Via Giuseppe Zanardelli, 32

00186 Roma - Italia

+39 06 6840051

Fax +39 06 56561470 segreteria@usminazionale.it

Title

Autem vel eum iriure dolor in hendrerit in vulputate velit esse molestie consequat, vel illum dolore eu feugiat nulla facilisis at vero eros et dolore feugait

Author Archive %s admin2

Credere e non credere

crederenon credereDefinire l’ateismo al singolare può risultare un’operazione imprecisa e fuorviante; sarebbe più corretto parlare di ateismi, vista la varietà delle forme, dei contenuti e degli orientamenti. In ambito teologico la percezione è mutata profondamente e ha abbandonato i toni apologetici passando a un’attività di analisi e a una riflessione sulla testimonianza della speranza cristiana e della freschezza evangelica.

Nell’ottica di Gallagher l’ateismo contemporaneo è da ricondurre alla crisi culturale che si è prodotta con la scomparsa dallo scenario europeo di personalità dotate di spirito enciclopedico e di cultura universale. Se, da un lato, il perfezionamento della ricerca scientifica e la moltiplicazione degli ambiti hanno prodotto risultati eccellenti e lodevoli, dall’altro hanno provocato una frattura nel mondo del sapere che ha avuto ricadute sia nell’elaborazione teologica sia nella percezione che gli uomini hanno di Dio.

Note sull’autore

Michael Paul Gallagher (1939-2015), gesuita irlandese, ha insegnato Letteratura inglese all’University College di Dublino. Ha vissuto a Roma per oltre vent’anni, dove è stato docente di Teologia fondamentale alla Pontificia Università Gregoriana e rettore del Collegio Bellarmino. Il quotidiano The Irish Times lo ha annoverato tra i più influenti intellettuali irlandesi contemporanei.

Gabriele Palasciano ha studiato Teologia protestante, Teologia cattolica, Letteratura francese e Islamistica in Svizzera, Israele, Italia, Francia e Austria. Attualmente si sta specializzando in Storia culturale alla Sorbona di Parigi. Dal 2014 collabora con il “Cortile dei Gentili”, struttura del Pontificio Consiglio della Cultura per il dialogo tra credenti e non credenti.

Nicolas Steeves, gesuita, è docente alla Facoltà di Teologia della Pontificia Università Gregoriana.

 

Michael Paul Gallagher Gabriele Palasciano

Credere e non credere

La fragilità della fede nel mondo di oggi.

Prefazione di Nicolas Steeves

  1. 128 – euro 14,50 – Dehoniane

Parma capitale della cultura 2020

parma1Emozione, orgoglio, soddisfazione unanime per un progetto che ha visto protagonista l’intera città, ma anche senso di responsabilità e consapevolezza di un successo che non è un traguardo, ma tappa di un percorso che può e deve crescere e continuare a far crescere. Sono questi i sentimenti e le aspettative che hanno salutato l’annuncio di Parma Capitale della cultura 2020, avvenuto venerdì mattina a Roma. Una vittoria che, come preannunciato in un precedente comunicato congiunto con le amministrazioni di Reggio Emilia e Piacenza, le altre città emiliane arrivate tra le 10 finaliste, coinvolgerà anche l’area emiliana, in un’ottica di collaborazione e di alleanza. I doverosi festeggiamenti lasciano quindi subito posto all’agenda dei lavori. Così il vescovo Enrico Solmi ha salutato – in una nota diffusa dal Sir – tale riconoscimento: “Parma capitale della cultura, è un titolo ambito quanto plausibile. Perché la nostra città – insieme ad altre in Italia – si distingue per una ricca storia e per insigni monumenti che la rappresentano. Ricordo la splendida piazza del duomo sulla quale si affacciano la cattedrale, il coevo palazzo vescovile, il battistero, il palazzo che alloggia la Caritas, mentre da un lato si insinua un angolo del Seminario già residenza dei canonici. Chi arriva dai borghi rimane meravigliato da tale raccolta armonia che compone un insieme unico. Estendendo il raggio di osservazione, Parma offre tante altre opere, tra le quali spicca la gotica chiesa di San Francesco, deturpata sede di carcere napoleonico, per la quale si sta avviando un promettendo recupero. Essere capitale della cultura – lungi dalla tentazione di una vuota quanto possibile vanagloria – sollecita a riconoscere le fonti di tanta magnificenza e riconoscerle vive ancora oggi come fonti di un modo di vivere, buono, bello e accogliente che si proietta verso un futuro di speranza. Questo è l’impegno della città ed anche della Chiesa, che non sono soltanto custodi, ma attivi testimoni e propositori. Questo è un auspicio, ma ancor più, un impegno”.

 

Le periferie in cui ribollono le tensioni emergono energie per il servizio della Chiesa universale (P. Arturo Sosa, sj)

periferie1“E’ buono uscire da se stessi, alle periferie del mondo e dell’esistenza per portare Gesù!”. E’ il messaggio lanciato da papa Francesco ai giovani la domenica delle palme del 2013.

Le periferie sono luoghi di particolare povertà, di significative indigenze, di sintomatiche insicurezze. E spesso sono fucina di tensioni per la disuguaglianza che si percepisce come ingiustizia; per sogni non realizzati perché la vita può aver portato su strade non ambite; tensioni per delusioni subite; per situazioni di povertà e di limiti non sopportabili.

Né è necessario che siano tensioni multiple, di un gruppo. Esistono tensioni singole in quanto sono proprie di una persona sola. Le cause sono tante e varie: delusioni, soprusi, sfruttamento; chi si sente usato percepisce di non essere considerato nella sua propria identità di persona; chi si vede posto in seconda linea può diventare schiavo di gelosie anche comprensibili pur non approvabili.

Paolo Mantegazza ha scritto che “la tensione della forza senza il suo esercizio logora gli organi, disperde gran quantità di lavoro utile, abitua all’inerzia”. Effettivamente, delle tensioni che farne? Le tensioni ‘evangelizzate’ possono trasformarsi in felici opportunità, o – come ha scritto il superiore generale della Compagnia di Gesù esperto in periferie e in tensioni: “energie per un rilancio della fede nella Chiesa universale”.

“La fede – ha scritto papa Francesco nel suo messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2016 – è dono di Dio e non frutto di proselitismo; cresce però grazie alla fede e alla carità degli evangelizzatori che sono testimoni di Cristo. Nell’andare per le vie del mondo è richiesto ai discepoli di Gesù quell’amore che non misura, ma che piuttosto tende ad avere verso tutti la stessa misura del Signore; annunciamo il dono più bello e più grande che Lui ci ha fatto: la sua vita e il suo amore”.

La tensione cambiata in servizio, servizio della Parola. Le periferie sono estese nell’universo mondo ai vari livelli: familiare, sociale, lavorativo, politico, educativo. Così le tensioni. E allora se ogni tensione – o capacità reattiva – può essere motivo di novità positive, da tutte le periferie del mondo sorgano nuovi apostoli capaci di inserire nella Chiesa universale una nuova esperita capacità di annuncio della bella notizia: il Vangelo di Gesù. E che sorga un mondo nuovo, libero da tensioni, dove esista quella pace che prefigura la pace eterna.

Biancarosa Magliano, fsp

biancarosam@tiscali.it

 

LA STORIA

 Le Salesiane Oblate del Sacro Cuore sono state fondate l’8 dicembre 1933 nella piccolissima diocesi di Bova oblate(RC) sull’Aspromonte da mons. Giuseppe Cognata, allora vescovo di quella diocesi, vero e appassionato figlio di don Bosco e discepolo fedele di san Francesco di Sales del quale seguì lo zelo pastorale, la spiritualità, la dottrina, l’ottimismo.

    La diocesi di Bova a quel tempo era la più povera e la più difficile. Le case sparse e appollaiate sui monti erano abitate da poveri contadini che lavoravano la terra con grande difficoltà.

      Il paese era privo di mezzi di comunicazione e di risorse naturali. Mancavano asili e i bambini, non accuditi dalle mamme perché costrette a lavorare anche loro la terra, erano abbandonati a se stessi in mezzo a tanti disagi e pericoli. La popolazione, per la scarsezza del clero, viveva senza sacramenti e senza aiuti spirituali.

Il giovane vescovo, resosi conto subito della situazione, cercò di venire incontro alle necessità materiali e spirituali della porzione di Chiesa a lui affidata chiedendo aiuto ad alcuni istituti religiosi femminili per sopperire alla necessità di quella povera infanzia abbandonata, ma nessuno accettò. Il Papa Pio XI, al quale aveva esposto la situazione in cui versava la diocesi, lo esortò a far da sé. Dopo aver molto pregato, consigliatosi con l’arcivescovo di Reggio mons. Carmelo Pujìa, per la solennità dell’Immacolata, a soli sei mesi dal suo arrivo in diocesi, mons. Cognata iniziò l’opera con tre giovani disposte a donarsi al Signore. Le tre giovani si chiamavano Grazia Anastasi, Caterina Ptizalis, Antonietta Morano. Nasce così l’Istituto delle Salesiane Oblate del Sacro Cuore.oblate1

L’entusiasmo delle tre giovani, che davano esempio di carità gioiosa e di squisita accoglienza a quanti l’avvicinavano, conquistò i cuori di tante altre ragazze e ben presto la nuova fondazione crebbe e si moltiplicò. Ci furono anche tante nuove richieste da parte di altri parroci e così l’Istituto cominciò ad estendersi tra la diocesi di Bova e quella di Reggio Calabria.

      Nel 1935 si aprì il noviziato a Bova Marina e l’otto dicembre dello stesso anno si ebbero le prime professioni mentre il nuovo Istituto continuava ad estendersi in Calabria e approdava in Sicilia, nel Lazio e a Casal Bruciato in Roma, che verrà chiusa dopo due anni e sarà la spina  nel cuore del fondatore. Compito primario delle suore era l’educazione cristiana dell’infanzia e della gioventù con la costituzione di asili, laboratori e oratori; inoltre affiancavano i parroci nella catechesi. Oltre alla cura spirituale si occupavano della promozione umana civilizzando le popolazioni dei dintorni.

La Spiritualità Oblativa

  Nel 1933 era in pieno sviluppo l’Anno Santo straordinario della Redenzione indetto e illustrato da Pio XI. Al centro: l’offerta all’Eterno Padre di Cristo in croce per il rinnovamento dell’umanità.

 L’Oblazione, come la intende mons. Cognata, nasce alla luce del divino Paziente, vittima offerta al bene dei fratelli. Da gran tempo egli portava in sé e meditava l’annuncio profetico:”E’ stato sacrificato perché lo ha voluto e non ha aperto la sua bocca” (Is 53,7).

 Al momento perciò di fondare le “Oblate del Sacro Cuore” lo spirito della interna oblazione che lo consumava non poté non influire sulla scelta del nome, divenuta facile e normale trasmissione di vero e proprio carisma dello Spirito Santo.

 Distintivi della fondazione: l’umiltà, la piccolezza, la ricerca dei luoghi più poveri e bisognosi di assistenza e formazione cristiana del popolo e della gioventù povera e trascurata.

“Raccogliete le briciole dell’apostolato” diviene così regola fondamentale delle nascenti Suore Salesiane Oblate del Sacro Cuore.

 Mons. Cognata gode nel presentare alle figlie Gesù come “Oblato Divino” e “Modello di Oblazione”. Perciò esprime il desiderio che le figlie spirituali siano consacrate “in piena Oblazione” al Cuore di Cristo.

Il Patrono dell’Istituto

 Egli è innamorato di San Paolo, che lo ispira e dà come Protettore all’Istituto; e a lui conferisce il titolo di “Apostolo dell’Oblazione e della carità”; e così giunge a scrivere che la “carità è il distintivo proprio delle Oblate del Sacro Cuore di Gesù”.

 “La parola d’ordine dell’Oblazione è: tutto per Gesù! Tutto alla sua gloria e alla santificazione delle anime”. Per lo spirito misticamente illuminato di Giuseppe Cognata, sacerdote e vescovo, “gloria dell’Oblazione è “l’olocausto di amore filiale e generoso”, vissuto nell’incruento Sacrificio Eucaristico, dove allo stesso tempo Gesù è Offerente e Offerto, morto e vincitore della morte”.

 Una spiritualità cioè da vivere nel quotidiano, per l’assimilazione a Cristo e la fecondità delle figlie, il cui apostolato doveva restringersi alle diocesi di Calabria, ma che facilmente si estese in Italia e ne oltrepassò i confini.

Per maggiori informazioni consulta il sito: salesiane@sosc.org

Che cosa posso fare io per la pace?

Che cosa posso fare io per la pace?

Un accorato invito del Papa

Pope-Francis_1

Papa Francesco all’Angelus di domenica 4 febbraio c.a., riferendosi al Vangelo di Marco che mette in risalto “il rapporto tra l’attività taumaturgica di Gesù e il risveglio della fede”, ha sottolineato che “la guarigione del corpo mira alla guarigione del cuore”.

“Una volta liberati dalle strette del male e riacquistate le proprie forze in seguito all’intervento di Gesù” – ha affermato Francesco – bisogna mettersi “al servizio del Signore”. “Gesù – ha aggiunto – non è venuto a portare la salvezza in un laboratorio; non fa la predica di laboratorio, staccato dalla gente: è in mezzo alla folla! In mezzo al popolo!”. E l’annuncio del Regno di Dio da parte di Gesù – ha spiegato – “ritrova il suo luogo più proprio nella strada”. “La strada come luogo del lieto annuncio del Vangelo – ha osservato il Papa – pone la missione della Chiesa sotto il segno dell’andare”, del movimento e mai della staticità. Dopo la preghiera mariana, ricordando “il tragico protrarsi di situazioni di conflitto in diverse parti del mondo”, il Pontefice ha esortato ad aderire ad una “speciale Giornata di preghiera e digiuno per la pace il 23 febbraio prossimo, venerdì della Prima Settimana di Quaresima”.

La offriremo in particolare per le popolazioni della Repubblica Democratica del Congo e del Sud Sudan. Come in altre occasioni simili, invito anche i fratelli e le sorelle non cattolici e non cristiani ad associarsi a questa iniziativa nelle modalità che riterranno più opportune.

“Il nostro Padre celeste – ha detto il Santo Padre – ascolta sempre i suoi figli che gridano a Lui nel dolore e nell’angoscia, risana i cuori affranti e fascia le loro ferite”. Rivolgo un accorato appello perché anche noi ascoltiamo questo grido e, ciascuno nella propria coscienza, davanti a Dio, ci domandiamo: “Che cosa posso fare io per la pace?”. Sicuramente possiamo pregare; ma non solo: ognuno può dire concretamente “no” alla violenza per quanto dipende da lui o da lei.

Perché le vittorie ottenute con la violenza sono false vittorie; mentre lavorare per la pace fa bene a tutti!

Cambiamento e qualità di vita…

Cambiamento e qualità di vita

basilicataCome ogni anno l’USMI Basilicata, ha programmato, il Convegno regionale formativo che sì svolto presso l’Hotel Heraclea di Policoro (MT) dall’11 al 13 febbraio c.a. per le circa 300 religiose presenti nel territorio. Hanno preso parte un centinaio di sorelle che hanno potuto partecipare perché la Regione ha concesso alla scuola il “ponte di carnevale” come festa.

Il tema del Convegno è stato “Cambiamento e qualità di vita evangelica. Quale profezia per la vita consacrata?”. Sr M. Regina Cesarato, Presidente dell’USMI Nazionale, trattando il tema nelle due giornate ha posto all’attenzione elle sorelle 4 segni profetici di forte intensità:

  • L’incontro
  • Il desiderio
  • Il Pane spezzato e condiviso
  • Il profumo.

Un percorso fatto alla luce dell’Evangelo e dell’insegnamento di Papa Francesco sulla vita consacrata, ricco di provocazioni e di proposte che certamente hanno lasciato un segno per il cammino personale e di comunità.

La vita consacrata in questo lembo di terra possa davvero essere quel piccolo seme che da frutti saporosi e con parresia annunciare la gioia del Vangelo.

Allegato: Intervista – Video

Convertitevi e credete al Vangelo…

Dal Vangelo di Marco  Mc 1,12-15

desrtoE subito lo Spirito lo sospinse nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.

Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».

…………………………………………………

In questa prima domenica di Quaresima sembra che Gesù ci indichi come vivere il grande dono della Quaresima. Un tempo davvero di grazie che non può essere consegnato alla normalità, troppe volte senza senso.

E per ottenere che questo tempo, e non solo, sia vissuto bene, il Vangelo ci avverte:

“In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto ed egli vi rimase quaranta giorni, tentato da satana: stava con le fiere e gli angeli lo servivano. Dopo che Giovanni (Battista) fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il Vangelo di Dio, e diceva: ‘Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al Vangelo” (Mc. l, 12-15)

Un programma denso di significato, ma che Gesù riassume con due parole dal contenuto difficile ma innovativo: convertirsi e credere al Vangelo!

Ma sapremo, in ogni modo, pone al centro della nostra vita, in questo tempo santo, l’urgenza di una necessaria conversione, con la guida del Vangelo? Lasciamoci condurre dalle parole a noi sempre preziose di Paolo VI.

“Dobbiamo dunque convertirci al Signore. Qui sarebbe necessaria un’analisi previa. Che cosa vuol dire questa parola «conversione», alla quale la nostra mente moderna è così poco disposta, fino quasi a cancellarla dal dizionario stesso della vita spirituale? Qual è il vero significato di tale richiamo? A cominciare da quello etimologico, molto semplice, convertirsi vuol dire cambiare strada, scegliere una direzione, un indirizzo. Ebbene la Quaresima chiama tutti a rivolgersi a Dio; a tracciare fra noi e il Signore una linea diretta, quella completa attenzione che molte volte è distratta dalle cose profane, con le faccende quotidiane, gli affanni della vita.

Occorre, invece, che risplenda su tutta questa esperienza così complessa, talvolta confusa e talvolta non del tutto limpida, lo splendore del raggio di immediatezza che ci indica Iddio.

E non si tratta di muoverci verso di Lui materialmente, fisicamente: sarebbe già gran cosa, perché ciò implica la pratica degli esercizi che a Dio ci portano.

C’è assai di più. Sappiamo tutti che la parola «conversione» indica un senso di mutamento, di rivolgimento, di metànoia: il rinnovarsi, cioè. Ora ed è ciò che più conta – tale rivolgimento non tocca tanto le cose esteriori, le abitudini, le vicende a cui è legata la nostra esistenza, bensì, invece, la cosa tanto nostra, e tanto poco nostra: il cuore.

C’è non poco da cambiare dentro di noi: è necessario rimodellare la nostra mentalità; avere il coraggio di entrare fin nel segreto della nostra coscienza, dei nostri pensieri, e là operare un cambiamento. Questo, inoltre, deve essere così vivo e sincero da produrre – e siamo ancora al contenuto della parola «conversione» – una novità.

Qui sta l’esigenza prima del grande esercizio ascetico e penitenziale della Quaresima. Allora ci chiediamo: che cosa fare per ottenere un tale risultato e come comportarci?

La risposta è ovvia: entrare in se stessi, riflettere sulla propria persona, acquisire una nozione chiara di quel che siamo, vogliamo e facciamo; e, a un certo momento – qui la frase drammatica, ma risolutiva – convertire, rompere qualche cosa di noi, spezzare questo o quell’elemento che magari ci è molto caro ed a cui siamo abituati, sì da non rinunciarvi facilmente.

Il termine «conversione» entra in queste profondità e dimostra queste esigenze.

E non è tutto. Stabilito il rinnovamento, è d’uopo incominciare di nuovo, far sorgere in noi un po’ di primavera, di rifioritura; una manifestazione anche esteriore del fenomeno verificatosi all’interno del nostro essere. Si diceva poco fa’ che ricordare queste nozioni a chi già conosce le vie del Signore, ha ormai vissuto le ore decisive ed ha orientato nella maniera giusta la sua vita, sembrerebbe cosa superflua, convenzionale e quasi retorica. Così non è: perché tutti abbiamo sempre bisogno di convertirci.

C’è un bel paragone, addotto da esperto maestro di spirito. Esso si riferisce al navigante il quale deve, di continuo, rettificare la guida del timone, e perciò guardare che la direzione sia sempre quella esatta indicata dalla bussola. Per sua natura, la nostra vita è incline a deviare. Siamo volubili, fragili; i nostri stati d’animo sono contraddittori, successivi, complicati, e soggetti agli stimoli esteriori, al punto che la nostra rettitudine interiore ne risulta compromessa.

È perciò logico, indispensabile ad ogni stagione ed anno, ad ogni Quaresima, riportarci al buon cammino primitivo se già fu determinato; trovare la direzione giusta se non fosse ancora allineata perpendicolarmente verso il Signore. A così alta finalità mirano i doni e i carismi che la santa Quaresima ci offre. Come si fa a convertirsi?

Il primo passo – tutti lo sappiamo – consiste nell’ascoltare, sentire il richiamo e orientare la nostra mente là donde parte la voce. Questa voce è la parola di Dio, che deve risuonare sempre nuova, e quale eco personale che il Signore suscita nelle nostre anime.

Oh, come piacerebbe sostare in conversazione con ciascuna delle persone qui presenti e chiedere se hanno questa capacità di udito, se ascoltano la parola divina, a cominciare da quella che arriva dal di fuori con la sacra predicazione, che ora, nella Quaresima e nella riforma liturgica, diviene tanto organizzata, premurosa, sollecita, urgente. Abbiamo tutti questa indispensabile ricettività? o non forse imitiamo anche noi tanti superficiali, allorché mormorano: sono cose già note, già sentite, non sono per me… e così via? (3 marzo 1965). “Pregare non significa macinare ‘avemaria’ e poi essere lontani dalla legge del Signore; non è fare una doppia vita: fare delle scelte comode. Pregare significa soprattutto aderire alla volontà di Dio;

entrare nella logica del Vangelo che è la logica della povertà, la logica della accoglienza, la logica del servizio, la logica della fiducia, la logica della speranza.

Logica di SPERANZA .. soprattutto nei momenti difficili, quando le cose vanno di traverso, quando la salute non c’è più.

Coltivare la speranza significa non darsi mai per vinti: significa sapere che Dio è più forte di tutti i nostri problemi, e che alla fine la spunta; significa sapere infine che la morte non è l’ultimo capitolo della vita .. Questo significa preghiera e speranza”. (Tonino Bello)

 

scalabriniane1Le scalabriniane che accolgono i migranti venezuelani

“L’arrivo dei venezuelani in Brasile è un fatto sociale, non una catastrofe. E deve essere affrontato proprio come fatto sociale, con politiche di accoglienza e integrazione. È sorprendente vedere che, di fronte a un popolo che viene in Brasile in cerca di cibo e di opportunità di lavoro per guadagnarsi da vivere, circolano idee di ‘campi profughi’. Questa non è affatto una soluzione”.

Lo dichiara, in una nota inviata all’Agenzia Fides, suor Rosita Milesi, missionaria scalabriniana, direttrice dell’Istituto di migrazione e diritti umani, nello stato brasiliano di Roraima. La Congregazione delle suore missionarie scalabriniane sin dalla sua fondazione si occupa dell’assistenza ai migranti e suor Rosita è una delle promotrici, insieme ad altre due scalabriniane, di attività per la creazione di strutture di accoglienza e di percorsi di sensibilizzazione.

Nello stato di Roraima, al confine con il Venezuela e la Guiana, si stanno infatti presentando migliaia di venezuelani per chiedere aiuto, dal momento che il Venezuela è colpito da una crisi economica e sociale così grave da portare i suoi cittadini a emigrare.

  “Il Brasile è chiamato ad accogliere questo popolo e a pensare a una strategia globale – afferma la religiosa -, con politiche di emergenza come primo passo, per garantire luoghi di accoglienza degni e un soggiorno regolare, e poi con altri aiuti in modo di permettere l’accesso al lavoro e di andare in altri Stati e in altre città, dove poter vivere e lavorare con dignità”.

Per suor Rosita “il Brasile è in grado di ricevere questi migranti. Manca, tuttavia, l’azione forte e rapida da parte del governo che, purtroppo, è lento nell’adottare le misure necessarie di assistenza ed integrazione. Questa lentezza aggrava la situazione sociale nello Stato di Roraima, l’ultimo stato al Nord del paese, che di fatto non può né è in grado di risolvere da solo un movimento migratorio di queste dimensioni.

Autorità locali, governo federale, società civile, Chiesa e organizzazioni internazionali, devono agire per attuare una soluzione globale, che includa l’assistenza iniziale, ma garantisca anche l’accesso all’integrazione”.

Solo nel 2017 sono stati più di 20mila i venezuelani che hanno chiesto aiuto al Brasile e più di 8.400 quelli che hanno usufruito di un sistema di residenza temporanea. L’Istituto per la migrazione e i diritti umani, delle suore scalabriniane, ha contribuito in questo periodo ad una serie di attività di accoglienza, integrazione e sostegno, ma sono necessari sostegni molto più ampi.

(articolo tratto da www.fides.org)

Cura

Cura

Siamo cura noi stessi

CURALa favola-mito della cura essenziale è di origine latina con base greca. La riporta Igino, scrittore del I secolo d.C.; se ne servirà Heidegger, quando analizzerà il tema della “Cura” (Sorge) in Essere e Tempo.

 “La Cura, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa ne raccolse un po’ e cominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire cosa abbia fatto, interviene Giove. La Cura lo prega di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la Cura pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio.

 Mentre la Cura e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: “Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, finché esso vive lo possieda la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus”.

Dalla verità archetipica del mito, scopriamo ancora una volta il senso del nostro esistere: siamo terra abitata dal cielo, chiamati a costruire la nostra esistenza nel tempo, ma protesi a dar forma all’utopia (che è Saturno, dio del tempo e della mitica età dell’oro). Solo nella continua ricerca dell’impossibile l’umano può realizzare il possibile. Ma ciò che si svela sin dal principio è che la Cura precede!

Non siamo chiamati ad aver cura, no, siamo cura noi stessi!

In ogni fibra. Nel profondo. Prima che fossimo fibra, prima che ci fosse un profondo, siamo stati pensati come cura.

 Nella doppia accezione di essere oggetto di cura, da parte di altri (come pensare di esistere in assenza di cura? Come venire al mondo senza qualcuno che ci attenda, ci faccia spazio, ci veda, si accorga di noi?) e di assumere la cura di un oggetto esterno a noi.

 Cura è rinunciare, una volta per sempre, alla volontà di potere che cosifica il mondo, riducendolo a merce di scambio. E inaugurare relazioni di rispetto e di riscoperta del valore sacro di ogni realtà donata. Cura è la saggezza che sa decentrarsi, che rinuncia a comprendere il mondo e l’altro “a partire da sé” (e talvolta rinuncia a comprendere, e basta…), ed impara a contaminarsi, a spostarsi di lato, a fare spazio.

 Cura è lo sguardo che si posa sulle cose e le chiama ad essere, che sa offrire una nuova occasione. Come  lo sguardo del Nazareno, che scava nel profondo per trarne fuori ogni buono; cura è l’attesa paziente perché il seme piantato dia frutto, è il disporsi, sapiente, ad attendere il tempo giusto, senza forzare gli eventi. E’ la sintonia che ci lega ad ogni vivente e ci insegna a captare la presenza dello Spirito al di là dei nostri limiti umani.

 Cura è aprire spazi di ascolto, grembi di buio, capaci di custodire le sconfitte, le rinunce, i fallimenti e tutto ciò che non ha ancora la forza di venire al mondo, e disporsi all’attesa sino a che giunga il tempo della schiusa.

 Cura è scommessa sul futuro, è capacità di visione che squarcia il velo del presente per concedersi la speranza.

 Per questo ogni gesto di cura, anche il meno visibile, è un gesto politico, perché invera l’ipotesi di un vivere buono da costruire insieme, perché diviene luogo di resistenza alla barbarie, pone la base per una nuova con-vivenza e, senza alcuna pretesa di salvare il mondo, aiuta a salvare il nostro sguardo su di esso.

 Cura è, infine, la tenacia con cui  qualcuno ha saputo scorgere un tenero verde spuntare dal tronco disseccato di Iesse. E’ l’abbraccio materno che sa dire nemmeno uno iota, nemmeno un capello del capo sarà perduto, e lo dice quando tutto ci sembra perduto, quando noi e il mondo intorno sembriamo andare alla deriva.

 E’ dote di profeti, una cura come questa. E talvolta la ritrovo nei gesti antichi di certe nostre donne di campagna, e nei loro piccoli, rigogliosi giardini, stipati di ogni cosa, dove tutto torna ad attecchire, ciò che era dato per finito.

Chiara Saletti

 (articolo tratto da Combonifem)

Preghiera, digiuno, elemosina…

Preghiera, digiuno, elemosina – spiegando che “non sono fuori tempo”

CROCIFISSOFratel MichaelDavide Semeraro, monaco benedettino, all’indomani del Messaggio del Papa per la Quaresima, “rilegge” le tre pratiche quaresimali – preghiera, digiuno, elemosina – spiegando che “non sono fuori tempo”. La preghiera come apertura alla trascendenza, il digiuno come “disciplina” e l’elemosina come occasione per comprendere che “in ogni donna e in ogni uomo si nasconde un povero che attende di essere scoperto”.

All’indomani del messaggio del Papa, in cui Francesco mette in guardia dai “falsi profeti” ed esorta a contrastare “il dilagare dell’iniquità”,  fratel MichaelDavide Semeraro, monaco benedettino, propone di vivere la Quaresima come tempo di “incremento di umanità”, non solo per i credenti. E rivela: “in ogni donna e in ogni uomo si nasconde un povero che attende di essere scoperto”.

Preghiera, digiuno ed elemosina sono le tre pratiche quaresimali. Come attualizzarle oggi, in una società che sembra lasciare sempre meno spazio al silenzio e all’attenzione all’altro? Preghiera, elemosina e digiuno sono tre pratiche che non hanno tempo. Non sono fuori tempo, in quanto esprimono un’esperienza non eminentemente di Chiesa, ma sono legate alla storia della civiltà umana. Esprimono nell’uomo di ogni tempo un aspetto che ha a che fare con il senso più profondo della vita e della realtà.

Il digiuno, ad esempio, non è una forma di controllo e mortificazione, ma un attraversamento critico delle esigenze del nostro corpo per operare un discernimento di bisogni e desideri.

Questo discernimento, tramite le pratiche quaresimali, si dispiega in tutte le sue forme: dal cibo, alla nostra relazione con le cose e con gli altri, al rapporto tra il corpo e il tempo. La preghiera è la capacità di cui un uomo ha bisogno per uscire anche fuori della propria esperienza ed aprirsi ad un vissuto che riguarda un ambito più ampio: l’orizzonte della trascendenza. La capacità di essere attenti a noi stessi, a quel groviglio di pulsioni e desideri profondi che ci caratterizza, ci rende attenti anche ad un mondo più grande. Il termine elemosina, infatti, viene da élemos, che in greco significa pietà, ma anche balsamo, e ha a che fare quindi con la compassione e la benevolenza.

Queste tre pratiche sono una forma di incremento di umanità in cui tutta l’umanità può ritrovarsi.

Per noi cristiani sono le forme classiche di impegno quaresimale che, più che ripetere, dovremmo rinnovare ogni anno, all’inizio della Quaresima, cercando di maturare sempre di più nell’attenzione a noi stessi e nell’attenzione agli altri.

Per Francesco pregare è imparare a chiamare Dio col nome di “Padre”, nutrendosi della Scrittura e dell’alfabeto della fede appreso in primo luogo col latte materno, a partire dal segno della croce. La famiglia può ancora essere una scuola di preghiera? Può esserlo nella misura in cui, oltre ad insegnare a pregare, la famiglia diventa il luogo in cui si insegna ai più piccoli ad immaginare, e quindi a riconoscere, che c’è una presenza diversa da quella visibile. “L’essenziale è invisibile agli occhi”, diceva il Piccolo Principe. I bambini di oggi sono bombardati da tantissimi stimoli, e le famiglie devono essere capaci di insegnare ai bambini il senso dell’invisibile.

Bisogna insegnare loro a chiudere occhi ed orecchie, per imparare a sentire da dentro il proprio mondo e il mondo di fuori.

I bambini sono continuamente bombardati dai moltissimi stimoli esterni e fanno fatica a distinguere l’interno dell’esterno. Imparare a sentire da dentro significa saper scorgere anche l’invisibile, nelle piccole o nelle grandi esperienze di fede, perché senza il senso della trascendenza nessuna esperienza spirituale è possibile.

Il Papa , nel messaggio per la Quaresima, auspica l’elemosina come “stile di vita”, a partire dalla concretezza della carne dell’altro. Di chi dobbiamo essere capaci di ascoltare il grido? In Quaresima siamo chiamati innanzitutto a prendere coscienza della nostra povertà, fragilità, vulnerabilità, e del grido che portiamo dentro di noi come creature umane. Se viene veramente vissuto, tutto questo ci rende sensibili ad ogni grido dell’umanità: in ogni donna e in ogni uomo si nasconde un povero che attende di essere scoperto.

Poi ci sono le urgenze, il dovere di solidarietà con i più poveri, ma non sarebbe possibile prenderci carico dei loro bisogni se non ci fosse una sensibilità abituale alla povertà che è dentro di noi e dentro ogni uomo e donna che incontriamo nel nostro cammino.

Quando parliamo di elemosina, non si tratta solo di un gesto per mettere a posto la nostra coscienza, ma di una relazione di “cospirazione della speranza” con tutti.

Ognuno di noi ha bisogno di un po’ di balsamo per le sue ferite. Non a caso la Quaresima comincia con il rito di imposizione delle Ceneri, dove ci viene ricordato che l’uomo è polvere, è nulla. Non per deprimerci, ma per fare appello a tutte le nostre energie e renderle polvere di stelle.

Nell’epoca dei social il digiuno, oltre alla condivisione del pane con chi non ce l’ha, è anche un digiuno mediatico. La Quaresima può essere uno stimolo per un “tempo diverso”, meno dedicato al frastuono digitale e più alle relazioni autentiche con l’altro? In passato il digiuno toccava l’aspetto alimentare perché era un’esperienza fondamentale nella vita di tutti. Oggi è una preoccupazione che noi occidentali non abbiamo più. Digiunare vuol dire stare sempre attenti a ciò che entra dentro di noi: è vero, come dice Gesù, che non ci può contaminare, ma è anche vero che ci può rendere meno liberi, più dipendenti. Dobbiamo stare attenti a tutto ciò che entra dentro di noi attraverso la bocca, gli occhi, le orecchie. In questa prospettiva, potremmo tradurre la parola digiuno con la parola “disciplina”, di cui soprattutto i giovani hanno perso il significato. La disciplina ha a che fare con l’ascesi: la nostra qualità di umanità passa attraverso la reale capacità di disciplina, altrimenti si regredisce allo stadio disumano o inumano. La Quaresima può essere, allora, un’occasione per vigilare maggiormente su ciò che entra dalla nostra bocca, dai nostri occhi, dalle nostre orecchie, per guadagnare in libertà e discernimento.

Fonte: agensir.it