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E’ l’ordine che il grande sant’Agostino ascoltò un certo giorno della sua vita ormai adulta. Racconta: “Dalla casa vicina mi giunge una voce, come di fanciullo o fanciulla, non so, che diceva cantando e ripetendo più volte: Prendi e leggi, prendi e leggi”. Non sapendo egli dare a questa voce altra interpretazione se non che si trattasse di un comando divino, tornò sui suoi pasi e riprese in mano il libro che aveva lasciato presso il suo amico Alipio. Scrive ancora lui: “Lo afferrai, lo aprii e lessi tacito il primo versetto su cui mi caddero gli occhi. Diceva: ‘Non nelle crapule e nelle ebbrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo’. Non volli leggere oltre, né mi occorreva”.
Un versetto biblico, tratto dalla Lettera di Paolo ai Romani, interrompe l’itinerario di una persona che figurerà nell’elenco dei più rinomati scrittori di ogni letteratura. Gli impone un totale cambio di rotta. E’ il momento della svolta esistenziale prodotto da un versetto biblico. D’ora in poi la sua vita dovrà essere reimpostata. Non più futilità, non più soltanto piaceri, ma ricerca piena, impegno serio e totale, continuo, imperituro nella conformazione a Cristo Maestro e Signore. Doveva rivestirsi del Signore Gesù, acquisire la sua mentalità, adeguarvi le decisioni, sublimarle in una donazione senza riserve.
Così è costellata la storia cristiana, la storia di coloro che seppero trarre dalla Parola di Dio, scritta sotto l’assistenza dello Spirito Santo, incentivi per una diversa impostazione del proprio progetto vitale. Agostino doveva abbandonare le frivolezze della vita e concentrarsi unicamente nella ricerca dell’amore di Dio. Prima di lui, Antonio aveva ascoltato: “Va’, vendi tutte le cose che hai, dàlle ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, e vieni, seguimi”. Vendette, diede ai poveri, si ritirò nel deserto e ora è conosciuto come l’ideatore e l’iniziatore di una vita tutta donata a Dio, come è la vita consacrata ed è venerato come il grande sant’Antonio abate.
In tempi più recenti il beato Giacomo Alberione impostò la propria vita e il proprio intenso, eroico, geniale impegno apostolico sul messaggio che gli Angeli a Betlemme, or sono 2000, annunciarono ai pastori tutti intenti nella custodia del loro gregge: “Gloria a Dio e pace agli uomini che egli ama”.
Papa Francesco nel suo messaggio per questa Quaresima scriveva: “La Parola di Dio è una forza viva, capace di suscitare la conversione nel cuore degli uomini e di orientare nuovamente la persona a Dio. Chiudere il cuore al dono di Dio che parla ha come conseguenza chiudere il cuore al dono dei fratelli”.
Meglio commettere errori con gentilezza che fare miracoli con scortesia, esortava Madre Teresa. D’accordo. Ma, al di là della cordialità da salotto, stiamo davvero comunicando gli uni con gli altri? Non è cosa da poco chiederselo perché la comunicazione, a partire da quella fondamentale tra una mamma e il suo bambino, vive nella relazione e mette in gioco ogni legame. Quando è distorta ferisce profondamente e conduce a rapporti distorti. Non è esagerato affermare che, proprio nell’epoca dell’estensione capillare della rete, paradossalmente, la comunicazione è venuta a mancare. Comunicare infatti è disponibilità a lasciarsi arricchire dal positivo dell’altro, anche quando è nascosto da un cumulo di miserie e di errori e ci sembra di ‘perdere tempo’ a cercarlo; è aprirsi ad un rapporto orientato all’effettiva e reciproca crescita. Presuppone perciò una partecipazione attiva sia nell’esprimere che nel ricevere. Il che teoricamente è il desiderio di molti e praticamente il programma di pochi.
Lo rivela il clima che si respira oggi nelle più diverse comunità… dove, concentrati sulle cose da fare, spesso siamo carenti di empatia e di considerazione delle difficoltà di ognuno. Segnati, invece, dal giudizio sull’impegno degli altri, alla fine ci si rivela ipocriti, perché si predica ciò che non si pratica. In realtà la persona esprime pienamente se stessa quando sa e sente di essere accolta… Ma come riuscire a sintonizzarsi sul punto di vista e sulla realtà degli altri per poterli accogliere così come sono?
Dio ci ha fatto il dono dell’angoscia perché ammettiamo di non bastarci e di aver bisogno di Lui; di avere conti che non tornano e dover chiedere aiuto… Ci chiede un lavoro un po’ amaro: farci arrivare al cuore il dolore altrui. Guardarlo senza fare zapping… Nel modo in cui comunichiamo ed esercitiamo il potere personale -poco o scarso che sia- c’è sempre un consenso che andiamo cercando… Ma nessuno ha il diritto di crescere solo lui soffocando gli altri… E il Vangelo c’invita a rivedere il modo in cui esercitiamo tale potere. Capire che cosa provano gli altri e perché, sapere che cosa provo io e perché… aiuta sempre a prendere decisioni che fanno crescere. Potrebbe essere utile anche, alla sera, in un angolo di revisione personale, chiedersi se qualcosa di nuovo ho imparato dalle persone incontrate in giornata; se con un ascolto serio ho aiutato qualcuno a comunicare; se mi è usuale ripetere: vorrei capire meglio!…nella certezza che partire dalla vita e dalle esigenze dell’altro permette a Dio, che fa ogni cosa nuova, di farci nascere di nuovo. Il cambiamento avverrà per iniziativa individuale e non collettiva. Siamo qui. E moriremo, come non fossimo mai stati. Ma le azioni che nascono dalla conversione del cuore riescono a stupire: guariscono la propria vita e il mondo frantumato. Realizzano ciò che solo Amore crea.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».
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L’uomo, immagine vicaria di Dio, riceve fiducia da Colui che è Signore della sua vita e che ha di lui la cura. Dio consegna i suoi beni a ciascuno di noi, secondo un suo criterio. Si parla di talenti. E noi abbiamo sempre interpretato che bisogna vivere in base ai talenti ricevuti, pensando che talenti siano le qualità e abilità che abbiamo. Leggendo attentamente possiamo dire che non è così. Le qualità e abilità sono in origine, ognuno ha le sue. I talenti sono i beni di Dio che egli ci affida. Quindi cose a noi estranee che non ci appartengono, ma che siamo chiamati a custodire attivamente secondo la logica della vita: la crescita. Lì dove c’è vita, c’è crescita. Ogni arresto di crescita è una sorta di morte o di alienazione. Chi vive secondo la propria umanità non potrà che accrescere i beni da Dio ricevuti. E quali sono questi beni? Le ricchezze di Dio sono i suoi figli! E allora forse potremo dire talenti le occasioni di amore in cui gli altri da estranei diventano fratelli. I servi dell’Amore non possono che amministrare AMORE. Quindi: A uno il Signore dà cinque amori, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità. Quale capacità? Quella del cuore. A chi più è in grado di amare, più occasioni sono date per amare. Quale sarà il compito del servo di fronte alle occasioni di amore ricevute? Il compito è del guadagno. L’amore si investe, e allora si moltiplica. Se l’amore si nasconde nella buca nel cuore, resta tale e quale, non si accresce. Al ritorno del padrone l’uomo che ha guadagnato è chiamato servo buono e fedele, fedele nel poco, quindi degno di autorità su molto, capace di partecipare alla gioia del suo Signore. Non importa se il guadagno sia di cinque o di due, è importante che sia il doppio del ricevuto. Vale a dire: guadagno massimo possibile. L’uomo che invece ha nascosto le occasioni di amore nella buca del cuore per paura della durezza del padrone e restituisce quanto ricevuto senza guadagno è chiamato dal padrone servo malvagio e infingardo. Seppure il timore poteva impedirgli di guadagnare attivamente, almeno poteva egli pensare a una custodia intelligente del bene ricevuto, una custodia che comunque portasse frutto, il minimo… La via dell’abbondanza si apre a chi ha… chi nasconde ciò che ha ricevuto, viene privato della gioia del l’investire per accrescere, della gioia della fedeltà e del partecipare alla gioia del suo padrone. Afflizione e sofferenza amara sono riservate ai servi fannulloni che mettono sotto terra le occasioni ricevute.
Nei giorni 10-12 novembre c.a., presso la sede USMI di Via Zanardelli, si è svolto il convegno nazionale per superiore maggiori e consigli. Un incontro partecipato con entusiasmo da più di duecento madri e sorelle provenienti da tutta Italia. Bello il clima sereno e familiare che si percepisce. È la gioia di incontrarci!
Madre Regina Cesarato, presidente USMI nazionale, introduce il convegno passando poi la parola alla biblista Rosalba Manes che svolge il tema: “La fede forma nel quotidiano”.
Con competenza e passione la relatrice commenta i versetti della lettera ai Romani 12,1-2: “Vi esorto ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” spiegando che il culto spirituale è la consegna della propria vita a Dio. Questo culto si celebra nel quotidiano con il “non conformarci alla mentalità di questo mondo”, ma lasciandoci trasformare dallo Spirito di Dio che ci plasma e cesella con la sua Parola.
La logica di Dio parla di gratuità, di servizio e gioia: la nostra disponibilità a lasciarci “lavorare” dal Signore è fondamentale. Occorre infatti diventare flessibili nelle mani di Dio come la creta nelle mani del vasaio per diventare capaci di discernere ciò che è vile da ciò che vale.
Con il battesimo diventiamo figli di Dio, ma il dinamismo della vita figliale ce lo insegna Gesù ed è lavoro di tutta la vita, è cammino impegnativo, è alleanza con lo Spirito Santo che ci plasma nel quotidiano. La fede è l’habitat del cristiano. Cogliamo il valore e il senso della nostra esistenza a partire dalla nostra vita nascosta con Cristo in Dio che comincia con la risurrezione battesimale. Avere fede è andare a rifugiarsi in un luogo sicuro. Da qui alcuni interrogativi che ci fanno riflettere: all’interno delle nostre comunità respiriamo l’ossigeno della fede? Ci nutriamo della Parola di Dio? La nostra fede ci spinge a generare intorno a noi la passione per il bene, per la bellezza, per Dio e per il prossimo? Ci permette di generare Cristo nella nostra vita?
La relatrice commenta poi il brano evangelico delle nozze di Cana facendo notare come Maria è la serva del Signore, la discepola fedele che crede prima di vedere: “Non hanno più vino”. Non c’è più alleanza. L’alleanza di Israele con il suo Signore è stata infranta. Gesù può restituire questa alleanza tra il popolo e Dio: è lo Sposo atteso! Maria ci insegna l’arte di partecipare allo sguardo di Dio!
Tra le domande che vengono poste al termine della relazione, una riguarda in particolare “la tenerezza” alla quale la biblista risponde ampliandone il significato: la tenerezza nella Bibbia è gratuità, è misericordia, è spazio che ospita la vita, è accoglienza, è compassione. In sintesi possiamo dire che la tenerezza è la maturità del battezzato.
La giornata di sabato inizia con la relazione di fratel Luciano Manicardi, Priore della comunità monastica di Bose. Il titolo ci porta nella concretezza della vita: “Quotidianità e vangelo”.
È ovvio: nulla esiste fuori del quotidiano, ma ne siamo consapevoli? È il quotidiano il luogo nel quale avviene la nostra formazione continua, è l’ambito dell’esercizio della fede. Purtroppo abitudine e superficialità non ci rendono coscienti di questa realtà. È nel quotidiano che possiamo rispondere alla chiamata alla santità, è il quotidiano luogo del culto esistenziale, l’eucaristia nella vita. Il Signore ci raggiunge esattamente negli eventi di ogni giorno.
Il relatore pone poi una seconda domanda: qual è il nostro rapporto con il tempo? Siamo dentro il tempo, ma viviamo “una crisi del tempo” per l’accelerazione dei ritmi di vita e per l’idolatria del fare. Occorre ricuperare la capacità di contemplare e vivere il tempo come luogo in cui Dio ci parla. Per questo è necessario imparare a “indugiare” per ritrovare un rapporto armonico con il tempo.
Ed ecco un altro interrogativo che ci interpella: siamo ancora capaci di solitudine? La tecnologia rischia di portarci via la capacità di stare da soli. Da qui l’invito a imparare da Gesù che ci insegna la pazienza del contadino che sa attendere. Il lavoro interiore è capacità di fermarsi, di pensare, riflettere, contemplare.
Parlare è un “atto etico”. Ogni parola che dico costruisce o distrugge la comunità. Gesù ci mette in guardia dalle “parole vane”. Interessante è vedere come Gesù parlava, è uomo di parola, parla da una interiorità abitata e cosciente, per questo è autorevole: “Nessuno ha mai parlato come quest’uomo”.
Fratel Luciano passa poi in rassegna i sensi e i sentimenti. Come guardare, come ascoltare, come mangiare, come esprimere la collera? E riportando Sant’Agostino invita a chiedersi: perché vado in collera? Che cosa mi dà tanto fastidio? Perché reagisco in questo modo? Se sappiamo fare dei nostri sentimenti il sintomo che dice qualcosa di noi stessi, allora abbiamo una preziosa opportunità di consapevolezza e di conversione.
Nel quotidiano è necessario prestare attenzione anche agli “oggetti”. Saper essere grati di tutto quello che abbiamo perché tutto riceviamo, di tutto stiamo usufruendo. Vediamo il vangelo: la lampada che viene posta sul candelabro fa luce a tutta la casa. Gesù trae un insegnamento sulla luce interiore che si trasmette attraverso la luminosità degli occhi. Nella nostra giornata abbiamo a che fare con piatti e stoviglie. Gesù osserva il quotidiano e ne ricava un insegnamento spirituale: “ripulisci prima l’interno della tua anima!”. E così per tutte le cose che abitano il nostro quotidiano. Se sappiamo vedere con gli occhi contemplativi tutto ci parla: l’aurora, il tramonto, il sole, la pioggia, il vento, le piante, gli animali, i fatti di cronaca, la natura. Tutto! Se guardiamo nel vangelo scopriamo che proprio l’umanità di Gesù narra Dio nel quotidiano.
Fratel Luciano termina poi con una sfida: ma noi siamo ancora capaci di stupirci? Il quotidiano ottunde oppure lascia trasparire lo stupore?
Il dialogo con il relatore mette infine in evidenza l’importanza della comunicazione nelle relazioni fraterne. Impariamo a parlare ed ascoltare come Gesù ha fatto. E impariamo la dimensione della gratitudine: saper ringraziare ogni giorno. Ecco l’atteggiamento eucaristico nel quotidiano!
Nel pomeriggio di sabato il lavoro di gruppo si rivela molto utile per attualizzare quanto ascoltato nelle relazioni individuando alcune priorità nel servizio di governo, come anche che cosa favorisce e che cosa blocca la possibilità di mettere in pratica le priorità individuate. L’assemblea al termine della giornata diventa così un bel momento di condivisione.
La domenica inizia con la solenne celebrazione eucaristica presieduta da Padre Mario Aldegani, superiore generale dei Giuseppini del Murialdo e la relazione sul tema: “La formazione della comunità di governo”.
Padre Mario fa notare come viviamo una “situazione di transito”, dentro inevitabili processi di cambiamento anche sul fronte della missione e della pastorale per cui diventa necessario rispondere a domande mai poste prima.
I cambiamenti in atto incidono inevitabilmente e mettono in discussione il sistema di autorità e di governo. Il cambiamento richiesto, probabilmente, è passare dal pensarci come “grande edificio” al pensarci come “una tenda” che richiede la capacità di abitare il cambiamento continuo e l’incertezza. Sembra proprio essere questo lo spazio ideale per promuovere una cultura dell’autorità e del governo che consideri le persone adulte e le valorizzi, facendo emergere tutte le loro potenzialità. I superiori possono e debbono certo metterci la loro parte, ma la possibilità di rivitalizzare le nostre comunità provinciali e locali è nelle mani dei singoli confratelli e consorelle, adulti, e, in quanto tali, leader del quotidiano.
Padre Mario si sofferma poi sul tema della fraternità ponendo una domanda provocatoria: come partecipo io, da superiore, alla vita della fraternità? Come costruisco la vita fraterna? E punta l’attenzione sulla necessità di coltivare la propria spiritualità, la coerenza della testimonianza, il primato della comunione e l’attenzione alle relazioni interpersonali.
Alcuni consigli pratici. “Prendersi cura” di noi e degli altri significa tenere vivo il fuoco del carisma, il fuoco della missione, la visione e il sogno dei nostri Fondatori e non cadere nella tentazione della sopravvivenza di cui ci ha parlato Papa Francesco nell’omelia del 2 febbraio scorso. Omelia che occorre tenere sempre ben presente per tutti i preziosi spunti di riflessione.
Il relatore elenca poi le attenzioni necessarie: avere cura della formazione e della relazione fra coloro che formano il gruppo di governo; avere cura di sé, per poter prendersi cura degli altri, cioè “volersi bene”, e questo è possibile accettando la propria fragilità, anche riconoscendola e accettando che sia riconosciuta. Non rifiutarla, non negarla, non vergognarsene. E benedirla. Accogliere il nostro limite è la strada che ci apre all’incontro con gli altri nel segno della benevolenza e della misericordia.
Continuando l’elenco il Padre ricorda di: avere cura della propria salute; avere cura dell’organizzazione del proprio tempo; distinguere il ritmo feriale da quello festivo anche nella preghiera, più calma, più contemplazione; coltivare qualche hobby sano; verificare se il tempo libero lo passiamo sempre soli o se cerchiamo e amiamo la compagnia di qualche fratello o sorella; limitare al puro necessario l’uso dei mezzi di comunicazione, che sono più o meno sempre una relazione virtuale e non reale con gli altri. Una volta vi era la dipendenza dalla televisione, oggi dai computer o dai cellulare. Sono malattie e patologie che sono già presenti e diffuse anche dentro le comunità religiose!
Riassumendo possiamo dire che il servizio di responsabilità deve essere inteso soprattutto come un’attenzione alle persone e alla loro crescita verso l’adultità attraverso l’animazione, l’aiuto fraterno, la proposta, il dialogo e l’ascolto. In questo stile va anzitutto vissuta la relazione fra il superiore e i membri del suo consiglio, come un’attitudine alla cura e alla custodia reciproca.
Altamente importante e motivante, infine, è concedere fiducia. La fiducia che nasce dal riconoscimento della diversità e dalla consapevolezza che essa può generare relazione, sapere e comunione. La fiducia dà credito e ascolta, accetta e dona speranza.
Con il ringraziamento al Signore e ad ogni partecipante, termina questo convegno che possiamo definire denso di contenuti, di condivisione e di fraternità.
Madre Orsola Bertolotto
Scarica il testo della relazione di fratel Manicardi
Le Suore Crocifisse Adoratrici dell’Eucaristia, nascono a Napoli il 20 novembre 1885, grazie a Madre Maria Pia Notari, che accogliendo l’invito di Dio decise e tanto si prodigò per la fondazione di questa famiglia religiosa.
Due sono gli elementi principali che caratterizzano il carisma delle suore crocifisse: la Croce e l’Eucaristia.
L’atto di amore più grande di Gesù è stato il suo sacrificio sulla Croce: allo stesso modo loro vogliono donarsi come, con e per Lui; adorarlo nel Sacramento dell’Eucaristia ed essere il prolungamento della sua missione nel mondo.
Un’importanza fondamentale viene data alla preghiera, vista come un tempo privilegiato per stare con lo Sposo. Il progetto apostolico delle suore crocifisse si esprime principalmente attraverso la preparazione delle ostie e la distribuzione delle stesse e del Vino Eucaristico; la confezione delle vesti liturgiche e della biancheria d’altare; la formazione cristiana delle persone attraverso la gestione di scuole cattoliche, di istituti socio-assistenziali ed educativi, di case di riposo per anziani e di case per ferie; l’assistenza a giovani studentesse e a gruppi organizzati per giornate di spiritualità; la collaborazione alla vita e alle opere parrocchiali e diocesane.
Gli elementi che costituisco il carisma e la spiritualità della Suora Crocifissa Adoratrice dell’Eucaristia
Crocifissa col Cristo, nell’offerta quotidiana di se stessa per le necessità della Chiesa e del mondo intero, è apostola dell’Eucaristia non solo per quanto riguarda la preparazione della materia per il Sacrificio Eucaristico, ma soprattutto per l’impegno a far amare Gesù da tutti, bambini, adolescenti, giovani, famiglie, anziani, ammalati e poveri, preparando il cuore di ognuno ad essere dimora di Dio Trinità.
Ama con tutte le forze Dio con la totale donazione di se stessa e con la preghiera e l’adorazione costante per la riparazione delle deviazioni e degli errori largamente diffusi nel mondo e per la santificazione dei sacerdoti.
Le figure di santità dell’Istituto
Le suore crocifisse hanno la fortuna di potersi ispirare, nel loro percorso di santità, a due grandi esempi: la Madre Fondatrice, Maria Pia Notari e la Beata Maria della Passione.
La Beata Maria della Passione
Nacque a Barra, oggi popoloso quartiere di Napoli, il 23 settembre 1866, da Leopoldo Tarallo e Concetta Borriello. Al battesimo, celebrato nella parrocchia “Ave Gratia Plena”, le fu dato il nome di Maria Grazia. In famiglia ricevette una solida formazione umana e cristiana, che completò facendo la prima comunione a sette anni e la cresima a dieci.
Da giovane aspirò intensamente alla perfezione cristiana. Desiderava abbracciare la vita consacrata, ma, fortemente contrastata dal padre, riuscì a realizzare questo progetto solo a venticinque anni, quando fu accolta a San Giorgio a Cremano tra le Suore Crocifisse Adoratrici dell’Eucarestia, da poco fondate dalla Serva di Dio Maria Pia Notari. Era il 10 giugno 1891.
Nella famiglia religiosa Maria Grazia Tarallo assunse il nome di Suor Maria della Passione. Condusse quasi tutta la sua vita nella casa di San Giorgio a Cremano. Se ne allontanò solo nel 1894-1896 per concorrere all’apertura di una nuova casa in Castel San Giorgio, in provincia di Salerno.
In comunità, ricoprì con impegno vari uffici, da quelli più umili di cuciniera, guardarobiera e portinaia, a quelli di maggiore responsabilità. Nel 1910, in fatti, fu nominata Maestra delle Novizie, curando così la formazione delle giovani che si preparavano alla professione religiosa tra le Suore Crocifisse Adoratrici dell’Eucarestia. Realizzò in pienezza la vocazione religiosa, manifestando un grande amore alla Passione di Gesù Crocifisso, all’Eucarestia e alla Vergine Addolorata: “Mi chiamo Suor Maria della Passione” – era solita dire – “e debbo somigliare al Maestro”.
Condusse vita esemplare ed edificante nella carità, e tutta la comunità l’ammirava, percependo la ricchezza dei suoi doni mistici, che si manifestavano in forma di visioni, estasi e profezie. Fece della sua vita austera un’offerta a Dio per la redenzione dei peccatori e per la santificazione dei sacerdoti. La sua aspirazione – come confidava a qualcuno – era quella di “farsi santa amando Cristo nell’Eucarestia, soffrendo con Cristo crocifisso, guardando Cristo nella persona del fratello”.
L’ultimo periodo della sua vita, durante il quale si nutrì della sola Eucarestia, fu particolarmente doloroso a causa delle infermità. Circondata dall’affetto delle consorelle e compianta dai tanti che la stimavano per gli eccezionali doni mistici e la fama di santità, morì il 27 luglio 1912 a San Giorgio a Cremano, dove il corpo è ancora oggi conservato nella chiesetta delle Suore Crocifisse Adoratrici dell’Eucarestia. Il cardinale Giuseppe Prisco, arcivescovo di Napoli, ne introdusse la causa di canonizzazione nel 1913. Papa Giovanni Paolo II dichiarò le sue virtù vissute in modo eroico nel 2004. Papa Benedetto XVI, infine, l’ha proclamata Beata con decreto del 19 gennaio 2006. La beatificazione di Maria della Passione è stata celebrata nella Cattedrale di Napoli il 14 maggio 2006.
Per maggior informazioni consulta il sito: www.suorecrocifisseadoratrici.org
Sarà beata Leonella Sgorbati, la religiosa italiana uccisa a Mogadiscio il 17 settembre del 2006. Papa Francesco ha firmato il decreto che ne riconosce il martirio.
Leonella Sgorbati (al secolo, Rosa) era nata nel 1940 a Rezzanello di Gazzola, in provincia di Piacenza, ed era entrata giovane nelle missionarie della Consolata. Aveva poi studiato da infermiera in Inghilterra e dagli anni Settanta si era recata missionaria in Africa, dapprima in Kenya e poi, dal 2001, in Somalia, dove era stata inviata per iniziare una scuola per infermieri.
Il 17 settembre del 2006, a 65 anni, venne uccisa a freddo da due uomini armati, che la colpirono alle spalle mentre stava facendo rientro dalla vicina scuola all’ospedale per l’infanzia dove lavorava, il Sos Kinderhof, nella periferia di Mogadiscio.
Sono giorni di tensione nella Capitale somala, già da tempo in mano alle corti islamiche. In seguito al noto discorso pronunciato pochi giorni prima da Benedetto XVI a Ratisbona, il 12 settembre, in diversi paesi a maggioranza musulmana scoppiano le proteste. Lo sceicco Abubukar Hassan Malin aveva esortato due giorni prima a «dare la caccia» e a uccidere il Pontefice. C’è chi ipotizza, dunque, che l’assassinio della religiosa italiana non sia stato compiuto da criminali comuni ma sia da ascrivere a questo frangente. Le corti islamiche, comunque, condannano ufficialmente il gesto. Lo sceicco Muktar Robow lo definisce un atto «barbaro e contrario agli insegnamenti dell’islam».
L’assassinio di suor Sgorbati ebbe ampia eco. L’allora presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano si disse «addolorato»per il «crimine orrendo».
All’agenzia stampa missionaria Misna, una consorella, Marzia Ferra, raccontò così gli ultimi istanti di suor Sgorbati: «Era ancora viva, sudava freddo, ci siamo prese per mano, ci siamo guardate e prima di spegnersi come una candelina, per tre volte mi ha detto: “perdono, perdono, perdono”».
Questa Suora «che da molti anni serviva i poveri e i piccoli in Somalia», disse all’Angelus del 24 settembre successivo Papa Benedetto XVI, «è morta pronunciando la parola “perdono”: ecco la più autentica testimonianza cristiana, segno pacifico di contraddizione che dimostra la vittoria dell’amore sull’odio e sul male». Parole risuonate nell’omelia delle Esequie celebrate a Nairobi dall’amministratore apostolico di Mogadiscio, monsignor Giorgio Bertin, che volle evidenziare un particolare del delitto, ossia il fatto che la guardia somala che accompagnava la religiosa, Mohammad Mahmmud, padre di quattro bambini, musulmano, morì anch’egli nel tentativo di difenderla: «La morte di una italiana e la morte di un somalo. La morte di una europea, la morte di un africano. Una bianca, un nero. La morte di una cristiana e la morte di un musulmano. La morte di una donna e la morte di un uomo. Questo ci dice che è possibile vivere insieme, se insieme è anche possibile morire. Vivere insieme nella speranza di un mondo migliore».
E ora papa Francesco, nell’udienza concessa al cardinale prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, Angelo Amato, ha firmato il decreto che riconosce il «martirio» di suor Leonella Sgorbati, «uccisa in odio alla Fede il 17 settembre 2006 a Mogadiscio (Somalia)».
Il termine “cuore” è uno dei più usati nella Bibbia ed ha un significato molto ricco al di là del devozionalismo e del sentimentalismo.
“Cuore” in ebraico (e aramaico) leb si trova menzionato circa 860 volte nell’Antico Testamento, mentre kardíá del greco neotestamentario si trova circa 1000 volte nel Nuovo Testamento. Un vocabolo significativo, applicato soprattutto all’ uomo: nell’ Antico Testamento solo 26 volte si parla antropomorficamente del cuore di Dio e nel Nuovo Testamento una sola volta in modo esplicito si presenta quel cuore di Cristo che ha avuto così tanto rilievo nella devozione cristiana popolare; si pensi alla solennità del Cuore di Cristo.
I significati del “cuore” biblico sono vari; per esempio nel libro di Samuele simbolica, si si descrive un infarto (o arresto cardiaco o emorragia cerebrale o apoplessia): «Il cuore gli si tramortì nel petto e diventò come pietra», si dice di un avversario di Davide, Nabal, che dieci giorni dopo muore (1Samuele 25, 37-38) così pure il profeta Geremia per la sua sofferenza interiore sente scoppiare le
pareti del cuore » (4, 19).
Ma il cuore è soprattutto un segno di interiorità
Così infatti si dice nel libro dei Proverbi: «Il cuore intelligente cerca la conoscenza» (15, 14) e «il cuore saggio rende prudenti le labbra» (16, 23). Per questo il salmista prega Dio così: «Insegnaci a contare i nostri giorni e conquisteremo un cuore sapiente » (90, 12).
Salomone, alla vigilia della sua intronizzazione, chiede a Dio «un cuore docile perché sappia rendere giustizia al popolo e sappia distinguere il bene dal male»; «al Signore piacque», commenta l’autore sacro, « che Salomone avesse domandato la saggezza nel governare» (1Re 3, 9-10).. Il cuore è anche la sede della volontà, delle decisioni e dell’etica.
Ancora una volta nel libro dei Proverbi è scritto: «Il cuore dell’uomo determina la sua vita» (16, 9). L’augurio che il salmista rivolge al re ebraico è questo: «Ti conceda (il Signore) quanto anela il tuo cuore e faccia riuscire ogni tuo progetto! »(20, 5).
In negativo c’è «il cuore che trama progetti perversi »(Proverbi 6, 18). E’ in questa luce che nasce la curiosa e frequente immagine del cuore «ingrossato/ ingrassato o indurito» che è la rappresentazione del male e come Gesù dice è dal cuore che «escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, suicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza» (Marco 7, 21-22). Al contrario, l’invito a decidere e a scegliere il bene è formulato così: «Tutto ciò che è nel tuo cuore va’ e mettilo in opera!» (2Samuele 7, 3). E il libro del Deuteronomio rafforza: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta la tua anima e con tutte le tue forze» (6, 5), frase cara anche a Gesù che la varierà introducendo anche la “mente”: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente» (Matteo 22, 37).
Avere una religione del cuore allora, non significa entrare in una spiritualità sentimentale quanto piuttosto pensare, decidere e operare secondo verità e giustizia.
Questo, però, non esclude che il cuore biblico celi al suo interno anche la dimensione affettiva e passionale. Stupenda è l’immagine di Isaia: «Il cuore freme come fremono gli alberi del bosco, agitati dal vento» (7, 2) e alcune frasi del libro dei Proverbi: «E’ roso dall’ invidia per il successo dei peccatori», (23, 17) «il cuore calmo, vita di il corpo, mentre quello agitato è tarlo per le ossa» (14,30), e che esalta «il cuore allegro che rischiara il volto», «il cuore contento che fa bene al corpo», mentre depreca «il cuore triste che indica uno spirito depresso» (15, 13; 17, 22). E poi il Cantico dei cantici: «Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo!» (41 9), mentre il giorno delle nozze diventa nel linguaggio semitico «il giorno della gioia del cuore».
Ma secondo la Bibbia, anche Dio ha un cuore che, più o meno, ricalca al positivo le esperienze del cuore umano: « Il volere del Signore rimane in eterno, i pensieri del suo cuore di età in età » (Salmo 33, 11).Prova gli stessi sentimenti e passioni; infatti il profeta Osea descrive Dio come padre pieno di amore «Come potrei abbandonarti Israele …? Il mio cuore si commuove dentro di me, tutte le mie viscere fremono di passione … » (11, 8). E’ per questo che il Signore dichiara a Salomone: « I miei occhi e il mio cuore saranno lì di continuo» nel tempio di Sion, in mezzo all’ umanità (1 Re 9, 3). Nel Nuovo Testamento, Cristo entra in scena con sentimenti di amore e vicinanza nei confronti di chi lo cerca e di tutti coloro che lo circondano.
Ma è solo una volta che si fa esplicitamente menzione del suo cuore (anche nel celebre episodio del costato trafitto dalla lancia del soldato, l’evangelista Giovanni non usa il termine “cuore”). E’ solo Matteo che scrive: « Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo, infatti, è dolce e il mio carico leggero» (11,28-30). Dio – si dice negli Atti degli Apostoli (1, 24 e 15, 8) – è kardiognóstes, cioè “conoscitore dei cuori”, delle coscienze, dell’ intimo più segreto dell’ uomo. Cristo, invece, svela il suo stesso intimo all’umanità e lo rivela segnato dalla mitezza e umiltà, cioè dalla bontà e dalla tenerezza, dalla comprensione e dalla condivisione.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le lampade, ma non presero con sé olio; le sagge invece, insieme alle lampade, presero anche dell’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e dormirono. A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro! Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. E le stolte dissero alle sagge: Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono. Ma le sagge risposero: No, che non abbia a mancare per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene. Ora, mentre quelle andavano per comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici! Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora».
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La celebre parabola delle dieci vergini è narrata da Matteo dopo il discorso escatologico e serve ad illustrare il detto di Mt 24,42: “ Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà!” (così come il precedente, Mt 24,45-51). L’accento è posto sulla necessità di essere pronti per non essere esclusi dal banchetto eterno. Il racconto ha sicuramente un senso allegorico, ma ciò non significa che ogni particolare ha un preciso riferimento a qualcosa d’altro. L’attesa nel testo evangelico è volta al ritorno del Cristo glorioso, applicando a lui l’immagine dello sposo che l’AT aveva utilizzato per Dio. Anche la prima lettura ( Sap 6,12-16) esorta ad essere saggi, a coltivare il desiderio di Dio (come il Sal 62). Allora il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Nel primo evangelista dopo il discorso escatologico, che si sviluppa in modo ampio (vedi 24,1-31), abbiamo una serie di parabole; quella delle dieci vergini è la seconda; esplicitamente Gesù dice che il regno dei cieli sarà simile a, intendendo tutto il racconto e non solo le dieci vergini. La parabola fa riferimento al modo in cui si svolgevano le nozze nella Palestina del I secolo d.C. durante il quale un corteo di ragazze (il termine vergine qui ha questo senso) accompagnava gli sposi, di solito verso sera (ciò spiega l’impiego delle lampade). Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. Il gruppo viene descritto da Matteo nei vv. 2-4 e diviso in due categorie; le vergini sono sagge o stolte come coloro che costruiscono sulla roccia o sulla sabbia (cfr. 7,24-27). Lo sposo si recava nella casa della promessa sposa per condurla nella sua, ma prima doveva concludere con il padre di lei gli accordi del contratto nuziale. Non era escluso che ci fossero degli elementi da discutere e che le cose andassero per le lunghe. Le cinque sagge mostrano di essere previdenti e pronte ad affrontare ogni evenienza, portando con sé dell’olio per alimentare le loro lampade, nel caso l’attesa fosse diventata più lunga del previsto. E’ quest’attenzione all’imprevisto che distingue i due gruppi e non la vigilanza: infatti il v. 5 ci dice che si assopirono tutte e si addormentarono, quando l’eventualità del ritardo si verificò. A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”. Tutte le ragazze si svegliano al grido “ Ecco lo sposo! Andategli incontro!“; ci possiamo chiedere a questo punto chi si nasconde sotto il personaggio dello sposo; nell’AT di solito l’immagine è utilizzata per indicare Dio (vedi Ger 31,32; Is 54,5; Os 2,18), ma nel NT è ben attestato il riferimento a Cristo (cfr. Mt 9,15; Gv 3,29; 2Cor 11,2; Ef 5,21-33; Ap 21,2.9; 22,17). La parabola sulla bocca di Gesù intendeva l’arrivo imprevedibile del regno di Dio (lo sposo), ma nel contesto matteano lo sposo è sicuramente il Figlio dell’uomo, che si identifica con Gesù (del resto da 24,29 a tema è proprio il ritorno glorioso di costui). Di fronte all’arrivo delle sposo le vergini stolte si rendono conto di aver bisogno di olio, ma si scontrano con il rifiuto delle sagge e sono costrette a recarsi dai venditori. Trattandosi di un racconto non deve sorprenderci che si dia per scontato che i negozi siano aperti a tutte le ore del giorno e della notte! Il netto rifiuto opposto dalle sagge sconcerta un po’, ma nei versetti successivi diverrà più chiaro il senso di questo diniego e anche di cosa sia simbolo l’olio. Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. 11 Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. Eccoci all’epilogo del racconto: con lo sposo entrano al banchetto le vergini che erano pronte, mentre le altre restano chiuse fuori. L’immagine della porta chiusa ha un che di ineluttabile e definitivo che richiama il tenore apocalittico dell’avvertimento. Le escluse però non si danno per vinte e implorano da fuori: Signore, signore, aprici!Ma la risposta dello sposo, chiamato Signore, è molto dura: In verità io vi dico: non vi conosco (il v. 12 ha un parallelo in 7,23 e Lc 13,25-27). L’espressione significa in questo contesto: non voglio avere nulla a che fare con voi (come in Mt 26,74, nel rinnegamento di Pietro) (Jeremias). L’atteggiamento superficiale, poco vigilante, delle cinque ragazze ha causato la loro impreparazione nel momento cruciale dell’arrivo dello sposo e l’esclusione dalla festa di nozze, ossia dal Regno. E’ chiaro che la mancanza dell’olio (del v. 8) va identificata con un atteggiamento esistenziale negativo, condannato dall’evangelista nel suo insegnamento rivolto alla comunità giudeo-cristiana, preoccupata per il ritardo della parusia, del ritorno del Figlio dell’uomo. Così commenta p. Dalmazio Mongillo op: La lampada è comune a tutte le vergini, l’olio che le une rifondono è dono che esse hanno accolto da Colui che lo accresce. Ogni vergine deve amorosamente alimentare il rapporto con colui che viene, prima che l’olio dell’amore venga meno. Per questo non può essere trasferito dall’una all’altra, può essere solo ricevuto da chi può darlo a tutti.L’olio del rapporto d’amore non può essere acquistato e vissuto per interposta persona. Lo dona lo Sposo che ne è la riserva e che lo travasa in vasetti piccoli. La cosa importante non è averne molto, ma vigilare perché non venga meno e la lampada resti accesa fino all’arrivo dello sposo.Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora. La parabola si conclude con un’esortazione (che riprende 24,42.44) e valida per tutti i tempi. La vigilanza va intesa come un atteggiamento vitale complessivo fatto di desiderio e attenzione, di amore operoso e di speranza.Riletta nella prospettiva del fine ultimo, la parabola ne illumina aspetti di grande rilievo. Lo Sposo ama per primo, l’attesa non è causa dell’incontro, ma esso non si realizza senza l’attesa. (D. Mongillo in Per lo Spirito in Cristo al Padre, Ed. Qiqajon, pag. 16-19)
In Italia e nel mondo tutti conoscono don Oreste Benzi, il presidente dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, l’«infaticabile apostolo della carità», come lo ha descritto papa Benedetto XVI nel messaggio in occasione del suo ritorno alla casa del Padre.
Tutti conoscono il padre dei poveri, dei diseredati, degli emarginati, di chi non ha voce. Ma non tutti sanno che don Benzi, per ben trentadue anni, dal 1968 al 2000, è stato anche parroco della Resurrezione, al quartiere Grotta Rossa di Rimini, comunità parrocchiale che lui stesso ha fondato, insieme ad altri sacerdoti. Si può affermare che don Oreste Benzi è diventato quella figura di sacerdote che tutti conoscono anche grazie all’esperienza di parroco. E certamente in tale esperienza ha comunicato e alimentato il suo carisma, così da imprimere un marchio inconfondibile alla sua parrocchia.
Questo libro racconta nei dettagli lo spirito, le tappe, gli avvenimenti di questa originale avventura pastorale. Un racconto costruito con le parole e le riflessioni dello stesso don Oreste, e anche con le testimonianze dei suoi parrocchiani, che si sono lasciati coinvolgere e trascinare dal suo carisma.
La Prefazione è di mons. Francesco Lambiasi, vescovo di Rimini. Arricchisce il volume un interessante inserto fotografico a colori.
“Siamo chiamati a tendere la mano ai poveri”, di fronte all’estendersi “della povertà a grandi settori della società”, “non si può restare inerti e tanto meno rassegnati”. Il Papa tocca questi temi nel messaggio per la I Giornata Mondiale dei poveri che si terrà il 19 novembre c.a.. Quel giorno, dopo la Messa a san Pietro, Francesco pranzerà con 500 poveri.
La questione povertà deve diventare centrale, anche e soprattutto per i cristiani. Il Papa infatti, nel messaggio, scrive che “se vogliamo incontrare realmente Cristo, è necessario che ne tocchiamo il corpo in quello piagato dei poveri, come riscontro della comunione sacramentale ricevuta nell’Eucaristia”. Insomma, l’aiuto non può essere occasionale.
Per il vero sviluppo ascoltare i poveri Francesco mette in luce che “se desideriamo offrire il nostro contributo efficace per il cambiamento della storia, generando vero sviluppo, è necessario che ascoltiamo il grido dei poveri e ci impegniamo a sollevarli dalla loro condizione di emarginazione. Nello stesso tempo, ai poveri che vivono nelle nostre città e nelle nostre comunità ricordo di non perdere il senso della povertà evangelica che portano impresso nella loro vita”.
Nella conferenza stampa, il presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione mons.Rino Fisichella, ha detto che “i poveri non sono un problema, sono una risorsa a cui attingere per accogliere e vivere l’essenza del Vangelo”.
I mille volti della povertà C’è una “ricchezza sfacciata che si accumula nelle mani di pochi privilegiati”. E allora il Papa scrive che la povertà “ci interpella ogni giorno con i suoi mille volti segnati dal dolore, dall’emarginazione, dal sopruso, dalla violenza, dalle torture e dalla prigionia, dalla guerra, dalla privazione della libertà e della dignità, dall’ignoranza e dall’analfabetismo, dall’emergenza sanitaria e dalla mancanza di lavoro, dalle tratte e dalle schiavitù, dall’esilio e dalla miseria, dalla migrazione forzata. La povertà ha il volto di donne, di uomini e di bambini sfruttati per vili interessi, calpestati dalle logiche perverse del potere e del denaro”.
Non restare inerti Ed ancora: bisogna reagire “alla povertà che inibisce lo spirito di iniziativa di tanti giovani, impedendo loro di trovare un lavoro; alla povertà che anestetizza il senso di responsabilità inducendo a preferire la delega e la ricerca di favoritismi; alla povertà che avvelena i pozzi della partecipazione e restringe gli spazi della professionalità umiliando così il merito di chi lavora e produce; a tutto questo occorre rispondere con una nuova visione della vita e della società”. E’ questo uno scenario, di fronte al quale non si può “restare inerti e tanto meno rassegnati”.
Serve un impegno corale contro la povertà Il messaggio sottolinea che sono “benedette le mani che superano ogni barriera di cultura, di religione e di nazionalità versando olio di consolazione sulle piaghe dell’umanità”. Mons. Fisichella ha aggiunto che non serve pensare “ai poveri solo come destinatari di una buona pratica di volontariato da fare una volte alla settimana, o tanto meno di gesti estemporanei di buona volontà per mettere in pace la coscienza. Queste esperienze – pur valide e utili a sensibilizzare alle necessità di tanti fratelli e alle ingiustizie che spesso ne sono causa – dovrebbero introdurre a un vero incontro con i poveri e dare luogo a una condivisione che diventi stile di vita”.
Anche la Chiesa deve agire Il Papa quindi annuncia la Giornata Mondiale dei Poveri per il 19 novembre e invita “la Chiesa intera e gli uomini e le donne di buona volontà a tenere fisso lo sguardo, in questo giorno, su quanti tendono le loro mani gridando aiuto e chiedendo la nostra solidarietà. Sono nostri fratelli e sorelle, creati e amati dall’unico Padre celeste. Questa Giornata intende stimolare in primo luogo i credenti perché reagiscano alla cultura dello scarto e dello spreco, facendo propria la cultura dell’incontro”.
Un invito a tutti ad aprire almeno in quel giorno la propria casa ai poveri. Mons. Fischella ha precisato che “sarà questa una giornata dove tutta la comunità cristiana dovrà essere capace di tendere la mano ai poveri, ai deboli, agli uomini e alle donne a cui viene troppo spesso calpestata la dignità. Il messaggio richiama all’espressione biblica della Prima Lettera di San Giovanni: ‘Non amiamo a parole, ma con i fatti’”. E il logo riflette il senso della giornata. “Sono due mani tese che si incontrano dove ognuna offre qualcosa. Due braccia che esprimono solidarietà e che provocano a non rimanere sulla soglia, ma ad andare incontro all’altro”, ha detto mons. Fisichella.
Pregare assieme ai poveri Ma l’impegno di tutti cristiani non deve finire qua. Nel messaggio è scritto che “a fondamento delle tante iniziative concrete che si potranno realizzare in questa Giornata ci sia sempre la preghiera. Non dimentichiamo che il Padre nostro è la preghiera dei poveri. La richiesta del pane, infatti, esprime l’affidamento a Dio per i bisogni primari della nostra vita”.