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Una prospettiva al femminile…

donne1Il volume raccoglie i contributi del XIII colloquio dell’Istituto “Costanza Scelfo” per i problemi dei laici e delle donne nella Chiesa, su Le donne e la riforma della Chiesa, svoltosi a Roma dal 27 al 29 aprile 2017.

Il 500 centenario della Riforma Luterana, e il ripetuto appello alla riforma che, su esplicite sollecitazioni di Papa Francesco, pare caratterizzare l’orizzonte presente della Chiesa cattolica, suggerisce di accostare il tema anche nella prospettiva delle donne e della loro capacità utopica, progettuale e operativa. La scansione delle sessioni, elaborata dal Comitato Scientifico del Colloquio (F. Bosin, C. Militello, S. Noceti, M. Perroni), vuole suggerire un percorso di conoscenza e assunzione di soggettualità.

 “Sognare la Riforma” fa spazio innanzitutto alle elaborazioni utopiche, letterarie ed effettive. La città delle donne è tale non solo nella utopia di Cristina de Pizan ma anche nei beguinage, nei monasteri fortemente impregnati da una idealità di autonomia e coltivazione della soggettualità delle donne.  A seguire l’attenzione alle cosiddette “donne della Riforma”, cattoliche o protestanti che si siano poi dichiarate, si pensi alle donne che hanno accompagnato i riformatori, ma anche a Vittoria Colonna e le altre sue contemporanee. La comunicazione sulle donne nel movimento modernista ha il sapore di riacquisire l’ansia di rinnovamento che le ha animate.

 “Riforme nella Chiesa” vuole mettere a fuoco quelle donne che oggettivamente hanno auspicato o operato, in un modo o nell’altro, una reformatio ecclesiae. Da qui l’attenzione alle donne del ME (sino a Caterina da Siena e Brigida di Svezia), alle riformatrici della vita religiosa femminile d’età moderna (A. Merici, Mary Ward, Teresa d’Avila), alla suggestione femminista a cui fa riferimento la comunicazione relativa alla “Chiesa delle donne”.

“Riforme per la Chiesa” intende mettere a fuoco l’innovazione propria al passaggio alla vita attiva e dunque alla vita religiosa femminile fuori dalla clausura, e altresì valutare l’impatto socio-culturale-religioso dell’associazionismo femminile e finalmente fare emergere le ministerialità di fatto. Da qui la comunicazione sui modelli che l’hanno ultimamente espressa: le ausiliarie e le cooperatrici diocesane.

 Con “Riforme di Chiesa”, trasversalmente, ci si ripropone una valutazione critica dell’esperienza di riforma ipotizzata e messa in atto da donne, nella doppia angolazione dell’istanza carismatica di conversione (M. Maddalena de’ Pazzi, ad es.) e dell’istanza di trasformazione strutturale (l’apporto concreto delle donne al dibattito sulla riforma).

 Le donne e la riforma della Chiesa

a cura di Cettina Militello e Serena Noceti

Dehoniane 2017, pp. 312, euro 26,00

Maria custodiva e meditava nel suo cuore…

Dal Vangelo secondo           Luca 2,16-21

Pinturicchio1In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro. Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.

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In questa solennità ci soffermiamo insieme sul mistero di Maria che è madre di Dio. Il Vangelo che ci viene proposto è quello della Messa dell’aurora del giorno di Natale, cioè la visita dei pastori al bambino Gesù. Il brano però ha due piccole variazioni: viene eliminata la menzione degli angeli che si allontanano dopo aver dato l’annuncio ai pastori e al termine viene aggiunto il v. 21, che parla della circoncisione del Bambino e dell’imposizione del nome. I bambini ebrei infatti venivano sottoposti a questa pratica che era il segno della loro appartenenza al popolo di Israele e insieme ricevevano il nome con cui sarebbero stati riconosciuti per tutta la vita. Prima della riforma liturgica del Concilio Vaticano II in questo giorno si celebrava la festa della Circoncisione di Gesù e il Santo Nome. Con la riforma si è voluto spostare la festa dedicata a Maria riconosciuta come Madre di Dio, un dogma di fede che era stato affermato nel concilio di Efeso del 431.

(I pastori) andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. Invitati dagli angeli a rallegrarsi per la nascita del Salvatore e sollecitati a verificarne il segno (vv. 10-12) i pastori si muovono senza indugio, affrettandosi. E’ questo lo stesso atteggiamento che ebbe Maria nell’episodio della visitazione. Anche i pastori sono spinti da un motivo religioso: l’obbedienza alla parola che è stata loro annunciata. Il loro andare si conclude davanti al segno annunciato: il bambino. I pastori trovano Maria e Giuseppe. Luca ricorda per prima la madre di Gesù. Citando per prima Maria, nel nominare le persone che i pastori incontrano, Luca ci mostra la sua stima per la Madre di Gesù.

E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. 18. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. L’atteggiamento dei pastori è molto dinamico: prima ascoltano (vv. 10-11 e v. 15), poi si muovono e trovano il segno (v. 16), lo guardano e diventano a loro volta messaggeri, riferendo quanto avevano visto e udito. Il racconto supera il dato storico e diventa prefigurazione e modello della predicazione del vangelo. I pastori hanno accolto la parola della rivelazione, si sono lasciati portare a Gesù, hanno fatto l’esperienza iniziale della fede e quindi ora possono comunicarla agli altri. Inutile chiedersi chi siano coloro che udivano (non si sa se Maria e Giuseppe fossero rimasti soli dopo la nascita del bambino o vi fossero molte persone attorno a loro). Tutti quelli che udivano sono i futuri ascoltatori del vangelo, o meglio la stessa comunità cristiana che riflette sul fondamento della propria fede. Coloro che sentivano queste cose si stupivano. Lo stupore è la reazione dell’uomo dinanzi alle meraviglie di Dio, davanti all’azione di Dio che improvvisamente diventa manifesta nell’esistenza degli uomini.

Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. Davanti alle parole-evento di Dio però non ci si può fermare allo stupore. La rivelazione deve essere approfondita. E’ quello che ha fatto Maria, che “conservava tutte queste parole-evento (rhema)”. Maria cerca di penetrare il senso dei fatti che sta vivendo, delle parole dette dai pastori. Luca utilizza il verbo symballein (mettere insieme, avvicinare due parti di un intero, da cui il termine simbolo), che è stato tradotto con meditare. Si tratta di un’operazione di confronto che permette di far venire alla luce il senso profondo di un evento. Maria impegna la sua intelligenza e la sua volontà per penetrare eventi e parole che sono più grandi di lei, per capirli sempre meglio, con l’aiuto della grazia. Maria fin dall’inizio e per mezzo delle parole di rivelazione e degli eventi ai quali partecipa in prima persona viene formata alla fede e potrà diventare il modello del discepolo che ascolta la parola e la mette in pratica (Lc 8,21). Anche Maria giungerà alla fede piena solo alla Pasqua. Ma fin da ora si manifesta come il tipo della Chiesa che vive della parola che ha ricevuto da Dio.

I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro. Luca come è sua abitudine, termina il racconto con la partenza dei protagonisti. Come gli angeli, anche i pastori che hanno costatato la veracità della rivelazione ricevuta, glorificano Dio. Terra e cielo si uniscono per lodare Dio. Il canto di lode si ripete spesso nell’opera lucana e mostra come agli occhi dell’evangelista tale tipo di preghiera fosse profondamente legato alla sua comunità cristiana. I pastori tornano alle loro occupazioni. Non andranno in giro per il mondo ad annunciare la nascita di Gesù. Essi sono solo una prefigurazione dell’annuncio che si realizzerà compiutamente solo dopo la Resurrezione.

Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo. Questo versetto apre un nuovo paragrafo nei racconti dell’infanzia. Dopo essere stato annunciato ai pastori Gesù si sottomette alle prescrizioni della legge ebraica. Come tutti i bambini maschi del popolo di Israele all’ottavo giorno viene sottoposto al rito della circoncisione e all’imposizione del nome (cfr. Gn 17,12; Lv 12,3). Al quarantesimo giorno verrà portato al Tempio di Gerusalemme per la purificazione. E’ il brano che segue immediatamente questo versetto 21. Luca come ha fatto anche per la circoncisione di Giovanni (Lc 1,59) Luca si sofferma sul valore del nome del bambino, anche se qui il racconto è molto più breve e non riporta nemmeno i nomi dei genitori, neppure quello di Maria, che secondo le parole dell’angelo avrebbe dovuto imporre il nome al figlio (1,31). Tutto sembra procedere come per comando divino, per un bambino destinato ad una missione unica.

Monastero Matris Domini

In principio era il Verbo…

Dal Vangelo di Giovanni 1,1-18

puernatus1In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.

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Nel giorno di Natale ci viene proposto il prologo di Giovanni, il testo che più di tutti parla della preesistenza del Figlio presso il Padre al principio di ogni cosa. Giovanni nel redigere questo inno fa una sintesi tra la cultura greca, in cui vive, e quella ebraica, in cui si è svolta l’esistenza terrena di Cristo. Nell’inno infatti si parla del Logos, la Parola (che in italiano troviamo tradotto con Verbo), che nella cultura ellenistica di tipo stoico era la “ragione immanente al mondo”, che assicurava la coesione dell’universo e lo compenetrava nei suoi diversi aspetti. I testi biblici che sono stati modello del nostro inno sono invece Siracide 24 e Proverbi 8, che parlano della Sapienza personificata e della sua discesa dal cielo verso la terra. Lectio In principio era il Verbo, Giovanni per parlarci delle origini di Colui nel quale la comunità cristiana ha posto la propria fede, risale oltre gli antenati per fissarsi sull’inizio dell’universo. Giovanni ci porta alle soglie della storia, fin nelle profondità di Dio. Il principio di cui si parla in questo primo versetto è quello della Genesi “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gn 1,1). Ma qui non si parla di un’azione, ma di una esistenza che precede questo inizio. C’era il Logos. Non è stato creato, egli è al principio in modo assoluto. Non può essere catalogato tra le creature. e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Il Verbo è qualcuno di distinto da Dio, però è vicino a Dio. Al tempo stesso il Verbo è Dio, ma nell’originale greco in questa seconda parte della frase il termine Dio non ha l’articolo, quindi ci fa capire che il Verbo è Dio, ma in modo diverso da Dio.

Vi è una relazione tra queste due persone che non si può ancora chiamare Padre-Figlio (ciò avverrà solo con l’incarnazione). E’ una relazione dinamica in espansione. Solo la relazione caratterizza l’essere divino nella sua profondità. Egli era, in principio, presso Dio: Abbiamo dunque una prima localizzazione del Verbo. Egli stava sin dal principio presso Dio. E’ la Parola di Dio, un Dio che vuole dare una comunicazione all’esterno di se stesso. Dio non è mai stato senza Parola, senza la possibilità di comunicare se stesso. Ancora, il Logos è il modello di tutto ciò che verrà creato mediante la Parola. Accogliere il Logos significa disporsi, mediante lui, a esistere con Dio. All’inizio quindi vi è il mistero di Dio che risplende mediante il suo Logos e che pone ogni essere in dialogo con lui. Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. Questa frase completa la presentazione iniziale del Logos: pur essendo essenzialmente “presso Dio” in quanto parola è rivolto al “di fuori” di Dio, verso l’interlocutore, verso ciò che sta per essere chiamato all’essere “in principio”, verso lo sbocciare della creazione. Il Padre resta l’autore della creazione, ma ha creato tutto con la mediazione del Verbo. Nulla ha ricevuto l’esistenza se non mediante la presenza attiva del Logos. Quel tutto che è stato creato è la traduzione di panta, non solo il cosmo nel suo complesso, ma ogni singolo essere nella sua individualità e nella sua storia. La creazione però è una realtà dinamica, non è un atto originario limitato nel tempo, si rinnova continuamente. La Parola di Dio è presente e attiva lungo tutta la storia, con rivelazioni progressive del suo disegno e del suo ministero. La storia è dunque in cammino verso la salvezza definitiva ed è mediante il Logos che accade ogni evento. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; il Logos viene presentato ora come dono della vita. Si tratta dell’esistenza suscitata al momento della creazione, ma anche la partecipazione alla vita divina del Logos. Solo Dio è il vivente per eccellenza (cf. Sal 36,10) e tutto ciò che esiste è legato al suo soffio (Sal 104,28ss). Di conseguenza la vita che Dio ha suscitato per poter mantenersi deve rimanere senza interruzione in contatto con Dio, la sua sorgente. La vita implica anche una finalità da raggiungere, quel pieno sviluppo che corrisponderà al progetto di Dio sull’uomo. L’uomo è invitato a vivere fin da questa terra in accordo profondo, in comunione con Dio stesso. Però questo scopo non è raggiunto automaticamente: ci vuole la fede, che suscita un comportamento di giustizia e fedeltà basato sui valori che Dio propone. C’è un dialogo tra uomo e Dio fin dal principio, la dialettica dell’alleanza. La parola vita riguarda dunque l’esistenza, ma anche la relazione vivente, esistenziale con Dio stesso attraverso il Logos. Vi è dunque una vita che non è ancora assunta in pienezza, e che si sviluppa nella relazione con Dio. A tale riguardo il Logos-luce interviene per indicare all’uomo la via da percorrere, per crescere sempre più nella relazione con Dio. Questa luce riguarda valori essenziali di salvezza e anche un comportamento morale. Ciò era espresso anche nel libro della Sapienza: la Sapienza è detta riflesso della luce eterna (Sap 7,26). Gesù stesso nel vangelo di Giovanni si definirà in questi termini: “Io sono la luce del mondo chi segue me… avrà la luce della vita (Gv 8,12)”. La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Troviamo qui una coppia di nomi molto usata nella Bibbia: luce e tenebre. Ma le tenebre non sono preesistenti alla luce. Qui per tenebre dobbiamo intendere il caos, il non-essere presente prima della creazione. Su questo caos ha vinto la luce. Dopo il peccato originale però la tenebra è divenuta una potenza in azione, la possibilità di dire di no. Ecco che la luce risplende nelle tenebre e le tenebre non possono vincerla, come Gesù è sceso nel regno dei morti e non è stato vinto dalla morte. Chi rifiuta la parola di Gesù rimane nelle tenebre, resta cieco senza saperlo (Gv 9,39). Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Il discorso viene bruscamente interrotto da un nuovo personaggio: Giovanni il Battista. Si stava parlando della luce che non è stata vinta dalle tenebre. Non è stata una vittoria automatica. Il Dio di Israele, abituato a trovarsi sempre in giudizio con il suo popolo, ci tiene a portare a processo i suoi testimoni. Quindi anche qui nel prologo compare un personaggio che è chiamato a essere testimone del Logos presente nel mondo. Il testimone è “mandato da presso Dio”, dignità che il IV vangelo riserva solo a Gesù di Nazaret e al Paraclito. Questa qualifica rievoca le vocazioni dei profeti come Mosè, Isaia, Geremia, o il profeta atteso annunciato da Malachia (Ml 3,1.23). Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Un uomo di questo mondo viene dunque incaricato di proclamare agli uomini la presenza della luce del Logos, affinché gli uomini la riconoscano. La finalità di questa testimonianza è che tutti credano. Tutti devono riconoscere la luce che il Logos irradia nel mondo, la luce di vita. Cosa si intende per tutti? Il contesto universalistico in cui è immersa la prima parte del prologo invita a comprendere in questa parola non solo i contemporanei di Giovanni, ma gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Questa precisazione può rivelare la presenza di qualche polemica all’interno della comunità cristiana. Forse i seguaci di Giovanni affermavano fosse lui il vero Messia, quindi l’evangelista delimita la missione di Giovanni pur esprimendo per lui grande stima. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Il discorso ritorna sul Logos e si focalizza sul suo incontro con l’umanità. Il Logos qui è ricordato come “luce autentica”, in contrapposizione con le false luci che sarebbero apparse nel mondo, che non sono altro che ingannevoli idoli. Solo il Dio vivente è veritiero. Nella Bibbia si può leggere il desiderio della luce divina, ad es. Sal 4,7; 119,105; Is 9,1. Anche la Sapienza istruisce da sempre ogni uomo, rivela i misteri divini, ispira i saggi e i giusti donando loro il discernimento della volontà di Dio. Il Logos dunque illumina ogni uomo, ciascun uomo nella sua singolarità. Egli viene incontro a ciascun uomo, di ogni generazione, anche a quanti non appartengono al popolo di Dio (cf. Rm 1,19-21). Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Qual è stata la risposta del mondo davanti alla luce vera? Sebbene il mondo fosse stato creato per mezzo di lui, anche se gli uomini e le creature fossero in rapporto vitale con il loro Creatore, ebbene il mondo, le creature non hanno riconosciuto la luce che veniva a loro. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. Questo versetto precisa ancora meglio questo rifiuto: il Logos veniva nella sua “proprietà”, presso il popolo con cui aveva una relazione particolare. Qui ci sarebbe un riferimento a Israele. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome. C’è qualcuno però che ha accolto il Logos, la Parola di Dio. Sono gli uomini che hanno riconosciuto nel Logos il principio della loro esistenza e nelle sue promesse di vita il senso della loro storia: essi si lasciano illuminare da lui. Questa accoglienza è possibile a tutti. Il risultato dell’accoglienza è la fede nel “nome”. Il nome di Gesù Cristo, ma anche il nome di Dio, JHWH. A coloro che lo hanno accolto, il Logos ha dato il potere di divenire figli di Dio. C’è un dono che essi ricevono dal Logos, il potere, cioè la dignità, l’autorità di essere figli di Dio. Essere figlio di Dio indica un’appartenenza profonda a Dio, una vera salvezza vissuta nel presente, anche senza aver ancora la pienezza di grazia che annuncerà il v. 16. I quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. Coloro che hanno accolto il Logos quindi diventano figli di Dio, non appartengono più a un popolo particolare, non vengono più generati per il desiderio della sopravvivenza, ma provengono da Dio. La loro illuminazione coincide con il loro diventare figli di Dio. E il Verbo si fece carne. Questo versetto dà senso a tutto l’inno e ci introduce all’incarnazione del Logos, ultima tappa della storia di Dio che si comunica. Vi è una modifica nel modo della presenza e della manifestazione del Verbo. Il testo utilizza la parola carne invece che uomo, forse per non metterlo sullo stesso piano di Giovanni. Oppure si tratta di indicare in modo più incisivo la condizione nuova del Logos divenuto uomo. Il termine carne indica la condizione di fragilità, di miseria e di precarietà dell’essere umano. Forse qui indica già la morte con cui Gesù salverà il mondo. E venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, Letteralmente le parole greche sarebbero “e drizzò la propria tenda in mezzo a noi”. Questo dimorare è ricco di significato: si fa riferimento alla tenda del santuario portatile di JHWH nel cammino dell’esodo. Il Dio che si rendeva presente nell’arca dell’alleanza, cioè nella legge, ora si rende presente in una carne mortale. E’ una presenza che non riguarda solo Israele, ma “noi”, cioè ogni uomo. Così “noi” abbiamo potuto vedere la gloria del Logos. Questo noi indica soprattutto i testimoni della vita di Gesù di Nazaret, ma anche tutti coloro che nella fede si lasciano illuminare dalla luce del Logos. Nel Vangelo di Giovanni la gloria di Cristo si manifesta soprattutto nei segni (cf. Cana, Gv 2,11). Gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. Si tratta di una gloria particolare, poiché il Figlio è unigenito, è unico e irripetibile. Egli è veramente generato dal Padre e pertanto egli è la gloria del Padre. Il Logos si è incarnato: a partire da questo versetto Dio non viene più definito Dio, ma Padre. Il Figlio è uscito dal Padre affinché in Lui risplenda la gloria del Padre stesso. Il Logos incarnato poi è “riempito” di grazia e di verità. La grazia è il dono divino, la sua benevolenza, il suo favore (cf Rm 5,15). La verità si può intendere qui come la conoscenza di Dio. Il Logos può quindi comunicare la verità del Padre. Giovanni gli dà testimonianza e proclama: “Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me”. Giovanni dava testimonianza alla luce, ora ripete la sua testimonianza riguardo il Logos incarnato. Gesù è al di sopra di Giovanni. Questo verrà ripetuto nel prologo narrativo del IV Vangelo (Gv 1,27). Già prima di incontrarlo Giovanni conosceva la superiorità di Colui che sarebbe venuto e si sentiva indegno di essere suo schiavo.

Questa testimonianza di Giovanni non è stata fatta una volta per tutte, essa continua nel tempo. la sua parola si fa garante di una realtà che deve essere sempre nuovamente riconosciuta. Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Ora la parola torna ai credenti, non solo i testimoni diretti, ma la comunità dei discepoli che si sono moltiplicati. Noi abbiamo ricevuto, partecipiamo alla pienezza di Lui, alla pienezza di grazia propria dell’Unigenito di Dio. L’espressione “grazia su grazia” significherebbe una grazia che si sovrappone a un’altra. La prima grazia sarebbe la Legge ebraica, sulla quale si è posta la legge di Gesù che la porta a compimento. Ma per non restringere troppo il senso di questa affermazione, potremmo pensare alla prima grazia come quella della presenza universale del Logos non incarnato; la seconda è il dono della verità mediante l’incarnazione di Gesù Cristo. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Questo versetto presenta il superamento della legge di Mosè e dell’esperienza di Israele. Vi è un parallelismo tra Mosè e Gesù. Secondo la costruzione della frase in greco alla legge corrisponde la verità e al verbo “fu data” corrisponde la grazia. Al dono della legge corrisponde il dono della verità in Gesù Cristo. Tra i due membri della frase non vi è opposizione ma progressione e la progressione va dalla legge alla verità. Questa verità supera la legge che è soltanto una manifestazione incompleta, e rivela pienamente ciò che il Dio dell’Alleanza aveva voluto comunicare a Israele fin dalla sua elezione. Non vi è dunque contrapposizione tra Antico e Nuovo Testamento. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato. Al termine del poema Giovanni risale con uno slancio in verticale a colui presso il quale era il Logos: Dio in senso assoluto. Vi è un collegamento tra vedere/rivelare. Vedere Dio è l’aspirazione più profonda del credente, secondo la Bibbia. Ma salvo eccezioni quest’aspirazione deve attendere il cielo per potersi realizzare. Per questo lungo i secoli è stato trasportato nel culto l’incontro con Dio. Nel tempio si poteva soddisfare simbolicamente il desiderio di accostarsi al Signore, di fare esperienza diretta del Dio vivente. Secondo la tradizione biblica l’uomo non può vedere Dio a causa della sua condizione di peccatore e perché Dio è assolutamente trascendente. Solo in Cristo la gloria di Dio si lascia vedere. Il Figlio unigenito ce lo ha raccontato (è questa una traduzione più incisiva di exegeomai). E’ una manifestazione che implica quindi un ascoltare e un obbedire, secondo la tradizione sapienziale. Un’esperienza che coinvolge molto più profondamente che il semplice vedere. Di fatto il Logos, la Parola va ascoltata. Egli ci spiega il Padre nei minimi particolari. Ecco cosa siamo chiamati ad ascoltare nella lettura del Vangelo di Giovanni.

Monastero Matris Domini

 

tenerezza1Maria, la rivoluzione della tenerezza

Maria è colei che sa trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù, con alcune povere fasce e una montagna di tenerezza. Lei è la piccola serva del Padre che trasalisce di gioia nella lode. È l’amica sempre attenta perché non venga a mancare il vino nella nostra vita. È colei che ha il cuore trafitto dalla spada, che comprende tutte le pene. Quale madre di tutti, è segno di speranza per i popoli che soffrono i dolori del parto finché non germogli la giustizia. È la missionaria che si avvicina a noi per accompagnarci nella vita, aprendo i cuori alla fede con il suo affetto materno. Come una vera madre, cammina con noi, combatte con noi, ed effonde incessantemente la vicinanza dell’amore di Dio.

…Ogni volta che guardiamo a Maria torniamo a credere nella forza rivoluzionaria della tenerezza e dell’affetto. In lei vediamo che l’umiltà e la tenerezza non sono virtù dei deboli ma dei forti, che non hanno bisogno di maltrattare gli altri per sentirsi importanti. Guardando a lei scopriamo che colei che lodava Dio perché «ha rovesciato i potenti dai troni» e « ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,52.53) è la stessa che assicura calore domestico alla nostra ricerca di giustizia. È anche colei che conserva premurosamente «tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19). Maria sa riconoscere le orme dello Spirito di Dio nei grandi avvenimenti ed anche in quelli che sembrano impercettibili. È contemplativa del mistero di Dio nel mondo, nella storia e nella vita quotidiana di ciascuno e di tutti. È la donna orante e lavoratrice a Nazaret, ed è anche nostra Signora della premura, colei che parte dal suo villaggio per aiutare gli altri «senza indugio» (Lc 1,39). Questa dinamica di giustizia e di tenerezza, di contemplazione e di cammino verso gli altri, è ciò che fa di lei un modello ecclesiale per l’evangelizzazione.

Vergine e Madre Maria, tu che, mossa dallo Spirito, hai accolto il Verbo della vita nella profondità della tua umile fede, totalmente donata all’Eterno, aiutaci a dire il nostro “sì” nell’urgenza, più imperiosa che mai, di far risuonare la Buona Notizia di Gesù.

Tu, ricolma della presenza di Cristo, hai portato la gioia a Giovanni il Battista, facendolo esultare nel seno di sua madre. Tu, trasalendo di giubilo, hai cantato le meraviglie del Signore. Tu, che rimanesti ferma davanti alla Croce con una fede incrollabile, e ricevesti la gioiosa consolazione della risurrezione, hai radunato i discepoli nell’attesa dello Spirito perché nascesse la Chiesa evangelizzatrice.

Ottienici ora un nuovo ardore di risorti per portare a tutti il Vangelo della vita che vince la morte. Dacci la santa audacia di cercare nuove strade perché giunga a tutti il dono della bellezza che non si spegne.

Tu, Vergine dell’ascolto e della contemplazione, madre dell’amore, sposa delle nozze eterne, intercedi per la Chiesa, della quale sei l’icona purissima, perché mai si rinchiuda e mai si fermi nella sua passione per instaurare il Regno.

Stella della nuova evangelizzazione, aiutaci a risplendere nella testimonianza della comunione, del servizio, della fede ardente e generosa, della giustizia e dell’amore verso i poveri, perché la gioia del Vangelo giunga sino ai confini della terra e nessuna periferia sia priva della sua luce.

Madre del Vangelo vivente, sorgente di gioia per i piccoli, prega per noi. Amen. Alleluia.

 

Papa Francesco, Evangelium gaudium, 2013

Natale 2017

natale1La Vergine ci offre suo Figlio come principio di vita nuova.

La luce vera viene a rischiarare la nostra esistenza. In questa notte ci viene reso manifesto il cammino da percorrere per raggiungere la meta.

La luce ci indica la strada verso Betlemme.

Dobbiamo andare a vedere il nostro Signore deposto in una mangiatoia. Ecco il motivo della gioia e della letizia: questo Bambino è “nato per noi”,

è “dato a noi”, come annuncia Isaia (Cf 9.5)

(Cf Papa Francesco)

Questo è il nostro augurio di Buon Natale: abbiamo un motivo per essere nella gioia!

sr M. Regina Cesarato

Presidente USMI Nazionale e Consiglio

P.S. L’USMI rimane aperto nei gg. 27-28-29 dicembre e 3-4-5 gennaio 2018

Governare i carismi oggi. Corso avanzato:

“Persone, comunità e governo nelle organizzazioni a movente ideale

01b1Il Polo Lionello Bonfanti – E. di C. Spa organizza la quarta edizione del Corso per Superiore/i, Consigli Generali/ Provinciali, Econome/i e in generale coloro che hanno un ruolo di governo e/o responsabilità all’interno di Istituti di Vita Consacrata e Società di Vita Apostolica e/o loro opere

Il Corso vuole affrontare il tema delle persone e delle relazioni all’interno dell’organizzazione, gli strumenti del principio carismatico, la sfida della reciprocità, il lavorare insieme, le sfide del governo e delle opere alla luce del carisma. A partire da questi temi vogliamo riflettere sulla trasformazione delle forme e delle organizzazioni della vita consacrata e delle opere generate da un carisma.

In allegato il Programma

Carismi5-8

Fiat lux

luce1a ricordare la relazione costante che il cristiano deve avere con Dio, riproducendo nella sua esistenza quotidiana ciò che ha accolto credendo alla rivelazione (cfr. 1Gv 2,9-10: «Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui occasione di inciampo»), inoltre richiama innegabilmente il fatto che Dio è fonte, per il credente, di ogni bene, di vita e di salvezza, secondo l’abituale significato della metafora nel Nuovo Testamento. Si può dire che l’affermazione di 1Gv 1,5 presupponga che la pienezza e la potenza di vita stiano anzitutto (o forse “soltanto”) in Dio.

Nel Nuovo Testamento si ritrovano i valori simbolici della luce già individuati nell’Antico Testamento, ma con sottolineature peculiari e aspetti innovativi. Notiamo dapprima, però, un uso più concreto del termine: l’apparizione di una «luce dal cielo» (At 9,3; 22,6; 26,13) è legata all’epifania di Gesù Cristo a Paolo, così come l’apparizione di un angelo illumina la cella in cui Pietro è imprigionato (At 12,7); analogamente l’evento della trasfigurazione di Gesù è descritto facendo riferimento alla luce (cfr. Mt 17,2.5). Questa descrizione di particolari manifestazioni del divino come apparizioni di una «luce» si discosta dall’Antico Testamento che preferisce parlare del fuoco (cfr., p. es., Es 3,2; 19,18; 24,17). Probabilmente il riferimento alla luce, senza precisazione della sua fonte, veniva percepito dagli autori del Nuovo Testamento come rimando più adeguato alla trascendenza divina.

Dal punto di vista antropologico, interessante è il detto di Mt 6,22-23, che paragona l’occhio umano a una lampada, secondo un’immagine comune sia nel mondo greco che in quello giudaico: «La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!». Si faccia attenzione che il riferimento finale alla «luce» è probabilmente sempre un immagine dell’occhio: come organo della vista è ciò che consente che ci sia luce nella persona. Il detto, quindi, non fa tanto riferimento a una “illuminazione interiore”, ma al valore dello sguardo sulla realtà che si vive e sui rapporti con gli altri, che può essere «semplice» (cioè retto, limpido, mite) o «cattivo» (cioè, malizioso, invidioso, cupido). L’occhio esprime l’intenzionalità fondamentale che il soggetto applica alla realtà e questa si riflette sulla sua situazione complessiva di vita (rappresentata dal «corpo»), descritta come luminosa o tenebrosa. Nel brano parallelo l’evangelista Luca aggiunge un versetto («Se dunque il tuo corpo è tutto luminoso, senza avere alcuna parte nelle tenebre, sarà tutto nella luce, come quando la lampada ti illumina con il suo fulgore», Lc 11,36) che sembra suggerire che la vita di colui che ha lo sguardo «semplice» sia capace di diffondere luce; con ciò ci si ricollega all’interpretazione matteana del detto sulla lampada che non va nascosta (Mt 5,14-16 «Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli»).

Come si vede il fine della testimonianza, data dalle opere buone che sgorgano dallo sguardo semplice sulla realtà, è la glorificazione di Dio, il riconoscimento della sua paternità e del suo operare nella storia. Infatti diversi detti collegano l’immagine della luce al processo del pubblico manifestarsi e quindi della rivelazione: così è per il detto sulla lampada che non si può nascondere in Mc 4,21-22 («Diceva loro: “Viene forse la lampada per essere messa sotto il moggio o sotto il letto? O non invece per essere messa sul candelabro? Non vi è infatti nulla di segreto che non debba essere manifestato e nulla di nascosto che non debba essere messo in luce”»; cfr. Lc 8,16; 11,33) e per Mt 10,27 («Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze»; cfr. Lc 8,17; 12,2-3). Quello che Gesù annuncia, infatti, è di per se stesso destinato a diventare manifesto, in quanto espressione del disegno divino di salvezza che chiede all’uomo di essere accolto. Ma ciò significa, ovviamente, che Gesù stesso (o meglio: il Messia atteso) può essere definito «luce» (così in Mt 4,16, nella ripresa di Is 9,1; e in Lc 2,32): questo non tanto in relazione alla sua natura, ma piuttosto alla sua missione, che è quella di donare la salvezza divina (riprendendo quindi il valore simbolico della luce che si trova in diversi passi dell’Antico Testamento). La connessione fra luce e offerta della salvezza si può trovare anche nella parola apostolica (cfr At 13,47, dove Paolo e Barnaba applicano alla loro attività l’oracolo di Is 4,6, e Ef 3,8-9), ovviamente in quanto proclamazione del Vangelo di Gesù. Collegando questo a Mt 5,14-16 si vede come la vita dell’apostolo e discepolo debba essere improntata all’assoluta trasparenza luminosa del suo parlare e del suo agire in riferimento all’annuncio del Cristo.

La rappresentazione della rivelazione divina con la metafora della luce viene ripresa nelle lettere paoline, con alcuni tratti caratteristici. Anzitutto sottolinea la possibilità per il credente di conoscere o comprendere la realtà salvifica che gli viene donata (2Cor 4,6: «Dio, che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo»; cfr. anche Ef 1,17-18: «Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi»). In questa stessa prospettiva il momento iniziale della vita cristiana, la conversione alla fede in Gesù Cristo può essere definita come «illuminazione» (cfr. Eb 6,4; Eb 10,32; secondo alcuni autori questi passi farebbero riferimento al battesimo, ma non è certo; l’uso del termine «illuminazione» per indicare il battesimo si trova però nel II secolo d.C, negli scritti di Giustino). In secondo luogo la manifestazione del Cristo è anche svelamento di ciò che si trova nella profondità del cuore umano (1Cor 4,5 «Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode»; cfr. Ef 5,13 dove l’accento è però sulla condanna) e quindi vale come giudizio. In questo la prospettiva escatologica (cioè quella della fine dei tempi) e quella etica (relativa alla prassi quotidiana) si intrecciano. Infatti il cristiano, accogliendo la salvezza di Cristo, è reso già ora «capace di partecipare alla sorte dei santi nella luce» (Col 1,12): in questo versetto si deve evidentemente intendere la «luce» come una metafora della comunione con la divinità. D’altra parte sono ripetuti gli inviti a vivere nella luce e a rifiutare le opere delle tenebre, dove l’immagine si riferisce senz’altro alla rettitudine dell’agire (cfr Rm 13,12; Ef 5,8-9); anzi il richiamo alla separazione primordiale fra luce e tenebre (2Cor 4,6) spiega anche la calda esortazione a uno stile di vita chiaramente distinto da quello dei non-credenti (2Cor 6,14 «Non lasciatevi legare al giogo estraneo dei non credenti. Quale rapporto infatti può esservi fra giustizia e iniquità, o quale comunione fra luce e tenebre?»). L’idea della separazione e della distinzione rispetto ai non credenti, sia dal punto di vista etico sia da quello della speranza nella vita futura, soggiace probabilmente anche all’uso dell’espressione «figli della luce» (cfr. Lc 16,8; Gv 12,36; Ef 5,8; 1Ts 5,5) che non si trova nell’Antico Testamento, ma è frequente nei testi di Qumran.

Nel Vangelo di Giovanni è Gesù stesso a definirsi «luce del mondo» (Gv 8,12; 9,5; cfr. 12,35-36.46) e il significato dell’immagine è duplice: da una parte, infatti, sottolinea il ruolo di Gesù nella Rivelazione, anzi il suo essere la Rivelazione stessa (la «verità» nel linguaggio giovanneo) che va accolta con fede (non a caso la definizione di Gv 9,5 apre il racconto del miracolo di guarigione del cieco nato che non solo riacquista la vista, ma giunge alla fede); dall’altra la connessione fra luce e vita riprende il tema della salvezza, ovvero della pienezza di vita, offerta da Dio agli uomini in Gesù. La connessione tra luce e vita, che risale all’esperienza basilare dell’essere umano e che veniva affermata dal racconto di Gen 1, viene ripresa in forma marcatamente cristologica, affermando che tale connessione dipende dal “Verbo” sin dal «principio» (cfr. Gv 1,4 «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini») e va accolta dall’uomo credendo in Gesù di Nazareth. Chi rifiuta la sua persona si trova di fatto nelle «tenebre» (Gv 3,19-21; cfr. 11,9-10): in tal senso la rivelazione e l’offerta di salvezza sono anche giudizio, perché smascherano alcune situazioni o posizioni esistenziali come radicalmente opposte alla volontà divina di vita e quindi apportatrici di morte.

Nella prima lettera di Giovanni la «luce» non è posta come predicato di Gesù, ma di Dio (1Gv 1,5: «Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna»). Questo non va inteso come una pura definizione dell’essenza divina, cosa che tra l’altro comporterebbe di intendere il vocabolo «luce» in senso concreto e non metaforico, perché il contesto immediatamente seguente mette in rapporto tale affermazione con la condotta concreta dei credenti, che devono «camminare nella luce» (1Gv 1,7). L’immagine serve quindi anzitutto a ricordare la relazione costante che il cristiano deve avere con Dio, riproducendo nella sua esistenza quotidiana ciò che ha accolto credendo alla rivelazione (cfr. 1Gv 2,9-10: «Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui occasione di inciampo»), inoltre richiama innegabilmente il fatto che Dio è fonte, per il credente, di ogni bene, di vita e di salvezza, secondo l’abituale significato della metafora nel Nuovo Testamento. Si può dire che l’affermazione di 1Gv 1,5 presupponga che la pienezza e la potenza di vita stiano anzitutto (o forse “soltanto”) in Dio.

Filippo Serafini,

docente di Sacra Scrittura, Istituto Superiore di Scienze Religiose all’Apollinare, Roma

Liberamente tratto da DISF.org

Dal Vangelo secondo Giovanni        Gv 1,6-8.19-28

avvA3-w1Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaìa». Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo». Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.

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Meditiamo il testo con i Padri della Chiesa dai Sermoni di sant’Agostino, vescovo (Sermo, 293, 3 s.) Giovanni è la voce, ma il Signore “ da principio era il Verbo ” (Gv 1,1). Giovanni una voce per un tempo, Cristo il Verbo fin dal principio, eterno. Porta via l’idea, che vale piú una parola? Se non si capisce niente, la parola diventa inutile strepito. La parola senza un’idea batte l’aria, non alimenta il cuore. E anche mentre alimentiamo il cuore, guardiamo l’ordine delle cose. Se penso a ciò che devo dire, c’è già l’idea nel mio cuore; ma se voglio parlare con te, mi metto a pensare se sia anche nel tuo cuore, ciò che è già nel mio. Mentre cerco come possa giungere a te e fissarsi nel tuo cuore l’idea che è già nel mio, formo la parola e, ormata la parola, parlo a te: il suono della parola porta a te l’intelligenza dell’idea; è il suono che passa da me a te, l’idea invece, che ti è stata portata dalla parola, è già nel tuo cuore e non se n’è andata dal mio. Il suono, dunque, portata l’idea in te, non ti par che ti dica: “ Bisogna che lui cresca e che io venga diminuito?” Il suono della parola fece il suo ufficio e scomparve, come se dicesse: “ Questa mia gioia è completa ” (Gv 3,30). Afferriamo l’idea, assimiliamo l’idea per non perderla piú. Vuoi vedere la parola che passa e la divinità permanente del Verbo? Dov’è ora il Battesimo di Giovanni? Fece il suo ufficio e passò. Il Battesimo di Cristo ora è in voga. Crediamo tutti in Cristo, speriamo d’essere salvi in lui: questo disse la parola. Ma poiché è difficile distinguere tra parola e idea, lo stesso Giovanni fu creduto Cristo. La parola fu ritenuta idea, ma la parola si dichiarò parola, per non ledere l’idea. “ Non sono “, disse, “ Cristo, né Elia, né profeta “. Gli fu risposto: “ Chi sei, dunque, tu? Io sono “, disse, “ voce di colui che grida nel deserto: Preparate la via del Signore ” (Gv 1,20-23). “ Voce di uno che grida nel deserto “: voce di uno che rompe il silenzio. “ Preparate la via del Signore “: come se volesse dire: Io vado rimbombando per introdurlo nei cuori, ma non troverò un cuore nel quale egli si degni di entrare, se non preparate la via. Che vuol dire: “ Preparate la via “, se non supplicate convenientemente? che cosa, se non pensate umilmente? Prendete da lui esempio d’umiltà. Viene ritenuto il Cristo, dichiara di non essere ciò che è ritenuto, né si avvantaggia per il suo prestigio dell’errore altrui. Se dicesse: Io sono il Cristo, quanto facilmente sarebbe creduto, se, prima ancora che lo dicesse, già lo era ritenuto! Non lo disse Si ridimensionò, si distinse, si umiliò. Capí dove era la sua salvezza: capí che egli era una lucerna ed ebbe paura di essere spento dal vento della superbia… Gli occhi deboli hanno paura della luce del giorno, ma possono sopportare quella di una lucerna. Perciò la luce del giorno mandò innanzi la lucerna. Ma mandò la lucerna nel cuore dei fedeli, per confondere i cuori degli infedeli. “ Ho preparato “, dice, “ la lucerna al mio Cristo “: Giovanni araldo del Salvatore, precursore del giudice che deve venire, l’amico dello sposo.

Dalle parole ai fatti…Larga convergenza

k350624891Registriamo con fiducia la larga intesa sulla  “garanzia” del diritto di apprendere dello studente senza discriminazioni economiche; del diritto dei genitori di agire la propria responsabilità educativa in piena libertà di scelta educativa, che necessita di un pluralismo formativo (buona la scuola pubblica statale, buona la scuola pubblica paritaria) ; del diritto dei docenti a parità di titolo di scegliere una buona scuola pubblica statale e paritaria con il medesimo trattamento economico; del diritto dei bambini Dv Abili a scegliere fra una scuola pubblica statale e paritaria.

 – 05 Dicembre 2017 da Tutto Scuola “Aprea e Gelmini sul costo standard: Fedeli ok, il modello è quello della Lombardia”. Intanto il Gruppo, di cui fa parte l’ex ministro Luigi Berlinguer, «può lavorare già nei prossimi mesi, prima delle elezioni politiche, su una ipotesi di lavoro largamente condivisa partendo da una proposta strutturata e da un’esperienza consolidata come quella di Regione Lombardia». Quanto all’attuazione concreta, prosegue Aprea, «si deve guardare alla prossima legislatura, ma in un’ottica di ricerca e ampia condivisione di un modello che valorizza la libertà di scelta delle famiglie tra scuole tutte ugualmente affidabili sul piano della qualità»  (clicca qui per leggere).

Ormai la questione è chiara, i tabù si sono rotti, il cuore del problema non è tanto il sostegno economico alle scuole paritarie quanto un nuovo e diverso metodo di finanziamento del sistema educativo e pubblico nel suo complesso.

Credo che potremmo guardare  a questa come ad un’opportunità che non si riduca all’ennesima occasione persa. L’attuale e il futuro governo non potranno pensare di ignorare le questioni di diritto da lungo tempo tradite.

  05 Dicembre 2017 da Tutto Scuola, “Costo standard, la svolta annunciata ” A presiedere il Gruppo di lavoro, secondo informazioni valorizzate soprattutto da fonti di stampa cattoliche, sarà l’ex ministro Luigi Berlinguer, autore di quella legge n. 62/2000 che riconoscendo la natura ‘pubblica’ dell’attività svolta dalle scuole non statali paritarie avrebbe a loro avviso posto le premesse anche per il loro finanziamento  (clicca qui per leggere).

  27 Novembre 2017 da Tecnica della Scuola, “Scuole paritarie, Fedeli apre al “costo standard”. Alfieri: “Un passaggio storico” , Anche il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, si dice entusiasta dell’apertura (clicca qui per leggere).

A cosa serve riconoscere un diritto se non lo si garantisce? Nessun cedimento e nessuna strumentalizzazione a dirla con le parole di Luigi Sturzo: “Finché gli italiani non vinceranno la battaglia delle libertà scolastiche in tutti i gradi e in tutte le forme, resteranno sempre servi (…) di tutti perché non avranno respirato la vera libertà che fa padroni di se stessi e rispettosi e tolleranti degli altri, fin dai banchi della scuola, di una scuola veramente libera“.

Crepacci assetati di Infinito

images5W31LHVZ1Navighiamo in un mondo di distrazione crescente e di relazioni personali sempre più in pericolo. Il male, sotto forme diverse, germoglia un po’ ovunque. Fin troppo facile snocciolarne il lungo elenco. Ma è certo – come assicurava Teresa di Calcutta – che fra tutti i mali, il peggiore che può soffrire un essere umano è la mancanza di affetto. Eppure anche nella fotografia più scura fanno capolino piccole luci di speranza, accese da chi senza clamore non s’arrende e non rinuncia ad essere se stesso, con dignità; il suo sguardo vede e soccorre chi incontra; svolge il suo compito responsabilmente; fa del bene nelle situazioni più ordinarie… Gente normale, insomma. Inconsapevolmente eroica. Gente che nella fatica quotidiana conosce la gioia di imparare a sintonizzarsi sugli altri in modo genuino. E nel nostro mondo argina l’imperante disaffezione alle idee, all’impegno, alla fede…

A dettare il ritmo di marcia verso il mistero dell’altro non può essere la paura, che fa solo ripiegare su se stessi, isolando da uomini e problemi. Ma nei recessi di ogni esistenza umana vi è un pizzico di profeta. Il che per il cristiano significa consentire al seme della Parola di entrare nei solchi della propria sensibilità e guarirla. È accogliere l’invito a tirare fuori da sé il meglio mettendo da parte ogni sterile borbottìo… Le lamentele infatti distolgono dalla necessità di imparare a mettersi in discussione… Come le sedie a dondolo, ti tengono impegnato, ma non ti portano da nessuna parte. Rivelano invece quella sindrome di vittimismo oggi così diffusa, che abbassa ogni capacità di risolvere i problemi. E incentra, anzi, sempre più su se stessi. Per uscirne non c’è che una via: impegnarsi ad accettare gli altri e amarli così come sono, con il loro egoismo e aggressività… Quando finalmente le paure diminuiscono e le persone cominciano ad ascoltarsi a vicenda senza pregiudizi, si potrà capire perché questo o quello agiscono in un certo modo e sintonizzarsi su loro… È proprio vero: perché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime (Albert Camus). Vale per tutti, nessuno escluso.

La crescita di una persona verso l’amore e la saggezza è comunque sempre lunga; quando poi si tratta di una comunità, avviene ancora più lentamente… Sempre però viene da Dio quando si grida a Lui dal fondo del proprio abisso e ci si lascia penetrare dal suo Spirito. Non si tratta di nascondere, né di ostentare, le proprie ferite -che sono sempre risultato di altre e altre e altre ferite- ma di scoprire che proprio quelle ferite aiutano a vivere nell’umiltà e nella verità… Allora nel crepaccio assetato di infinito (Kierkegaard) che è l’uomo, Dio gli si fa incontro, scarcera tutta la luce racchiusa in lui, e sazia il suo cuore di Infinito.

 

 

Luciagnese Cedrone

lucia.agnese@tiscali.it