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Auguriamo di trascorrere giorni sereni di proficua distensione fisica e spirituale. Non dimentichiamo però quanti invece non possono beneficiare di un tempo di riposo e di vacanza: i malati negli ospedali e nelle case di cura, i carcerati, gli anziani, le persone sole e a coloro che trascorrono l’estate nel caldo delle città.
Riprendiamo l’aggiornamento del sito a fine agosto c.a.
Venerdì 20 luglio si è concluso il Corso di Catechesi, che si è svolto dal 2 l 20 luglio nella sede dell’USMI Nazionale in via Zanardelli.
L’organizzazione del Corso è il frutto di collaborazione tra USMI Nazionale e USMI Diocesana di Roma, ed è convalidato dall’Ufficio Catechistico della Diocesi di Roma.
Settantadue le suore iscritte al Corso (quaranta del 1° anno e trentadue del 2° anno) appartenenti a varie Congregazioni Religiose che, con la loro presenza attiva e il loro impegno, hanno creato un clima fraterno e collaborativo, interagendo positivamente sia con i Docenti che tra di loro.
Giovedì 19 giugno, madre Yvonne Reungoat, la Presidente dell’USMI Nazionale, ha incontrato le partecipanti e, con il suo modo affabile e cordiale, ha sottolineato l’importanza della preparazione per il servizio a cui ciascuna è chiamata e il valore dell’intercongregazionalità. Al termine dell’incontro, mentre stava uscendo dalla sala, una suora le ha augurato di ‘conservare il suo sorriso’ …
Il Corso si è concluso con un questionario scritto, un colloquio finale e… una merenda con pizza, dolci, bibite.
Si ringraziano tutte le persone che, con la loro vicinanza e sostegno, hanno collaborato alla buona riuscita del Corso: i Docenti che, con la loro preparazione e professionalità, hanno offerto ottimi contenuti, e quanti, dell’USMI Nazionale e dell’USMI Diocesana, si sono resi disponibili per l’accoglienza delle partecipanti, la gestione quotidiana e gli imprevisti che a volte si sono presentati. Il Signore benedica tutti.
L’appuntamento è per il prossimo mese di luglio 2019 … attendiamo nuove iscrizioni, oltre alla conferma delle suore che hanno partecipato quest’anno.
Le suore partecipanti al Corso
Il 30 luglio 2018 ricorre la Giornata Mondiale contro la tratta di persone, promossa dalle Nazioni Unite. Questa piaga riduce in schiavitù molti uomini, donne e bambini con lo scopo dello sfruttamento lavorativo e sessuale, del commercio di organi, dell’accattonaggio e della delinquenza forzata. Anche qui, a Roma. Anche le rotte migratorie sono spesso utilizzate da trafficanti e sfruttatori per reclutare nuove vittime della tratta. È responsabilità di tutti denunciare le ingiustizie e contrastare con fermezza questo vergognoso crimine, così ha detto oggi il Papa all’Angelus.
L’anima nostra ha bisogno di solitudine. Sant’Agostino (354-430)
Il grande Agostino scrive della solitudine voluta da Dio per il primo uomo: “Fu molto meglio che il genere umano… abbia avuto origine da un solo uomo creato all’inizio, piuttosto che aver origine da molti… L’uomo dunque fu da Dio creato singolo e solo: solo, non tuttavia nel senso che sarebbe stato privo di società umana, ché anzi più avrebbe sentito il vincolo di questa società e l’unità concorde, essendo gli uomini uniti tra di loro non solo dalla somiglianza di natura, ma anche dall’affetto della parentela…”. Prospettiva da ampi e precisi orizzonti e solida concretezza agostiniana!
L’uomo dunque fu ‘creato singolo e solo’, ma non per vivere ‘appartato’, in solitudine. La sua vocazione identitaria è alla relazione, alla fraternità, alla comunione, dalla e nella ‘parentela’. Spinto da una ineludibile esigenza interiore, a volte brama la solitudine, altre la patisce con una intensità implacabile.
“Sono solo” dice con profonda amarezza qualche anziano… “Vorrei vivere in un deserto” è l’anelito espresso in momenti di giornate particolarmente faticose o caotiche. La solitudine imposta dalle circostanze e la solitudine anelata e/o cercata come ‘salvagente’ non serve. Sono gingilli o macigni senza senso; scuse fasulle che esprimono povertà interiore.
Spazi di solitudine sono necessari a chiunque: rispondono al giusto e salutare desiderio di rimanere soli per meditare su situazioni personali o relazionali, per capire meglio se stessi; per scavare con maturità entro se stessi, prendere coscienza delle proprie reazioni, o semplicemente per distendersi e riposare.
La solitudine così vissuta aiuta a diventare serenamente concreti, realisti sul proprio passato e capaci di protendersi verso un futuro con il cuore libero, pronti ad attendere e a vivere nuove primavere.
Icona di una donna che ha saputo vivere e maturare in solitudine è Maria. L’angelo le appare, le annuncia un radioso futuro poi, ‘partì da lei’. La trova sola; la lascia con un bimbo che lei porterà in grembo per nove mesi. Quando questo bimbo sarà adulto, sceglierà di vivere 40 giorni nel deserto, in solitudine, pronto alle sue battaglie con il grande nemico, Satana. E a tutto quello che il Padre vorrà da Lui…
Così i grandi della storia, molti asceti, e gli stessi Fondatori che, quando necessitavano certezze per sé e per i loro Istituti, si ritiravano per un periodo in solitudine. Agostino scriveva: “Ritorna in te stesso… all’interno dell’uomo abita la Verità”. Questa solitudine, liberamente scelta e vissuta con saggezza e con calma aiuta a vivere intensamente i vari momenti della giornata, assorbendo e gustando tutta la ricchezza e la bellezza in essi racchiusa. Non vi saranno più sprechi di energie; non si proietteranno su altri le colpe dei propri dissapori… Vi sarà pacifica concentrazione e raccoglimento e nuova fresca capacità di relazione, di quel semplice, caldo e pacifico ‘dono di sé’ che rende ancora più bella la vita propria e quella degli altri.
Biancarosa Magliano, fsp
biancarosam@tiscali.it
Saper invecchiare significa saper trovare un accordo decente tra il tuo volto di vecchio e il tuo cuore e cervello di giovane. Ugo Ojetti (1871-1946)
Si chiamava Agostino e aveva 93 anni. Era cosciente che la sua barca ormai ’stava arrivando al capolinea’. Lo ha detto lui, sommessamente, al figlio maggiore e, molto sommessamente pregando, se ne è andato verso il per sempre. Una vita semplice, ma ‘viva’, a volte affaticante, vissuta su sentieri spesso impervi; vibrante e pacifica, armonica e lieta, a servizio della gioia e del riposo altrui, dello stare bene degli altri. C’è chi ricorda il suo ultimo ‘servizio’: scopare perché nessun petalo dei pittoreschi gerani esposti sul balcone rimanesse su quel pezzo di piazza sottostante. E lo rimpiangono…. Ecco la sapienza che sboccia, ti accompagna e ti matura nell’incalzante susseguirsi degli anni, e che nei labirinti dell’esistenza umana si ispessisce e perfeziona: essere gioiosamente a servizio sempre. Senza forzature. Senza stagnazioni, nei piccoli e nei grandi avvenimenti, con i limiti imposti dall’età, senza voler mai sopravvivere in un giovanilismo senza senso. Con la tenacia di una vita regolare, mai inchiodata sull’avere. Godere delle persone che ti ascoltano, percepire la bellezza di ogni nuovo incontro.
La vera sapienza di una vita ormai giunta alla vecchiaia sta proprio lì: nell’ammettere senza scossoni, senza rimpianti, senza nostalgie, che la propria barca sta raggiungendo la riva; che il tempo delle scelte è finito. Che il palcoscenico non serve più. Nulla ha più un carattere di assolutezza. La quotidianità monotona e ripetitiva, le difficoltà, le soste, le varie avventure sono tappe di un passaggio dall’amore all’Amore. E questo non permette di sottrarsi alle fatiche dell’esistenza che ancora rimane, e ancora e sino all’ultimo trovare le ragioni che non muoiono. Perché la vecchiaia non è mai noia; è la sintesi di fresche stagioni; è ammettere serenamente che la vita non ha inghiottito le proprie illusioni. La vecchiaia non è una speranza tradita; è una speranza diventata realtà. Già Jung affermava che il quarto e più alto livello dell’anima è, appunto, la sapienza.
Biancarosa Magliano, fsp
biancarosam@tiscali.it
IL CIELO
Sul piano metaforico il cielo è inteso come abitazione di Dio, che in questo si distingue dagli uomini (cfr Sal 104,2s.; 115,16; Is 66,1). Egli dall’alto dei cieli vede e giudica (cfr Sal 113, 4-9), e discende quando lo si invoca (cfr Sal 18,7.10; 144,5). Tuttavia la metafora biblica fa bene intendere che Dio né si identifica con il cielo né può essere racchiuso nel cielo (cfr 1 Re 8,27); e ciò è vero, nonostante che in alcuni passi del primo libro dei Maccabei “il Cielo” sia semplicemente un nome di Dio (1 Mac 3,18.19.50.60; 4,24.55). Alla raffigurazione del cielo, quale dimora trascendente del Dio vivo, si aggiunge quella di luogo a cui anche i credenti possono per grazia ascendere, come nell’Antico Testamento emerge dalle vicende di Enoc (cfr Gn 5,24) e di Elia (cfr 2 Re 2,11). Il cielo diventa così figura della vita in Dio. In questo senso, Gesù parla di “ricompensa nei cieli” (Mt 5,12) ed esorta ad “accumulare tesori nel cielo” (ivi 6,20; cfr 19,21). Il Nuovo Testamento approfondisce l’idea del cielo anche in rapporto al mistero di Cristo. Per indicare che il sacrificio del Redentore assume valore perfetto e definitivo, la Lettera agli Ebrei afferma che Gesù “ha attraversato i cieli” (Eb 4,14) e “non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso” (ivi, 9,24). I credenti, poi, in quanto amati in modo speciale da parte del Padre, vengono risuscitati con Cristo e sono resi cittadini del cielo. Vale la pena ascoltare quanto in proposito l’apostolo Paolo ci comunica in un testo di grande intensità: “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù” (Ef 2,4-7). La paternità di Dio, ricco di misericordia, viene sperimentata dalle creature attraverso l’amore del Figlio di Dio crocifisso e risorto, il quale come Signore siede nei cieli alla destra del Padre. 4. La partecipazione alla completa intimità con il Padre, dopo il percorso della nostra vita terrena, passa dunque attraverso l’inserimento nel mistero pasquale del Cristo. San Paolo sottolinea con vivida immagine spaziale questo nostro andare verso Cristo nei cieli alla fine dei tempi: “Quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro (i morti risuscitati) tra le nubi, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole” (1 Ts 4,17-18). Nel quadro della Rivelazione sappiamo che il “cielo” o la “beatitudine” nella quale ci troveremo non è un’astrazione, neppure un luogo fisico tra le nubi, ma un rapporto vivo e personale con la Trinità Santa. E’ l’incontro con il Padre che si realizza in Cristo Risorto grazie alla comunione dello Spirito Santo. Occorre mantenere sempre una certa sobrietà nel descrivere queste ‘realtà ultime’, giacchè la loro rappresentazione rimane sempre inadeguata. Oggi il linguaggio personalistico riesce a dire meno impropriamente la situazione di felicità e di pace in cui ci stabilirà la comunione definitiva con Dio. Il Catechismo della Chiesa Cattolica sintetizza l’insegnamento ecclesiale circa questa verità affermando che “con la sua morte e la sua risurrezione Gesù Cristo ci ha “aperto” il cielo. La vita dei beati consiste nel pieno possesso dei frutti della Redenzione compiuta da Cristo, il quale associa alla sua glorificazione celeste coloro che hanno creduto in lui e che sono rimasti fedeli alla sua volontà. Il cielo è la beata comunità di tutti coloro che sono perfettamente incorporati in lui” (n. 1026). Questa situazione finale può essere tuttavia anticipata in qualche modo oggi, sia nella vita sacramentale, di cui l’Eucaristia è il centro, sia nel dono di sé mediante la carità fraterna. Se sapremo godere ordinatamente dei beni che il Signore ci elargisce ogni giorno, sperimenteremo già quella gioia e quella pace di cui un giorno godremo pienamente. Sappiamo che in questa fase terrena tutto è sotto il segno del limite, tuttavia il pensiero delle realtà ‘ultime’ ci aiuta a vivere bene le realtà ‘penultime’. Siamo consapevoli che mentre camminiamo in questo mondo siamo chiamati a cercare “le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio” (Col 3,1), per essere con lui nel compimento escatologico, quando nello Spirito egli riconcilierà totalmente con il Padre “le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli” (Col 1,20). Dalla Catechesi di San Giovanni Paolo II, 21 luglio 2018 © LEV |
Dal Vangelo di Giovanni Gv 6,1-15
Dopo questi fatti, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.
Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.
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Ancora la folla, nel racconto del vangelo di oggi, una folla, davanti alla quale, Gesù, nuovamente, si commuove.
Nella liturgia eucaristica di questa domenica, come in quelle che seguiranno, non è più Marco ad accompagnarci, ma Giovanni, il quale, pur trattando come Marco, il tema del “pane”, il pane moltiplicato per sfamare la folla, dà, di questo tema, un’altissima interpretazione, nel lungo discorso del “pane di vita”, che il mistero del dono immenso dell’Eucaristia, “pane disceso dal cielo”, nuovo pane donato dal Padre, nel Figlio, che ci sostiene nel cammino dell’esistenza, verso la meta eterna, nostra Pasqua definitiva.
C’è, nel brano del Vangelo di oggi, un riferimento esplicito alla Pasqua, in prossimità della quale, l’episodio della moltiplicazione dei pani, è collocato: “Era vicina la Pasqua dei Giudei “; da allora in poi ci sarà una nuova Pasqua ed un nuovo pane: il corpo stesso di Cristo, divenuto cibo per la fame esistenziale del mondo intero.
Gesù, dunque, assieme ai suoi discepoli, si sposta sull’altra riva del lago di Tiberiade, e, la folla, lo segue; è la folla che abbiamo imparato a conoscere, fatta di povera gente, che ha bisogno di speranza, di sostegno, di guida; una moltitudine che ha bisogno di esser risanata, nel corpo, non erano sfuggiti alla loro attenzione, “i segni che ( il Maestro ) faceva sugli infermi..”, ma soprattutto, nello spirito, avevano bisogno di Lui, il Profeta nuovo, capace di parlare con parole nuove, autorevoli, che davano nuovo slancio alla vita e aprivano immensi orizzonti, oltre quelli immediati.
E’ una moltitudine incurante della fatica, questa che accorre da Gesù, una moltitudine, che sembra abbia perduto il senso del tempo che passa, e anche del bisogno di rifocillarsi.
Se ne accorge il Maestro, lui, che coglie, oltre il bisogno fisico, quella fame profonda che vive nel cuore di ogni uomo: la fame dei valori più alti e, oltre questi, la fame stessa di Dio, origine e fine di ogni esistenza.
E’ questa fame di Dio, presente, anche inconsapevolmente in ogni uomo, quella che principalmente, Cristo, vuol soddisfare, e che, in ultima analisi, determina il miracolo: la prodigiosa moltiplicazione di pani e pesci, che sfamano ” circa cinquemila uomini…”, senza esaurirsi, se i discepoli “riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.”
E’ bello, questo entusiasmo della gente, che segue Gesù senza pensare ad altro, senza mettere in conto la stanchezza e la necessità, ad un certo momento, di dover mangiare qualcosa, pur trovandosi in un luogo, in cui non è possibile rifornirsi.
Cristo premia abbondantemente questa fede generosa, questa ricerca del regno di Dio, che supera ogni altra cosa, la premia con un segno che, pur facendo fronte al bisogno fisico, preannuncia l’altro pane che verrà.
Il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci è, indubbiamente un fatto strepitoso, ma non assolutamente nuovo; un episodio analogo, si legge, infatti, nel secondo Libro dei Re:
“In quei giorni, da Baal Salisa venne un individuo, che offrì primizie all’uomo di Dio, venti pani di orzo e farro che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente». Ma colui che serviva disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?». Quegli replicò: «DaIlo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore, ne avanzerà anche». Le pose davanti a quelli, che mangiarono, e ne avanzò, secondo la parola del Signore. ” (2 Re 4, 42 44)
Nell’evento prodigioso, si rivela, sempre, la verità di Dio e la sua volontà che indica la via giusta che l’uomo deve percorrere.
E’ facile, in questo contesto, in cui si parla del bisogno elementare e vitale di cibo, pensare alle moltitudini che ancor oggi non hanno un nutrimento sufficiente e adeguato: i bambini che muoiono per la denutrizione; l’insegnamento del Vangelo è chiaro, o almeno dovrebbe esserlo, dopo secoli di cultura cristiana. Gesù, per sfamare la folla, si fa aiutare dai discepoli, sono loro che distribuiscono, pane e pesce ai presenti, e non a caso; siamo, infatti, noi uomini del terzo millennio, che abbiamo tra le mani la sorte di tanti altri uomini, siamo noi, che possiamo e dobbiamo distribuire la ricchezza, e trovare le soluzioni giuste, per le tante situazioni disumane, che ancora si registrano nel nostro presente.
Per la fame fisica, sono sufficienti intelligenza e volontà umane; ma per l’altra fame, quella, più profonda che è il bisogno di Dio, del suo amore e della sua salvezza, è necessario il miracolo del pane, trasformato da Cristo nel suo Corpo e nel suo Sangue.
Lui solo, infatti è capace di saziare definitivamente la fame interiore dell’uomo, Lui, che per usare le parole di Tommaso D’Aquino, ha preparato per noi un banchetto in cui, il pane che si consuma è Cristo stesso, che si consegna come pegno della vita eterna e dell’eterna comunione col Padre.
Il Pane, che, nella nuova Pasqua, il Figlio di Dio consegna agli uomini, come memoriale della sua morte e resurrezione, è l’unico pane, capace di trasformarci interiormente, e renderci veramente fratelli, mettendoci in comunione gli uni con gli altri; solo in Cristo, infatti, l’uomo può realizzare la vera comunione, una meta difficile da raggiungere, una conquista, alla quale tutti aspiriamo, con quella insaziabile fame d’amore, che solo Dio, nel Figlio e nello Spirito può colmare.
Quando Gesù, guardava quelle folle affamate, pensava a questa fame, che è saziata solo dal suo dono di grazia, che si esprime nel pane eucaristico, nutrimento e sostegno di quanti sono in cammino verso la meta eterna.
E’ l’eucaristia il pane inesauribile che, come Paolo scrive, ci rende capaci, di vivere in profonda unità e, formando, ” Un solo corpo, un solo Spirito, come una sola è la speranza alla quale siamo stati chiamati, quella della nostra vocazione…”, così come c’è:” un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti.”( Ef4,1 6)
sr M. Giuseppina Pisano o.p.
mrita.pisano@virgilio.it
Il costo standard. Salverà la scuola dal tracollo?
Il cambio di gestione del Miur, ha fatto tornare in auge i fautori di modelli scolastici alternativi e ritornare su una proposta, cioè sull’introduzione di costi standard per un reale pluralismo educativo che favorisca la libertà di scelta delle famiglie.
Ma cosa è il costo standard? Perché ciclicamente questa proposta viene ripresentata, ma poi cade nel vuoto senza che si affronti il tema in modo esauriente?
Abbiamo girato queste domande a suor Anna Monia Alfieri, presidente Fidae Lombardia, da tempo paladina di questo modello di finanziamento delle scuole italiane e tra le promotrici del tavolo di lavoro sul tema, attivato al Miur nel 2017.
Proponiamo la lunga intervista, al fine di comprendere per bene le ragioni di chi rivendica il costo standard.
Suor Anna Monia Alfieri, ci spiega in cosa consiste l’introduzione del costo standard?
Lo Stato non può reggere finanziamenti aggiuntivi per la scuola pubblica, sia statale che paritaria, entrambe destinate – per motivi diversi – al tracollo. L’unica soluzione per evitarlo è definire il costo standard di sostenibilità per allievo, che è cosa diversa dal semplice costo medio ricavato empiricamente dalla serie storica delle spese sostenute, tra le quali figurano anche quelle derivanti da una gestione poco efficiente, a volte persino disastrosa.
In termini pratici, cosa significa?
Significa che il costo standard, riconosciuto come “quota capitaria” spettante all’alunno e alle famiglie, che lo assegnano alla scuola prescelta, si fonda sul diritto inviolabile della libertà di scelta educativa. Detto per jl lattaio dell’Ohio: il finanziamento spetta all’allievo e alla famiglia e, di conseguenza, è da essa assegnato alle scuole pubbliche – statali o paritarie – in quanto ‘servizio scelto’ dalla famiglia stessa. L’alternativa è la scuola di regime.
Quali vantaggi produrrebbe?
In pratica, dotando ogni alunno e ad ogni famiglia di un cachet da spendere nell’istituto che intende scegliere, si realizzerebbe finalmente il pluralismo educativo, dando così alle famiglie la possibilità di decidere fra una buona scuola pubblica statale e una buona scuola pubblica paritaria, avendo – il cittadino – già pagato le tasse. Si attiverebbe, inoltre, una sana concorrenza tra le scuole pubbliche, statali e paritarie, mirata al miglioramento dell’offerta formativa. Si introdurrebbero le leve della valutazione e della meritocrazia, cessando, lo Stato, di considerare la scuola un ammortizzatore sociale: a fronte dell’infornata di 150 mila docenti, abbiamo infatti cattedre ancora vuote poiché l’offerta dei docenti non incontra la domanda né per località né per disciplina. Il cittadino paga il docente che al 1° settembre firma il contratto, e grazie a cavilli vari non c’è, e paga il supplente.
Perché dice che il docente in realtà non c’è?
Quanti docenti e dirigenti pagati non insegnano? Il Ministro conosce il fenomeno e ha annunciato di porvi rimedio. Ma ci sono altri vantaggi del costo standard di sostenibilità: ci sarà il docente di sostegno per l’allievo disabile sia che frequenti la scuola pubblica statale che la scuola pubblica paritaria; chiuderanno i diplomifici, noti e intoccabili (appena lo 0,3% del totale delle scuole pubbliche paritarie, ma si sa, un cancro anche se piccolo è fastidioso e dannoso), poiché i genitori semplicemente non li sceglieranno; saranno eliminati i finanziamenti a pioggia per fantomatici progetti, che contribuiscono al tracollo economico della scuola pubblica statale, nonché affossano il pluralismo educativo offerto dalla pubblica paritaria.
In tal modo, non c’è il pericolo di chiudere le scuole comunque valide ma che per ragioni oggettive lavorano in condizioni difficili, ad esempio in zone deprivate culturalmente o dove l’abbandono scolastico è alto?
Assolutamente no. I parametri del costo standard di sostenibilità saranno calibrati sulla situazione di ciascuna scuola, meglio, di ciascuna classe, tenendo ben presenti le criticità sociali, economiche, logistiche del territorio, sempre però in una prospettiva di miglioramento favorita dalla scelta delle famiglie. Ad esempio, nelle zone ad alta criticità sociale lo Stato, con il risparmio dello spreco, assegnerà alle famiglie una quota pro capite maggiore rispetto ad altre situazioni del territorio italiano, consentendo alle scuole di mettere in bilancio un adeguato apparato di psicologi ed educatori. Anche per le zone a bassa densità abitativa, ad esempio le isole o i comuni di montagna, che non possono raggiungere i parametri numerici per classe richiesti, è ovvio che lo Stato fornirà alle famiglie un surplus di finanziamento, sempre ricavato dal risparmio dello spreco e sempre controllando la qualità dei risultati.
Chi stabilirebbe questi parametri?
Occorre studiare i bilanci di realtà scolastiche virtuose, in cui tutte le voci di spesa siano previste: è stato già fatto nel saggio “Il diritto di apprendere”, editore Giappichelli 2015. Se alcune voci saranno fisse, ad esempio gli stipendi, altre avranno differenze locali che un pool di esperti dirigenti ed amministratori scolastici dovrà calibrare. Il tutto, con la collaborazione degli ottimi esperti ragionieri del Miur che, assicuro, anelano all’avvento del costo standard, vista la fosca situazione presente e le preoccupanti prospettive future del bilancio della scuola pubblica statale.
In termini economici, allo Stato quindi converrebbe introdurre il costo standard?
Con l’introduzione del costo standard di sostenibilità per allievo, l’attuazione della libertà di scelta educativa garantirebbe, come minimo, un risparmio certo per le casse pubbliche di ben 2,8 miliardi di euro annui. Non si tratta di tagliare, ma di impiegare meglio le risorse. Si ricordi che il sistema scolastico italiano ha ampi sprechi.
Ci fa qualche esempio in merito?
Oggi un allievo della scuola pubblica statale costa al contribuente 8.000 euro all’anno di spese del Miur e in aggiunta riceve i finanziamenti di regione, provincia e comune. Per il milione di allievi che frequentano la scuola paritaria lo stato spende 500 euro annui per alunno, con un risparmio di ben 6 miliardi di euro, sempre per anno. Se questo milione di allievi, insieme ai 200 mila docenti, a settembre trovassero i battenti chiusi delle loro scuole paritarie, e questo è l’ardente desiderio di una parte politica che attualmente ci governa, il sistema nazionale di Istruzione collasserebbe miseramente. E non lui solo.
Cosa risponde a chi ricorda ciclicamente che lo Stato deve finanziare, in base alla Costituzione, solo la scuola statale?
Rispondo che l’articolo 33 al punto “senza oneri per lo Stato” dice che nessuna scuola privata può pretendere finanziamenti; qui però parliamo di scuole pubbliche paritarie, cioè di scuole che dallo Stato sono riconosciute e controllate, che fanno un servizio pubblico e che appartengono al servizio nazionale di Istruzione al pari della scuola statale. Ma qui occorre una solida conoscenza dei diritti umani.
In che senso?
I drivers delle pizze hanno i diritti, i genitori no. Attraverso il costo standard di sostenibilità, che si fonda sul diritto inviolabile della libertà di scelta educativa, i finanziamenti non vanno dati alle scuole paritarie o statali, bensì alle famiglie che – come nella Sanità – debbono poter scegliere a costo zero, avendo già pagato le tasse, dove educare i propri figli. La libertà di scelta dei genitori favorirà la sana concorrenza fra le scuole e l’innalzamento della qualità. Siamo agli ultimi posti Ocse-Pisa non per caso.
In effetti, con la Legge 62/2000 le scuole statali e non statali hanno acquisito una parità solo sulla “carta”: perché non si è mai attuata?
Perché non risponde alla domanda “Chi paga?”. La scuola statale apparentemente è gratuita, ma cosi non è, come si è detto; per la paritaria il cittadino paga due volte, con le tasse prima e la retta poi. Soprattutto: chi è ricco va alla scuola americana o delle élite da 15 mila euro annui. Se non si cambia, solo queste sopravviveranno. Mentre i poveri andranno tutti alla statale che, attualmente, va come va. Se sei fortunato, va bene, altrimenti… Mica puoi scegliere! In quest’ambito, la “dignità” sembra bandita.
Marco Bussetti e il suo staff provengono dalla Lombardia, la regione che ha attivato percorsi di formazione professionale presso scuole pubbliche e private messe sullo stesso piano: pensa che il modello sia estendibile a tutto il Paese?
Conosco bene il Ministro e ha partecipato a molti convegni compreso quello di ottobre 2017, dove si sosteneva questo modello e la soluzione del costo standard di sostenibilità, peraltro nel programma della Lega. Escludo una deviazione di rotta. Tuttavia, soltanto, per inciso, alcune decine di dirigenti e presidi di scuole pubbliche paritarie, a nome anche di docenti e genitori, mi stanno contattando nelle ultime ore riguardo ad una singolare affermazione riportata nell’intervista del Ministro alla Tecnica della Scuola: “Agiremo – ha detto – per continuare a garantire la libertà di scelta educativa”… Le domande, più serene, rivoltemi sono state: “Quale libertà?”, “Dove la vede?”, “Che cosa può continuare, che non esiste?”.
Quindi non se ne farà nulla?
Per rispondere alla sua domanda, il modello lombardo potrà essere attuato a livello nazionale. Anche la ministra Fedeli, di area politica differente, lo aveva affermato a più riprese durante il suo mandato, pure alla presenza di Bussetti. La convergenza politica sul tema è un dato acquisito. Forse non dal Movimento 5 Stelle, ma neppure questo è pensabile, poiché il buon senso e l’attenzione al povero mi paiono condivise.
In estrema sintesi, è la contemporanea presenza di tre libertà – di insegnare, di istituire scuole e di scegliere i luoghi dell’istruzione – che conferisce carattere pluralistico al sistema scolastico delineato dalla Costituzione. Le prime due libertà apparirebbero svuotate di contenuto senza la terza, quella cioè della scelta della scuola pubblica – statale o paritaria – da frequentare.
Poi ci sono le scuole private, quelle che vanno avanti solo con le rette delle famiglie: questi istituti non beneficerebbero del costo standard?
Lei sicuramente intende le scuole private non paritarie, che sicuramente non modulano le rette in base all’Isee. Chi le sceglie non sa neppure cosa sia l’Isee: non gli serve. Certamente queste istituzioni, che non fanno parte del Sistema Nazionale di Istruzione – composto da scuole pubbliche a gestione statale e scuole pubbliche paritarie gestite da privati, regioni, province e comuni – non avranno a che fare con il costo standard di sostenibilità. Queste scuole private dei ricchi per i ricchi ci sono e ci saranno sempre. E che i loro gestori e clienti paghino almeno tutte le imposte che devono. C’è chi le sceglie perché sono di élite, e non accolgono né diversamente abili, né extracomunitari. Ma non è un problema: esistono anche le cliniche private, dove il calciatore ingaggiato, dopo la visita medica, trova una selva di telecamere fuori ad aspettarlo.
Fonte: La tecnica della scuola. Il quotidiano della scuola on line