e sudario sono esattamente nella posizione in cui si trovava il cadavere e collocate in modo che, come visto sopra, escludeva qualsiasi manomissione.

Ricordiamo che per l’evangelista Giovanni “vedere” (“horào”) è anche un prendere coscienza di un evento della rivelazione. Il discepolo dunque “vide”, in modo più profondo degli altri, che Gesù non era uscito dalle tele, perché, all’interno di esse, era entrato direttamente nella dimensione dell’eternità, con un passaggio misterioso da uno stato all’altro, dal tempo all’eterno. In questo “vedere” gli fu di aiuto – come detto – la sua precedente esperienza al sepolcro.

Ma soprattutto era l’amore per Gesù di cui il “discepolo amato” era penetrato che lasciò passare in lui la luce: le fasce, afflosciate su se stesse ma ancora avvolte, e il sudario in quella strana posizione, erano il SEGNO che Gesù era uscito vivodal sepolcro, sottraendosi in maniera misteriosa ai panni che Lo avvolgevano. Giovanni coglie dunque nella disposizione delle bende e del sudario un rinvio. Non vede il Risorto, ma la sua traccia.

Di conseguenza egli crede, prima ancora di incontrarLo come avverrà per gli altri (che solo allora crederanno alla resurrezione), che Gesù è davvero resuscitato dai morti.

Ileana Mortari

Da Vangelo di Giovanni                    Gv 20, 1-9

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

 

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La pericope odierna è tutta incentrata sul tema della “tomba vuota”. Essa, com’è noto, non è sufficiente a “dimostrare” la resurrezione di Gesù, non è una “prova” di essa; e tuttavia è un importante indizio, un “segno” per chi sa leggerlo correttamente.

Giovanni, che ama esprimere attraverso singoli ed emblematici personaggi diverse posizioni, ci presenta nel cap.20 le tre diverse reazioni di fronte alla tomba vuota di Maria Maddalena, di Pietro e dell’ “altro discepolo”, che è poi lo stesso Giovanni, il “Discepolo amato”.

Giunta al sepolcro, Maria vede (“blépei”) la pietra tolta, ribaltata via. Il suo vedere è espresso con “blépo”, un verbo greco che indica il vedere fisico, il semplice scorgere con gli occhi, la percezione materiale. Da questa percezione deriva alla donna una conclusione puramente umana: il cadavere non c’è più, quindi è stato rubato, portato via. Di qui il suo dolore, anzi la sua angoscia, perché le è stata sottratta – forse per sempre – l’unica reliquia che le era rimasta del suo amato Maestro.

Ella avverte di ciò i due maggiori esponenti della comunità cristiana primitiva e anch’essi vanno subito, e di corsa, al sepolcro. Pietro, cui Giovanni ha dato la precedenza, entra nella tomba e “osserva” tele e sudario piegati accuratamente. Questa volta il verbo greco è “theoréin”, che dice più del semplice vedere fisico: significa infatti “scrutare attentamente” ed implica uno sguardo attento, riflessivo, interrogante. Infatti dal passo parallelo di Luca (c.24, a.12 b) veniamo a sapere che Pietro era “pieno di stupore” per l’accaduto.

Infine anche il terzo personaggio emblematico del racconto, “l’altro discepolo”, entra nel sepolcro e di lui l’autore dice che “vide e credette”. Questa volta il verbo greco tradotto con “vide” è “éiden”, il perfetto di “horào”, che significa guardare, percepire, prendere conoscenza; nel linguaggio biblico del N.T. il verbo indica anche la visione spirituale. Siamo cioè a un terzo gradino di profondità rispetto agli altri due verbi esaminati.

Che cosa vide e che cosa credette Giovanni?

Gli esegeti hanno dato risposte diverse, anche perché il v.7 costituisce una vera e propria “crux” interpretativa.

Da parte mia ho trovato convincente la proposta di traduzione fatta dal sacerdote biblista Don Antonio Persili (ampiamente citato da V. Messori in “Dicono che è risorto”, capp.12°-13°), il quale ha dedicato interi decenni (sic!) a studiare Giov.20,3-8, esplorando non solo il testo originale, ma il contesto storico, archeologico, antropologico, gli usi e i costumi funerari del tempo, etc.

Sulla base di una ben documentata analisi filologica, egli propone una traduzione dei vv.6-7 diversa da quella ufficiale e cioè:

NON “[Pietro] osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.”

MA: “[Pietro] contempla le fasce distese e  il sudario, che era sul capo di lui, non disteso con le

fasce, ma al contrario avvolto in una posizione unica”

Che cosa si evince da questa traduzione?

Anzitutto le fasce, cioè le strisce di tela che avvolgevano il lenzuolo funerario (o sindone), se prima erano rialzate (perché all’interno c’era il corpo), ora sono “abbassate”, “distese”; cioè intatte, non manomesse, non disciolte. “Esse – afferma Persili – costituiscono la prima traccia della Resurrezione: era infatti assolutamente impossibile che il corpo di Gesù fosse uscito dalle fasce, semplicemente rianimato, o che fosse stato asportato, sia da amici che da nemici, senza svolgere quelle fasce o, comunque, senza manometterle in qualche maniera” (da “Sulle tracce del Cristo Risorto”).

Ma soprattutto risulta interessante il particolare del sudario (cui Giovanni dedica un intero versetto, il 7), che, secondo la traduzione proposta, si trova non separato dalle bende, bensì sopra le bende, nel punto in cui stava la testa del cadavere, “avvolto in una posizione unica”; infatti “unica”, cioè singolare, eccezionale, irripetibile, appare la posizione di tale sudario agli occhi di Pietro e Giovanni, perché è una sfida alla forza di gravità! Come poteva un telo rimanere “rialzato” ed “avvolto” senza nulla dentro? L’unica spiegazione plausibile è che il sudario fosse rimasto per così dire “inamidato” per l’essiccarsi (immediato) dei profumi liquidi abbondantemente versati su di esso al momento della sepoltura: era un involucro “imbalsamato”, che conservava ancora la forma di ciò che aveva contenuto fino a qualche ora prima, come se il corpo l’avesse misteriosamente attraversato senza scomporlo. Del resto Gesù risorto non sarebbe apparso all’improvviso nel cenacolo, a porte chiuse?

Ora, Pietro e Giovanni videro le medesime cose, ma solo di Giovanni si dice che “vide e credette”, perché? E che cosa “vide” Giovanni, che cosa “credette”?

Anzitutto Giovanni, a differenza di Pietro, era rimasto con Gesù fino alla fine, aveva assistito alla sua sepoltura e ora, chinatosi sul sepolcro, vede che bende e sudario sono esattamente nella posizione in cui si trovava il cadavere e collocate in modo che, come visto sopra, escludeva qualsiasi manomissione.

Ricordiamo che per l’evangelista Giovanni “vedere” (“horào”) è anche un prendere coscienza di un evento della rivelazione. Il discepolo dunque “vide”, in modo più profondo degli altri, che Gesù non era uscito dalle tele, perché, all’interno di esse, era entrato direttamente nella dimensione dell’eternità, con un passaggio misterioso da uno stato all’altro, dal tempo all’eterno. In questo “vedere” gli fu di aiuto – come detto – la sua precedente esperienza al sepolcro.

Ma soprattutto era l’amore per Gesù di cui il “discepolo amato” era penetrato che lasciò passare in lui la luce: le fasce, afflosciate su se stesse ma ancora avvolte, e il sudario in quella strana posizione, erano il SEGNO che Gesù era uscito vivodal sepolcro, sottraendosi in maniera misteriosa ai panni che Lo avvolgevano. Giovanni coglie dunque nella disposizione delle bende e del sudario un rinvio. Non vede il Risorto, ma la sua traccia.

Di conseguenza egli crede, prima ancora di incontrarLo come avverrà per gli altri (che solo allora crederanno alla resurrezione), che Gesù è davvero resuscitato dai morti.

Ileana Mortari

 

Consacrazione e Servizio n. 3 (2018)

La metropolitana di Pechino si trasforma in biblioteca

pechino1Alcune linee della metropolitana di Pechino si sono trasformate in una lunghissima biblioteca di audiolibri. I viaggiatori della linea 4 e della circolare 10 possono contare su un apprezzatissimo servizio che gli permette di ascoltare direttamente dal proprio smartphone il libro che più gli piace. Per ascoltarli basta scaricare un’app che consente di accedere a tutti i titoli disponibili.

Un modo intelligente per passare il tempo, combattere stress e noia, trasformando ogni viaggio in metro in un’avventura differente. E la lettura non finisce una volta scesi dalla metro, memorizzando il codice si può continuare anche fuori dal treno, mentre si cammina o si prosegue il viaggio con un altro mezzo.

L’iniziativa rappresenta un forte e originale incentivo alla lettura.

Auguri!

Pasqua 2018

icona_pasqua1

Con timore e gioia grande

le donne corsero

a dare l’annuncio…

(Mt 28,8-15)

…Che possiamo essere nella Chiesa

quelle donne di risurrezione

che annunciano con gioia le ricchezze

di cui sono state gratuitamente colmate.

Buona e santa Pasqua!

Madre Regina e sorelle tutte

colomba-pace1

Nella Bibbia il primo riferimento esplicito alla colomba è nella Genesi alla fine del diluvio, quando essa ritorna da Noè che l’aveva inviata sulla terra, portando nel becco un ramoscello d’ulivo, segno che la terra non più invasa dalle acque, ritorna a essere vivibile e a produrre beni (cfr. Gen 8,8-12). La colomba ricorda che Dio ha fatto pace con l’umanità peccatrice. In questo senso la colomba può rappresentare anche l’amore misericordioso di Dio per l’umanità.

Nel Cantico dei Cantici la colomba esprime in maniera intensa l’amore umano, appassionato e fedele e a più riprese definisce la sposa ‘colomba mia’ (1,15; 2,14; 4,1; 5,2; 6,9).

La colomba, che geme, è simbolo della persona oppressa e infelice in cerca di libertà dal dolore: «Timore e spavento mi invadono e lo sgomento mi opprime. Chi mi darà ali come di colomba per volare e trovare ri-poso?» ( Sal 55,6-7). Israele che attende con ansia la salvezza, che tarda a venire, fa udire i suoi gemiti che sono come di colomba: «La Signora è condotta in esilio, le sue ancelle gemono con voce come di colombe, percuotendosi il petto» (Na 2,8; cfr. Is 38,14; 59,11; Sal 74,19). La colomba è pure simbolo di gioia e in que-sta valenza descrive il ritorno degli esuli in patria: «Accorreranno come uccelli dall’Egitto, come colombe dall’Assiria e li farò abitare nelle loro case» (Os 11,11).

La colomba, simbolo proverbiale di semplicità e ingenuità perché si lascia intrappolare dalle reti, per il profeta Osea rappresenta la tribù di Efraim, che come ‘ ingenua colomba, priva d’intelligenza’ (7,11-12) aveva confidato prima nell’Egitto e poi nell’Assiria.

La colomba, animale bianco e puro, è adatto al sacrificio che i fedeli credenti offrivano al Tempio (Lv 1,4; 12.6). Tra le offerte al Tempio costituiva l’offerta dei poveri, soprattutto nei riti di purificazione (Lc 2, 22-24). I Vangeli testimonino l’ira di Gesù che si scaglia contro i venditori di colombe, che facevano commercio di questi uccelli nell’area del Tempio (Mt 21,12; Mc 11,15; Lc 19,45-48; Gv 2,12-25).

Nel Nuovo Testamento il richiamo alla colomba che, in occasione del battesimo al fiume Giordano, scende e si ferma su Gesù ( cfr. Mt 3,16; Mc 1,10; Lc 3,22) indica che con l’inizio della missione di Gesù finisce il naufragio dell’umanità peccatrice e inizia una nuova creazione. Come all’inizio della creazione ‘lo Spirito di Dio alleggiava sulle acque’ facendo sì che dal caos originario venisse la vita così ora si posa su Gesù perché in Lui è iniziato il momento decisivo in cui Dio interviene nella storia dell’umanità per salvarla.

In ebraico il termine «colomba» è Yonah (Giona). Il profeta che porta questo nome può indicare il popolo di Israele, che come colomba ingenua non comprende l’agire di Dio e pensa di potersi nascondersi ai suoi occhi o di percorrere strade diverse, ma allo stesso tempo geme per acquisire lo spirito nuovo, capace di obbedienza al suo Signore.

Gesù nelle sue parabole usa poco questo simbolo, ma raccomanda ai discepoli di essere dinanzi ai loro oppositori, paragonati a lupi, non solo ‘semplici come colombe’, ma anche ‘prudenti come serpenti’ (Mt 10,16).

Filippa Castronovo

da www.paoline.it

Benedetto colui che viene nel nome del Signore!

Dal Vangelo di Marco            Mc 11,1-10

ASINO_PALME1Quando furono vicini a Gerusalemme, verso Bètfage e Betània, presso il monte degli Ulivi, mandò due dei suoi discepoli e disse loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito. Slegatelo e portatelo qui. E se qualcuno vi dirà: “Perché fate questo?”, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito”». Andarono e trovarono un puledro legato vicino a una porta, fuori sulla strada, e lo slegarono. Alcuni dei presenti dissero loro: «Perché slegate questo puledro?». Ed essi risposero loro come aveva detto Gesù. E li lasciarono fare. Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra. Molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde, tagliate nei campi. Quelli che precedevano e quelli che seguivano, gridavano: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!».

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Con la Domenica delle Palme entriamo nella fase finale del tempo quaresimale; al racconto della passione (quest’anno, ciclo B, Marco 14,1-15,47) si affianca il testo dell’ingresso di Gesù nella città santa, Gerusalemme, che nell’evangelista Marco ha un carattere molto particolare, introducendo la sezione dei capitoli 11-13 che narrano l’ultima settimana di vita di Gesù ed il racconto della sua passione e morte (capitoli 14-15). Il testo ha delle forti risonanze anticotestamentarie e descrive un’azione simbolica o profetica che si connota per tre aspetti: quello del bisogno, della novità e della promessa. La sezione aperta dalla nostra pericope ci presenta lo scenario e i temi fondamentali dell’ultimo tratto di cammino di Gesù, con un valore teologico importante (come vedremo più sotto). All’apparente trionfo di Gesù nel testo evangelico di Mc 11,1-10 con cui ha inizio la processione della Domenica delle Palme, si contrappone la sua marginalità nel racconto; il racconto però lascia nel lettore la sensazione che tutto quanto si compie non sia casuale, ma voluto da Qualcuno che ha predisposto la vicenda di Gesù e vuole svelarne il senso. Anche le altre due letture (Is 50,4-7 e Fil 2,6-11) ci parlano del significato della morte di Gesù, in chiave profetica la prima, Cristologia ed ecclesiale la seconda. Quando furono vicini a Gerusalemme, verso Bètfage e Betània, presso il monte degli Ulivi, mandò due dei suoi discepoli.

Dal capitolo 11 inizia per Marco una settimana decisiva, l’ultima della vita terrena di Gesù, scandita con precisione sempre più insistente, in giorni ed ore (vedi 11,12.20; 14,1.12; 15,1.25.33.34) che narra l’evento centrale del suo vangelo: la morte di Gesù sulla croce (15,34-37). Marco nel primo versetto della pericope colloca Gesù (che viene da Gerico dove ha compiuto l’ultimo miracolo di guarigione narrato dall’evangelista, vedi Mc 9,46-52) in un ambiente geografico molto preciso, mettendo in campo i luoghi in cui si svolgerà l’azione d’ora in poi: Gerusalemme, centro della vita cultuale e nazionale e i villaggi limitrofi: Betania (che funge da luogo di appoggio nel suo soggiorno presso la città santa) e Bètfage (posta tra le due località precedenti); infine il monte degli Ulivi . Il brano si apre con alcune indicazioni ai discepoli e nello stesso modo si concluderà la sezione (cfr. 13,5-37) con discorso escatologico. All’interno di tale sezione si situano tre visite al tempio (11,11; 11,12-25; 11,27-12,44) e le cinque dispute con i gruppi religiosi del tempo. Più dei testi paralleli (cfr. Mt 21,1-11; Lc 19,28-40; Gv 12,12-19) Marco concentra l’attenzione sull’identità di Gesù con il riferimento apparentemente marginale della cavalcatura che gli serve per entrare in città; l’episodio ha lo scopo di mettere in luce il senso di quanto sta per accadere e disse loro: “Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito. Slegatelo e portatelo qui. 3 E se qualcuno vi dirà: “Perché fate questo?”, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito”.”. Andarono e trovarono un puledro legato vicino a una porta, fuori sulla strada, e lo slegarono. Alcuni dei presenti dissero loro: “Perché slegate questo puledro?”. 6 Ed essi risposero loro come aveva detto Gesù. E li lasciarono fare.

Lo svolgersi del racconto ci sorprende perché l’evangelista spende ben 7 versetti per parlarci dell’animale che Gesù utilizza per il suo ingresso nella città santa, un puledro (che da Mt 21,5 sappiamo essere un asinello). Un fatto analogo, apparentemente privo di significato, ma a cui è dato ampio spazio, è narrato in Mc 14,12-16, quando i discepoli saranno incaricati di preparare la pasqua (ossia la cena pasquale con il Maestro). In realtà il brano racchiuso tra il 2° e il 6° versetto ha molte risonanze messianiche: Gesù cavalcando un asinello si mostra come colui che realizza diverse profezie legate al re Messia (Zc 9,9;14,4-5; Gn 49,9.11), mentre i vv. 7-8 si riallacciano ad episodi AT di intronizzazione (1Re 1,30-40; 2Re 9,13). Una domanda sorge spontanea: perché Gesù si serve di un asinello? Questo indica un bisogno: il Signore ha bisogno dell’aiuto dei discepoli che glielo procurano, e anche della disponibilità dei proprietari. La sua non è una signoria regale, al contrario. Vi è pure una novità in quanto l’animale è giovane e su di esso nessuno è ancora salito; il giungere del suo regno, di Gesù come Messia non si impone, egli compie le profezie senza clamore e senza pretese. Infine abbiamo una promessa perché tutto ciò che Gesù dice si compie puntualmente (cfr. anche 14,12-16); i lettori di Marco sono invitati a riflettere su quanto accade e a considerare che il senso degli eventi è più profondo di quanto si potrebbe pensare ad uno sguardo superficiale. Quello di Gesù non è un ingresso come tanti, lui non è un pellegrino qualsiasi che si reca nella città santa per la Pasqua, ma qualcosa di più. L’evangelista lo presenta come il Messia che fa il suo ingresso solenne come gli antichi re; è probabile che Gesù abbia voluto compiere questo gesto simbolico al suo ingresso in Gerusalemme (per il vangelo di Marco Gesù si reca una sola volta nella città santa) per indicare la sua identità e il senso di quanto gli stava per accadere, il senso della sua missione e della sua prossima morte.

Lo svolgimento dell’azione, dal ritmo lento, sembra poi guidata dall’esterno: tutto si compie come aveva detto Gesù . Si tratta di una profezia o di un fatto legato ad un accordo previo con i proprietari? Comunque sia tutto avviene secondo le parole di Gesù. e più in profondità secondo il disegno che un Altro ha stabilito. Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra. 8 Molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde, tagliate nei campi. 9 Quelli che precedevano e quelli che seguivano, gridavano: “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! 10 Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!”. Dopo che Gesù è salito sul puledro l’attenzione si sposta da lui a quanto accade intorno a lui; sugli astanti che gettano i mantelli sul puledro e ai suoi piedi (altri riferimenti regali, vedi 1Re 1,30-40; 2Re 9,13), insieme adelle fronde, particolare questo più adatto alla festa delle Capanne che alla Pasqua. Alcuni precedono ed altri seguono (ad indicare la folla anche se non dobbiamo pensare che ci fosse tutta la città) e tutti insieme acclamano: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore . La citazione del salmo 118,25-26 ai vv. 9-10, di per sé era divenuta un saluto abituale per i pellegrini che si recavano a Gerusalemme, anche se l’aggiunta del nostro padre Davide! (citando il salmo 2; la ritroviamo nel NT solo in At 4,25) dà un carattere messianico all’acclamazione. Ma stranamente Gesù non è più al centro dell’attenzione, la sua presenza è minimale: non sappiamo cosa fa’, se dice qualcosa, come reagisce alle acclamazioni; il messaggio però è chiaro. Con questo ingresso solenne e il gesto della cacciata dei venditori dal tempio (subito dopo ai vv. 15-17) egli pone due azioni cariche di significato e che hanno a che fare con il motivo della sua morte (cfr. Mc 14,58). Colui che entra in città è il Messia figlio di Davide anche se il seguito del racconto ci mostrerà che Gesù è un Messia sofferente, che porta su di sé il peccato del mondo e che in obbedienza al volere salvifico di Dio Padre, si umilia sino alla morte di croce (cfr. la seconda lettura Fil 2,6-11). La pericope si conclude con il v. 11 che la liturgia odierna sopprime, ma che è importante nella dinamica della sezione dei capitoli 11-13, dove leggiamo: “Ed entrò a Gerusalemme, nel tempio. E dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l’ora tarda, uscì con i Dodici verso Betània.” Sarà infatti il tempio lo scenario delle cinque dispute di Gesù e dell’insegnamento sul dono della vita che leggiamo in Mc 12,41-44 ad indicare la logica che guida il cammino stesso del Messia, figlio di Davide.

Monastero Matris Domini

L’arte dell’accompagnamento spirituale

Passo dopo passo

passo dopoL’Autrice, Maria Rita Castellani, affronta i temi nodali dell’accompagnamento spirituale.

Una sintesi completa e rigorosa in chiave pedagogica, attraverso un linguaggio scorrevole, arricchito da numerosi esempi e testimonianze.

Un volume che non si propone come il “manuale della buona guida”, ma piuttosto uno strumento di lavoro per chi è chiamato a sostenere il cammino di fede dei fratelli.

Mettendosi al loro fianco e imparando ad avanzare insieme, nelle vie di Dio, passo dopo passo.

Prefazione del card. Gualtiero Bassetti.

 Punti di forza

  • Un testo completo e rigoroso sul tema dell’accompagnamento spirituale.
  • Una sintesi in chiave pedagogica, esposta con un linguaggio divulgativo.
  • Il testo si rivolge a catechisti, sacerdoti, religiose e operatori di pastorale.

 Maria Rita Castellani, è laureata in pedagogia e vive a Perugia. Madre di cinque figli, fa parte della “Comunità Magnificat” del Rinnovamento nello Spirito, all’interno della quale segue la Scuola internazionale per formatori e promuove varie esperienze di animazione. Tra le sue pubblicazioni: Il diritto del bambino alla tenerezza (EDB 2007).

 

Passo dopo passo

L’arte dell’accompagnamento spirituale

pag. 244 – euro 16,00 – Edizioni Porziuncola

Dalla Nigeria una speranza per le vittime…

Dalla Nigeria una speranza per le vittime…

rito1Un fatto passato quasi inosservato in Italia ma che potrebbe avere implicazioni positive per le ragazze nigeriane costrette a prostituirsi: alcuni giorni fa l’Oba (“re”) Ewuare II, la massima autorità religiosa del popolo Edo, ha formulato un editto in cui vieta tutti i riti di giuramento che vincolano con maledizioni terribili le ragazze trafficate. Una testimonianza dalla Nigeria e il commento delle religiose anti-tratta.

In Nigeria, a Benin city, nell’Edo State, è accaduto un fatto storico che potrebbe liberare molte ragazze vittime della tratta a scopo di sfruttamento sessuale: l’Oba (“re”) Ewuare II, ossia la massima autorità religiosa del popolo Edo (che vive in Nigeria e nella zona del delta del Niger), ha convocato giorni fa tutti i preti della religione tradizionale juju.

In una cerimonia solenne ha formulato un editto in cui revoca tutti i riti di giuramento che vincolano con maledizioni terribili le ragazze trafficate, obbligando i preti juju a non praticarne più. In sostanza migliaia di ragazze nigeriane (il 90% vengono dall’Edo State) costrette a prostituirsi sulle strade italiane ed europee per ripagare il debito contratto con i trafficanti (tra i 20 e i 40mila euro), potrebbero avere meno paura di denunciare i loro aguzzini e riuscire così a liberarsi dalla condizione di schiavitù in cui sono cadute

Il rito juju, un maleficio che lega le ragazze ai trafficanti. Le ragazze più povere cadono infatti nella rete dei trafficanti o delle madame con l’inganno: promettono loro un lavoro di babysitter o parrucchiera in Europa e si offrono di pagare il costoso viaggio verso l’Europa. Le ragazze sono spesso analfabete o con scarsa istruzione e non capiscono che la cifra è in euro e non in naira, la moneta locale, quindi pensano sia abbordabile. Quando accettano vengono condotte davanti ad un prete juju che celebra il rito, a pagamento. È una sorta di maleficio realizzato con tagli sulla pelle che vengono ricoperti di cenere e un sacchetto con capelli, peli, unghie e indumenti intimi della vittima, che sarà poi conservato dal prete. Il rito termina con l’uccisione di un gallo di cui le ragazze sono costrette a ingerire il cuore insieme ad una bevanda alcolica.

L’accordo obbliga la ragazza a non tradire mai il trafficante. Se infrangerà il giuramento andrà incontro a morte o pazzia.

Dopo il rito la maggioranza delle ragazze sono costrette a fare il viaggio attraverso il deserto, la Libia e il mare, con tutti i soprusi e violenze che ne derivano. Se riescono ad arrivare vive in Italia, anziché il lavoro promesso trovano la strada. Molte giungono per vie traverse dal nord Europa, altre vanno verso l’Arabia Saudita.

Le ragazze potrebbero avere meno paura di denunciare. “Sono terrorizzate da questo rito, per questo non denunciano. C’è molto sincretismo, tutte credono in un Dio cristiano che è più forte di ogni malocchio ma culturalmente sono soggiogate e condizionate. Quelle che ci credono di più a volte vanno in cura psichiatrica”.

“Questa cerimonia è un fatto di portata storica, che può avere implicazioni enormi. Potrebbe incrementare il numero di denunce contro i trafficanti ed aiutarle a liberarsi”spiega al Sir da Benin city Francesca De Massi, responsabile di una casa-rifugio della cooperativa Befree contro la tratta, la violenza e la discriminazione. De Massi era presente alla cerimonia convocata da Oba Ewuare II il 9 marzo e descrive tutta l’emozione provata in quell’occasione. ”Tutto si è svolto in un clima molto serio e solenne – racconta -. L’Oba parlava in lingua benin. Ha revocato tutti i giuramenti posti in essere e detto ai preti juju che se lo rifaranno la punizione degli dei ricadrà contro di loro”. Ewuare II è una figura molto autorevole e rispettata in tutta la zona di Benin city, con oltre 3 milioni di abitanti. È stato infatti ambasciatore della Nigeria in Angola, Svezia e Italia e ha lavorato alle Nazioni Unite. Fin dal suo insediamento nel 2016 ha collaborato strettamente con il governatore dell’Edo State e con l’agenzia locale contro la tratta di persone.

“La sua presa di posizione è importantissima”.

Un cambiamento positivo. “Sono molto ottimista sugli effetti di questa cerimonia”, prosegue De Massi. Da quel giorno riceve continue telefonate dall’Italia:

“Le ragazze mi chiedono se è vero, sono felicissime, stanno festeggiando”.

Negli anni, a causa della crescente domanda da parte di clienti italiani, le cifre della tratta di ragazze nigeriane sono esplose: “Dal 2014 ad oggi c’è stato un incremento del 600% – ricorda -. Nel 2016 ne sono arrivate 11.000”. Nel 2017 i richiedenti asilo dalla Nigeria (uomini e donne) sono stati 25.964. Delle 6.161 persone sbarcate dagli inizi del 2018 ad oggi 383 sono di nazionalità nigeriana. In realtà il rito juju non è l’unico problema perché la rete della tratta è molto complessa e varia. “C’è anche chi viene adescata nelle chiese evangeliche neopentecostali”, conferma suor Gabriella Bottani, coordinatrice della rete delle religiose anti-tratta Talitha kum: “Dietro ci sono dinamiche di controllo della persona”. Pur non conoscendo direttamente le implicazioni interne a ciascuna religione secondo la religiosa

“La condanna dell’Oba di Benin city può sicuramente provocare un cambiamento positivo”.

 

Da Sir, 20 marzo 2018