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Venite in disparte e riposatevi un po’…

Dal Vangelo di Marco   Mc 6,30-34

LUGL_22Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero.

Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

………………………………………………..

Un brano breve e intenso, questo di Marco, che tocca due temi importanti: l’attività apostolica di evangelizzazione e la necessità della contemplazione.

Gli apostoli, rientrano dalla loro missione, ormai affiancano il Maestro nella predicazione, e sono palesemente soddisfatti, entusiasti, di aver portato a termine il loro compito, sono, poi, giustamente compiaciuti dei risultati ottenuti. Gesù li accoglie e li ascolta, è un bel momento di condivisione, ma poi li invita ad andare oltre, oltre il fatto immediato: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’».

L’evangelista precisa che, c’era, in quel luogo e in quel momento, un grande andirivieni di gente, che sicuramente aveva bisogno di esser ascoltata e aiutata; una situazione di stress, diremmo oggi, se il testo precisa, che non avevano neppure tempo per mangiare.

L’invito di Gesù, tuttavia, non è semplicemente quello di concedersi una giusta pausa di riposo, ma è molto di più, quel ritirarsi in disparte, in solitudine, è un invito a raccogliersi in preghiera, come lo stesso Maestro faceva prima delle grandi decisioni, un invito a stare in silenzio, in ascolto del Padre, davanti a Lui e a Lui solo.

Il momento, lo spazio silenzioso e solitario per la contemplazione, è il momento fecondo che prepara qualunque attività apostolica; l’annuncio della parola che salva, l’annuncio del Vangelo, non nasce che dalla grazia della comunione con Dio, la grazia della contemplazione, che non è prerogativa di pochi, ma è grazia per ogni credente, anzi vocazione di ciascun uomo, destinato a vedere e godere il suo Dio e Padre; ecco perché, ogni uomo o donna, ha il suo posto di contemplativo nella storia.

Ed è appunto la storia a parlarci di grandi apostoli del passato, o dei tempi recenti, come di grandi contemplativi.

Pensiamo a Caterina da Siena, la giovane donna, investita di una missione, impensabile per una donna, e per una donna di quel tempo; la sua forza morale e spirituale non veniva principalmente dalla sua intelligenza, né dalla sua cultura, veramente scarsa, ma dalla sua vita interiore di grazia e di comunicazione con lo Spirito, veniva da quella ” cella interiore ” che si era sapientemente costruita nell’anima, e nella quale, ininterrottamente, contemplava Cristo, il suo Signore Crocifisso, in nome del quale predicava, scriveva ed agiva.

Se Caterina riuscì a riportare la sede papale da Avignone a Roma, non fu certo per la sua abilità dialettica, ma per la sua forza interiore travolgente.

Anche ai giorni nostri abbiamo conosciuto giganti dello spirito, capaci di galvanizzare le folle; basti pensare ad una Teresa di Calcutta, della quale un giornalista ateo ebbe a dire: “non sono più certo che Dio non esista; se c’è, oggi l’ ho visto…”; in realtà Augusto Gorresio aveva visto madre Teresa, parlare alla folla presente in uno stadio. Dietro, o meglio, dentro questa piccola suora dimessa, c’era la grande forza della contemplazione di Cristo, povero tra i più poveri del mondo.

Infine, non possiamo dimenticare il Papa Giovanni Paolo II, la sua impressionante vita apostolica, nasceva dal raccoglimento e dalla preghiera contemplativa; che egli fosse tra le montagne tanto amate o nella sua cappella privata, ovunque, nella solitudine e nel silenzio, contemplava il Mistero grande di Dio, il cui amore predicava a tutto il mondo.

Nessuno, più del contemplativo, sa cosa sia la tenerezza del cuore, quella commozione, di cui oggi Marco parla:”.. vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore e si mise ad insegnare loro moIte cose.”

Gesù e i suoi si erano allontanati dalla folla, per raggiungere un posto solitario, ma la gente si accorse, comprese quali erano le loro intenzioni, e molti riuscirono a raggiungerli, anzi, a precederli.

Quella moltitudine aveva fame della Parola che salva.

“Le mie pecore ascoltano la mia voce, dice Il Signore, io le conosco ed esse mi seguono.”( Gv10, 27), recita l’antifona al Vangelo di questa domenica, ed è quel che accade nell’ episodio che Marco racconta.

Quella folla anonima che voleva a tutti i costi raggiungere il Maestro, che sapeva parlare ai poveri, agli oppressi e agli emarginati, aveva bisogno di un ” pastore buono”, di una guida sicura che indicasse una via di salvezza, che dicesse una parola vera, di speranza, di conforto e di luce.

Erano forse persone stanche e deluse, da pastori infidi, come quelli di cui il profeta Geremia parla: pastori che fanno perire il gregge e lo disperdono, pastori che non si curano del gregge, ma lo lasciano sbandare, perché attenti soltanto al proprio tornaconto e ai propri interessi, pastori che sfruttano e strumentalizzano le persone loro affidate; la storia ne ha conosciuto tanti, e tanti ancora ne conosce.

Dio, tuttavia, non si arrende di fronte alla malvagità dell’uomo e promette altri pastori, un altro Pastore, l’unico, dal quale, poi, tutti gli altri impareranno.

“Radunerò io stesso, il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho lasciate scacciare e le farò tornare ai loro pascoli, -scrive, ancora, il profeta Geremia- saranno feconde e si moltiplicheranno. Costituirò, sopra di esse pastori, che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi… Ecco, verranno giorni dice il Signore-, nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra.” ( Ger.23,1-6)

E’ Cristo il vero Pastore, la guida sicura, lui, che, per la redenzione di tutti, non ha esitato a dare la vita, per farci creature nuove, capaci di accogliere l’amore del Padre e di riamare.

E’ quel che Paolo scrive, e che proclamiamo nella seconda lettura di questa domenica: “Fratelli, ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani, siete diventati i vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’ inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce…Egli è venuto perciò ad annunziare pace, a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito.” (Ef 2,13°)

Quanti, oggi hanno bisogno di una guida sicura? Quanti assomigliano a quella folla, di cui Marco scrive e per la quale Cristo si commosse?

Sicuramente sono tanti, in tutto il mondo, sono persone che parlano lingue diverse, che appartengono a culture diverse e professano religioni diverse, ma hanno nel cuore lo stesso bisogno d’amore, di giustizia, di pace, di solidarietà, di fratellanza.

Sono persone in attesa di conoscere e percorrere la via sicura della salvezza, che è Cristo, il Figlio di Dio, il Redentore.

E’ lui l’oggetto della nostra predicazione e, ancor prima, della nostra contemplazione, il dono di grazia che rende l’annuncio del Vangelo, credibile e fecondo.

sr M. Giuseppina Pisano o.p.

mrita.pisano@virgilio.it

 

Giovani senza fede? No, c’è una sete nuova.

Giovani senza fede? No, c’è una sete nuova. Dentro l’indifferenza c’è un segreto da cogliere

giovaniIl rapporto tra i giovani e la fede è, oggi più che mai, tema di attualità. Non solo per l’avvicinarsi del Sinodo ma anche perché i giovani e la fede stanno veramente a cuore a tutti noi. Per riflettere sul tema appare, però, utile evitare almeno un paio di errori tra i più comuni: pensare ai giovani senza considerarli all’interno dell’intero percorso della loro vita e, inoltre, separare la fede da un’interpretazione complessiva dell’esistenza. In entrambi i casi, ciò che è da temere è la frammentazione.

Sul primo versante è utile ricordare che la giovinezza è, in realtà, soltanto un momento di un percorso più articolato e complesso. Ha, quindi, le caratteristiche, i pregi e i difetti di quel singolo momento. Non è l’intero. E non tutto può essere dato o richiesto in quel momento. Alcune cose potranno maturare, altre scomparire. Ci potrà stare anche qualche cambiamento di percorso e qualche errore. E la guida di persone più mature ed esperte sarà sempre di grande utilità.

Sul secondo versante, anche la fede rischia di non essere ben compresa se staccata dal suo contesto. La fede è un modo di interpretare e vivere l’intera esistenza. Ed è così legata ai gesti, alle parole e alle scelte della vita da essere difficilmente riconoscibile senza di essi. Così non è mai facile capire se la fede c’è o non c’è. A volte compare dove meno ce lo si aspetti.

Perché è molto più vicina a un modo di vivere che a un semplice concetto o a un’asettica definizione. Anche per questo non è mai facile comprendere i giovani e la loro fede. Nessuna delle due realtà, infatti, è statica e se a volte possono apparire come frammenti, lo sono, ma di un intero. Perciò, è tanto più facile comprenderle quanto meno le si staccano dall’intero.

È possibile, allora, che se la fede viene interpretata solo come una pratica religiosa o come un assenso intellettuale, i giovani appaiano irrimediabilmente lontani da essa. Al contrario, se quegli stessi giovani sono confrontati con gli itinerari di fede descritti nella Bibbia e spesso presenti nella tradizione cristiana, appaiono assai meno lontani da un autentico cammino di fede.

È quanto si può intuire, per esempio, leggendo le interviste realizzate dall’Istituto Toniolo all’interno dell’indagine su «Giovani e fede in Italia». Un giovane studente di ventuno anni, di Roma, mentre dice «non frequento la chiesa» e «sono dell’opinione che se non vedo non credo», allo stesso tempo apprezza «la speranza che può dare la fede e che può dare Dio» e confida: «Facendo una preghiera riesco a sentirmi meglio; questa è una cosa bella».

Un giovane ragioniere di ventisette anni, disoccupato, abitante in un piccolo centro del Nord, si definisce agnostico, ma mentre critica coloro che «credono, ma non vanno in chiesa», ritiene anche che «il vero regno di Dio sia dentro l’uomo», perché «la religione è una cosa interiore».

Questi due giovani manifestano una grave mancanza di fede o stanno cercando una fede più interiore e autentica? Una giovane ventottenne che risiede in un piccolo centro della Romagna mentre dice «non credo nella fede intesa come fede cattolica, quindi non credo in un Signore nel Paradiso, in tutto quello che ci insegnano a catechismo e giù di lì», e mentre si lamenta delle pratiche ecclesiastiche – «Non sono più andata in chiesa se non per il matrimonio della mia migliore amica che si è sposata l’anno scorso e ti posso garantire che è stato un sacrificio stare lì dentro un’ora e mezza a sentire delle “ciofeche”, perché io non ci credevo; ci sono andata solo perché voglio molto bene a lei e credo che la loro unione sarebbe stata ugualmente valida anche se l’avessero fatta in Comune» –, allo stesso tempo ritiene che la fede sia qualcosa che assomiglia a quel delicato rapporto che ha con la sua mamma, morta quando lei aveva solo venti mesi: «Come io trovo conforto in quella che è l’anima della mia mamma, quando ne ho bisogno, molto probabilmente altre persone credono in Dio perché dà loro conforto, perché si sentono aiutate; per gli stessi motivi per i quali io, quando ho bisogno, mi giro e dico “mamma cosa faccio?”, loro si girano e dicono “Signore adesso cosa faccio?”; credo che sia la stessa identica domanda, cambia solo la persona alla quale è indirizzata la richiesta di aiuto». Anche qui: è mancanza di fede o desiderio di una fede personale, profonda e autentica?

Si potrebbe proseguire con la presentazione delle interviste nelle quali i giovani dicono di sperimentare uno stretto collegamento tra la fede e la speranza; cercare in Dio il sostegno, la serenità e il conforto necessari per affrontare le vicende – non di rado sofferte e dolorose – della loro vita; leggere i Vangeli per ritrovarvi l’insegnamento e il volto di Gesù; avere fiducia nei miracoli; riconoscere la gioia e la bellezza di una fede autentica.

Tra tutti, si può citare Francesca, ventenne, studentessa della facoltà di Scienze della comunicazione. Racconta così alcuni passaggi importanti della sua vita: «Un giorno muore il fratello di una mia amica, un bambino di dieci anni. Da lì ho deciso di fare della mia vita qualcosa di straordinario. Ho deciso di avvicinarmi alle persone. […] Cerco di stare accanto agli altri. Cerco di amare un po’ di più e, prima di tutto, prima di me stessa vedo l’altro.

Secondo me l’altro è una missione meravigliosa. Secondo me l’altro è una scoperta meravigliosa. Penso che ognuno abbia croci e momenti di sconforto. Tutta la bellezza, però, sta nel trasformare questi momenti e nell’arricchire la vita degli altri. Nel vedere la loro luce, quando tu ci sei. […] Questo spero di fare ogni giorno: ascoltare. […] Mi sono ripromessa che non avrei mai più fatto morire gli altri di solitudine. So cosa si prova.

Lo so e, quindi, non accadrà mai che qualcuno non senta la mia presenza, mai. Perché io ci sono. Per me è una missione. Amare l’altro è una missione. È trasmettere quello che io ho dentro. Ci provo quotidianamente». Sorprendente la capacità di Francesca di trasformare una situazione di difficoltà e di dolore in un’occasione di crescita della propria disponibilità all’incontro, all’ascolto e alla dedizione.

Sino ad avvertire l’esigenza di partire da qui per plasmare la propria vita. Sembra di scorgere, in lei, i tratti dei grandi fondatori cristiani che da situazioni di bisogno sono stati spesso capaci di trarre idee e progetti in grado di migliorare la vita di tutti. Nascono allora alcune domande che sembrano accompagnare bene le nostre riflessioni sui giovani e la fede.

Non è che per capire i giovani sia necessario ascoltarli di più, evitando di interpretare la loro fede alla luce di schemi formali e precostituiti? Non è che la loro educazione religiosa, anziché essere progettata come un “vaccino”, da inoculare prima possibile e una volta per sempre, debba essere pensata come un cammino progressivo da accompagnare delicatamente per tutta la vita?

Non è che tendiamo ancora a pensare la fede più come una serie di pratiche e di concetti piuttosto che come un incontro personale con Gesù dal quale nasce, con consapevolezza e libertà, un modo di vivere più autentico? Non è che nella pastorale siamo ancora più impegnati a gestire spazi e a organizzare eventi e percorsi comunitari anziché favorire l’incontro personale e l’ascolto reciproco, in tutti i luoghi nei quali quotidianamente viviamo?In realtà, avremmo tutti e facilmente a disposizione un eccellente modello di pastorale: Gesù, che era davvero un “maestro” nell’incontrare le persone e ascoltarle, per rianimare la loro libertà e la loro vita.

Claudio Stercal

(articolo tratto da www.avvenire.it)

 

 

Consacrazione e Servizio n. 4 (2018)

  • EDITORIALE – Cosa resta del Sesssantotto?
  • (Fernanda Barbiero)
  • TALITÀ KUM – IO TI DICO: ALZATI (MC 5,41) Un passero nella rete potrà liberarsi? (Anastasia di Gerusalemme)
  • TRACCE DI BELLEZZA
  • E fu il sole (Maria Pia Giudici)
  • ORIZZONTI
  • Un’arte per far crescere l’uomo nuovo (Roberta Carliseppe)
  • Ero straniero e mi avete accolto(Gianni Barbiero)
  • Dossier – Quando Dio si alza per giudicare e salvare
  • Vacillano tutte le fondamenta (Marco Pavan)
  • Nel Sessantotto la proclamazione del mondo nuovo (Tino Bedin)
  • Il sessantotto cosa ha cambiato nella Chiesa (Cettina Militello)
  • La rivoluzione del ’68 e l’USMI: le grandi figure delle Presidenti (Azia Ciarani)
  • La vita religiosa e il Sessantotto (Bruno Secondin)
  • Il ’68 e le rivoluzioni dell’identità femminile? (Giulia Paola Di Nicola)
  • Luce sul mondo
  • Il sapore dell’essenziale una voce dal Carmelo (Suor Benedetta, OCD)
  • Libro del mese
  • Maria Chiaia, Protagoniste nascoste. Donne cattoliche, società, politica nella prima metà del Novecento (Marcella Farina)
    Vedere – Leggere
  • FILM: Piena di grazia (a cura di Teresa Braccio)
  • Segnalazioni (a cura di Romina Baldoni)

Nella casa dei gesuiti la prima comunità per padri con bambini

villa

Quando è la mamma a smarrire l’orizzonte del benessere e della serenità per i propri figli deve esserci un’alternativa al naufragio familiare. Ne sono convinti i giudici del tribunale dei Minori di Torino, che da anni auspicano progetti in grado di coinvolgere i papà nella salvaguardia del ruolo genitoriale in situazioni di estrema fragilità o totale assenza delle madri.

Perché accanto a donne in fuga da case trasformate in prigioni di abusi e violenze ci sono anche mamme protagoniste di abbandoni. E padri che vorrebbero prendere in mano il timone ma hanno le mani legate a causa della mancanza di strutture che li sostengano nel loro percorso. Che la cura non debba declinarsi esclusivamente al femminile lo dice però anche la delibera regionale 25 del 2012, laddove sostituisce l’espressione «comunità madre-bambino» con la più ampia «comunità genitore-bambino». In apparenza una semplice variazione terminologica. A uno sguardo più attento una vera rivoluzione culturale che vede la luce oggi, per la prima volta in Italia, con la nascita di una comunità dedicata ai papà con figli minori.

Un progetto frutto di «un’alleanza per i più fragili» stretta dal gruppo Abele con la Compagnia di Gesù, che ha messo a disposizione dell’associazione di don Luigi Ciotti la suggestiva dimora storica di Villa Santa Croce a San Mauro Torinese. Dagli inizi del ‘900 la struttura immersa nei boschi della collina ha accolto migliaia di persone in cerca del senso dell’esistenza attraverso il silenzio, la riflessione, la pratica degli esercizi spirituali. Da oggi sarà la casa di chi attraversa la sofferenza e sogna un orizzonte più sereno. «Avremo spazi dedicati a un progetto di accoglienza di donne profughe e un piano intero destinato ad accogliere i nuclei padre-figlio», spiega Mauro Melluso del gruppo Abele, responsabile della comunità che sarà inaugurata a settembre, al termine di alcuni interventi di ristrutturazione. «Finalmente si potrà dare ai bambini una risposta che non è esclusivamente quella dell’affido extrafamigliare. Abbiamo già approntato un’equipe di educatori e psicologi, siamo pronti alla sfida».

«In un momento in cui il mondo ha grande paura di chi è in difficoltà, di chi è schiacciato da sofferenza e povertà, noi scegliamo di mettere i più fragili al centro, seguendo l’invito di papa Francesco a posare lo sguardo sulle tante croci del mondo», spiega padre Remondini, presidente della Fondazione Sant’Ignazio di Trento e incaricato del Provinciale per il progetto apostolico gesuiti-laici nell’area torinese.. «I poveri – sottolinea – sono sempre stati i veri padroni delle nostre strutture. Ci affidiamo al gruppo Abele perché li aiutino a riprendere i fili delle loro vite».

Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due…

Dal Vangelo di Marco   Mc 6,7-13

LUGLIO_15_1Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

……………………………………….

“…Gesù chiamò i Dodici ed incominciò a mandarli…”; vocazione e missione due temi che si richiamano a vicenda, sono anche quelli che caratterizzano la liturgia eucaristica di questa domenica; entrambi hanno la loro sorgente in Dio, nella sua mente e nel suo cuore, protesi alla salvezza dell’uomo, e, a quest’uomo che, col peccato si è allontanato, Dio invia la sua Parola, perché egli ritorni a Lui, perché ascolti, con cuore umile, e conosca il vero volto del suo Dio che è amore..

“Mostraci, o Dio, il volto del tuo amore”, canta il ritornello del salmo responsoriale, quasi a sintetizzare l’estremo bisogno, che ogni uomo ha di Dio, come dell’aria che respira o dell’acqua che disseta.

In tutta la Storia Sacra, la storia della Rivelazione, Patriarchi e Profeti, ci parlano della Parola che vivifica e salva, perché, in essa Dio si fa prossimo all’uomo, e questi entra in comunione con Lui.

L’annuncio della Parola di Dio, non nasce da una iniziativa umana personale, ma è dono, che viene dall’ Alto, ed è per una missione, la cui forza risiede esclusivamente nella potenza di verità che la Parola stessa contiene.

“Come la pioggia e la neve scendono dal cielo, dice il Signore al suo profeta, e non vi tornano più, senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, in modo da fornire il seme al seminatore e il pane da mangiare, così sarà la parola che esce dalla mia bocca: non ritornerà a me senza frutto, senza aver operato ciò per cui l’ ho mandata ( Is.55,10-11 )

In questo movimento della Parola, che esce dalla bocca di Dio e a Lui ritorna, dopo aver compiuto la missione, c’è tutta la storia dell’umanità, tutta la storia della salvezza, che ha trovato pieno compimento in Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio, il redentore dell’uomo e dell’ intera creazione.

Ora è Cristo ad associare a sé, nella missione, alcuni tra i suoi numerosi discepoli, i Dodici, che egli invia ad evangelizzare; essi sono dei chiamati, come gli antichi profeti, scelti, indipendente dalle loro capacità umane, nel mistero della volontà di Dio.

.”.. mi fu rivolta la parola del Signore -scrive Geremia-: «prima di formarti nel grembo materno ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce ti avevo consacrato, ti ho stabilito profeta delle nazioni…» ( Ger. 1,4 ).

La liturgia della parola di questa domenica ci fa incontrare uno dei profeti minori: è Amos, il raccoglitore di sicomori, uomo dei campi, che attendeva serenamente al suo lavoro, e al suo bestiame, finché non giunse a lui, sconvolgente, la parola del Signore che gli disse:” Va’, profetizza al mio popolo Israele…”.

Amos parlava, perché inviato da Dio, la sua missione era indirizzata ad un potere politico ingiusto e corrotto, che doveva esser ricondotto a rettitudine; fu Amasia, sacerdote del tempio di Betel a contrastarlo e a tentare di impedirlo: “Vattene, veggente, ritirati verso il paese di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Bètel non profetizzare più….”.

La risposta di Amos fu energica, chiara, terribile: “..Tu dici: non profetizzare contro Israele, e non predicare contro la casa di Isacco! Ebbene, dice il Signore: tua moglie si prostituirà nella città, i tuoi figli e le tue figlie cadranno di spada, la tua terra sarà spartita con la corda, tu morirai in terra immonda e Israele sarà deportato in esilio lontano dalla sua terra “

Forse Amos avrebbe preferito continuare nel lavoro dei campi, sappiamo di profeti che tentarono di sottrarsi alla loro missione, nella consapevolezza delle loro scarse capacità, o per timore, ma la forza che viene da Dio li sostenne.

Che gli uomini ascoltino o non ascoltino, la Parola di Dio vive ed opera, per ricondurre tutto al Padre.

Anche Gesù, inviando i suoi, non garantisce il successo, questi nuovi profeti, modesti pescatori, incolti e pieni di paura, dovranno operare, non valendosi d’altro, se non della loro povertà, non dovranno riporre la loro fiducia nei mezzi economici e neppure nella loro eloquenza, ma saranno forti solo della parola di Cristo, che invia, ” a due a due”, recita il passo del Vangelo, in conformità alle usanze del tempo, e in segno di condivisione e comunione. A loro è dato un unico potere: quello di vincere il male e ricondurre i cuori di chi ascolta a Dio.

Il Maestro no, non promette vita facile, forse saranno perseguitati, forse semplicemente rifiutati, ma saranno anche accolti, e potranno seminare il seme che porta frutto per la vita eterna.

Come Cristo, anche la presenza del profeta e dell’apostolo, si pone come discriminante tra il bene e il male, tra l’accoglienza e il rifiuto di Dio, e, in questo caso, c’è un solo gesto da fare, come segno, che l’uomo sceglie da sé la propria condanna: ” Se, in qualche luogo non vi riceveranno, e non vi ascolteranno, andandovene, scuotete la polvere di sotto i vostri piedi, a testimonianza per loro”, sono le parole del Signore.

E’ questo il dramma della grandezza dell’uomo, creato libero, per vivere eternamente libero nell’amore che vivifica e salva, e, tuttavia, può da sé rifiutarla e capovolgere il proprio destino di felicità, è la felicità, infatti, la nostra vocazione, come canta Paolo nel sublime inno di lode a Dio:

“Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti, con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti, prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati, al suo cospetto nell’amore, predestinandoci a essere suoi figli adottivi, per opera di Gesù Cristo, secondo Il beneplacito della sua volontà…. In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo, che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro, che Dio si è acquistato, a lode della sua gloria. ” (Ef 1, 3 14 )

Forti della fede nella Parola, per il battesimo che ci innesta a Cristo, tutti siamo chiamati e inviati per far risuonare nella Storia presente la Parola che salva: il Vangelo che è Cristo.

sr M.Giuseppina Pisano o.p.

mrita.pisano@virgilio.it

 

Figlie del crocifisso

per essere segno della tenerezza di Dio

 

CHI SIAMO

Siamo una Congregazione religiosa fondata a Livorno nel 1840, dal sacerdote don Giovanni Battista Quilici. Siamo chiamate ad amare Dio con tutto il cuore, a vivere come Gesù povere, caste e obbedienti, unite in fraternità e nel servizio ai fratelli.

La missione che sgorga dal nostro Carisma ci porta nel mondo dei giovani, dei bambini, della donna, della famiglia, con particolare attenzione a chi è stato ferito dalla vita.

Vogliamo continuare, l’amore di Gesù Redentore, condividendo il cammino delle persone che vivono situazioni di disagio. Ci poniamo accanto a loro con tenerezza, rispetto e attenzione, per sostenerle nella crescita umana e spirituale, perché possano scoprire il senso della loro vita e viverla positivamente.

IL FONDATORE

QUILICI1Giovanni Battista Quilici nasce nel 1791 a Livorno città di mare, aperta a persone di ogni razza, fede e cultura.

E’ un ragazzo vivace e sensibile si accorge molto presto della grave situazione di miseria in cui vivono i suoi concittadini, specialmente dopo le invasioni napoleoniche.

In famiglia, a scuola, in parrocchia e per le strade della sua città apprende i valori della vita ed apre la mente ed il cuore ai bisogni della gente. Nell’ascolto della realtà che lo circonda, nel confronto con gli amici e nella preghiera, Giovanni Battista matu­ra la sua vocazione: donare la propria vita a Dio nel servizio dell’uomo.

Nel 1816 diventa sacerdote ed esercita il ministero fino al 1835 nella parrocchia di S. Sebastiano.

Nel 1835 è nominato parroco della nuova parrocchia dei SS. Pietro e Paolo.

Vive con passione il suo ministero pastorale: ad ogni persona vuole comunicare l’A­more del Redentore che egli incontra nella preghiera. Dalla contemplazione del Cristo Crocifisso è spinto sulle strade della sua città alla ricerca dei fratelli nei quali Gesù si è identificato.

La sua tenerezza di padre è per tutti, particolarmente per i giovani e per quelli di cui nessuno si occupa: prostitute, carcerati, orfani… Li cerca, li ascolta, li so­stiene, li accoglie ed, insieme ad altri, si impegna per costruire una società più umana. È’ convinto che sia necessario partire dall’educazione dei giovani e in particolare della donna.

Elabora i primi progetti e, con amici e collaboratori, inizia a realizzare i suoi so­gni. Sono tanti, e sembrano impossibili, ma egli, abbandonato alla Provvidenza, rie­sce a trovare le risorse per poterli attuare. In particolare, si fa strada in modo sempre più chiaro, il sogno di una “gran­de casa” e di un gruppo di “donne consacrate”.

Giovanni Battista coinvolge tutta la città nella costruzione dell’Istituto di Carità “Santa Maria Maddalena “, che in poco tempo si riempie di bambine e di ragazze bi­sognose di tutto: pane, vestito, istruzione, lavoro e soprattutto affetto e tanta tenerezza.

Giovanni Battista muore a Livorno nel 1844.Con le cinque giovani, che più di altri condividono la sua esperienza d’amore con il Cristo Redentore, fonda nel 1840 la famiglia religiosa delle Figlie del Crocifisso: a lo­ro affida la realizzazione del suo sogno nella grande casa di accoglienza.

La sua vita, intensamente vissuta sino alla fine, lascia progetti incompiuti, sogni e speranze inespresse; una strada è aperta: è necessario che vi siano persone che rac­colgano la sua eredità e ne sviluppino le potenzialità, perché sulle strade della vita con­tinui a germogliare la speranza.

E’ in corso la causa di beatificazione del Servo di Dio, in sede romana.

Spiritualità

Al centro della nostra spiritualità c’è Gesù, contemplato nel momento culminante del dono di sé a Dio e all’umanità: per questo il Fondatore ci ha chiamate “Figlie del Crocifisso”. A Lui cerchiamo di conformare quotidianamente la nostra esistenza. Tutta la vita di Gesù è per noi riferimento ma il mistero della sua passione, morte e resurrezione, ci coinvolge particolarmente.

Viviamo in fraternità con le sorelle, convocate dalla stessa chiamata di Dio, unite “come gli anelli di una catena”, formando un cuor solo ed un’anima sola, sul modello della prima comunità cristiana, secondo la regola di S. Agostino. Siamo una famiglia, unita nel nome del Signore: in comunità viviamo con le sorelle rapporti di affetto, di amicizia, di comunione di ciò che siamo e abbiamo con le nostre risorse e fragilità sperimentando la gioia del perdono e dell’accoglienza reciproca. Per questo, insieme possiamo aprire il cuore ai fratelli che la vita pone sul nostro cammino.

La Congregazione è aggregata all’ Ordine Agostiniano.

La missione

La vocazione di “Figlie del Crocifisso” ci invia nel mondo per essere segno dell’amore e della tenerezza di Dio e rendere operante la salvezza che “Gesù Redentore” ha offerto ad ogni persona con la sua morte e resurrezione.

I giovani, fin dalle origini, sono i destinatari privilegiati della nostra missione: “dovete interamente dedicarvi all’educazione della gioventù, e in particolare della “donna giovane” indicava don G. Quilici (Cs 1838 3,7) perché, per le sue caratteristiche, ha un posto rilevante nella costruzione della società.

Viviamo la nostra missione apostolica in Italia e in Perù, dedicandoci particolarmente ai “più piccoli” nei quali Gesù si è identificato.

 

Per maggiori informazioni consulta il sito: figlie del crocifisso.altervista.org

 

Sinodo dei giovani

Le parole-chiave dell’Instrumentum Laboris

SINODO1È stato pubblicato il Documento di lavoro della XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, in programma in Vaticano dal 3 al 28 ottobre c.a. sul tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”

Tanti sono i giovani del mondo: 1,8 miliardi di persone tra i 16 ed i 29 anni, ovvero un quarto dell’umanità. L’Istrumentum Laboris ne descrive la varietà, le speranze, le difficoltà. Strutturato in tre parti – riconoscere, interpretare, scegliere – il Documento cerca di offrirne le chiavi di lettura della realtà giovanile, basandosi su diverse fonti, tra cui un Questionario on line che ha raccolto le risposte di oltre centomila ragazzi.

Cosa vogliono, i giovani di oggi? Soprattutto: cosa cercano nella Chiesa? In primo luogo, desiderano una “Chiesa autentica”, che brilli per “esemplarità, competenza, corresponsabilità e solidità culturale”, una Chiesa che condivida “la loro situazione di vita alla luce del Vangelo piuttosto che fare prediche”, una Chiesa che sia “trasparente, accogliente, onesta, attraente, comunicativa, accessibile, gioiosa e interattiva”. Insomma: una Chiesa “meno istituzionale e più relazionale, capace di accogliere senza giudicare previamente, amica e prossima, accogliente e misericordiosa”.

Ma c’è anche chi alla Chiesa non chiede nulla o di essere lasciato in pace, ritenendola un interlocutore non significativo o una presenza “fastidiosa ed irritante”. E non senza motivo.

Ecco allora alcune parole-chiave che dall’Istrumentum Laboris emergono:

Ascolto: i giovani vogliono essere ascoltati con empatia, proprio “lì dove si trovano, condividendo la loro esistenza quotidiana”; desiderano che le loro opinioni vengano prese in considerazione, cercano sentirsi parte attiva della vita della Chiesa, soggetti e non solo oggetti di evangelizzazione. E là dove vengono offerti “ascolto, accoglienza e testimonianza in modo creativo e dinamico, nascono sintonie e simpatie” fruttuose.

Accompagnamento: spirituale, psicologico, formativo, familiare, vocazionale: in ognuna di queste forme, l’accompagnamento è fondamentale per i ragazzi. Esso, infatti, “non è un optional rispetto al compito di educare ed evangelizzare i giovani, ma un dovere ecclesiale e un diritto di ogni giovane”; serve a formare coscienze e libertà, a coltivare sogni ma anche ad intraprendere “passi concreti nelle strettoie della vita”. Centrale, quindi, il ruolo della famiglia che “continua a rappresentare un riferimento privilegiato nel processo di sviluppo integrale della persona”, pur necessitando di una riflessione sulla figura paterna, la cui “assenza o evanescenza” produce “ambiguità e vuoti”. Fondamentale anche il compito delle scuole e delle comunità cristiane che fanno sì che i giovani non si sentano soli, scartati, abbandonati nel loro percorso di crescita.

Conversione: diverse le accezioni di “conversione” indicate dal Documento sinodale: c’è il dramma di giovani cristiani che “rappresentano una minoranza esposta alla violenza e alla pressione della maggioranza che pretende la loro conversione”, ma c’è anche la richiesta di una “conversione sistemica” in ambito educativo, affinché tutte le strutture formative ed i loro membri investano di più nella loro “formazione integrale” così da non “trasmettere solo contenuti”, ma da essere anche “testimoni di maturità umana”, in grado di rendere i giovani soggetti e protagonisti della loro stessa vita. Centrale anche il richiamo alla “conversione ecologica”: i giovani sono molto sensibili sull’argomento ed il loro apporto è indispensabile per avviare un cambiamento duraturo nello stile di vita di ciascuno. C’è, infine, l’appello ad una “necessaria e coraggiosa ‘conversione culturale’ della Chiesa” affinché sappia “riconoscere, dare spazio ed incentivare” la creatività “unica e necessaria” della vita consacrata, “luogo specifico di espressione del genio femminile”.

Discernimento: tra le parole più presenti nel Documento, il discernimento viene inteso come “stile di una Chiesa in uscita”, per rispondere alle esigenze di giovani: “Mi trovo ora come di fronte a un muro, quello di dare senso profondo alla mia vita. Penso di aver bisogno di discernimento di fronte a questo vuoto”, scrive un ragazzo. “Dinamica spirituale” per “riconoscere e accogliere la volontà di Dio nel concreto” delle singole situazioni, il discernimento va offerto alle giovani generazioni come “strumento di lotta” che li renda “capaci di riconoscere i tempi di Dio”, per “non sprecare” le sue ispirazioni ed il suo “invito a crescere”. “Dono e rischio” allo stesso tempo, perché non immune dall’errore, il discernimento insegna ai ragazzi “la disponibilità ad assumere decisioni che costano”. In ambito vocazionale, inoltre, il giusto discernimento dovrà avvalersi di persone competenti e di “strutture di animazione adeguate, efficienti ed efficaci, attrattive e luminose per lo stile relazionale e le dinamiche fraterne che generano”.

Sfide: discriminazioni religiose, razzismo, precariato lavorativo, povertà, tossicodipendenza, alcolismo, bullismo, sfruttamento sessuale, pedopornografia, corruzione, difficoltà di accesso allo studio, solitudine…Le sfide che i giovani devono affrontare oggi sono innumerevoli. Molte di essere – spiega l’Instrumentum Laboris – sono generate da fenomeni di esclusione, dalla “cultura dello scarto”, da un uso improprio delle nuove tecnologie digitali così pervasive, ma anche rischiose per quel fenomeno di “dark web” che possono generare. Importante, poi, la questione dei giovani migranti, spesso vittime di tratta, per i quali il Documento sinodale chiede di “attivare percorsi a tutela giuridica della loro dignità e capacità di azione e, al tempo stesso, di promuovere cammini di integrazione nella società in cui arrivano”. Tutta la pastorale, quindi, anche quella giovanile, è chiamata “a evitare forme di ghettizzazione e promuovere reali occasioni di incontro”. Fortunatamente, non mancano le sfide positive: la musica, con il suo valore socializzante; lo sport che, nell’ambito della sana competizione, permette di scoprire la cura e la disciplina del corpo, il lavoro di squadra, il rispetto delle regole e lo spirito di sacrificio; l’amicizia tra coetanei, vero e proprio “strumento di emancipazione dal contesto familiare, di consolidamento dell’identità e di sviluppo di competenze relazionali” di ciascuno.

Vocazione: in tale ambito, il Documento sinodale mette in luce una difficoltà oggettiva: i giovani hanno “una visione riduttiva” del termine “vocazione”, il che crea “un forte pregiudizio” poiché la pastorale vocazionale viene vista come “un’attività finalizzata esclusivamente al ‘reclutamento” di sacerdoti e religiosi’. Da qui nasce la necessità di ripensare la pastorale giovanile vocazionale in modo che sia “di ampio respiro” e “significativa per tutti i giovani”. Ogni ragazzo, infatti, ha una sua vocazione che può esprimersi in vari ambiti – la famiglia, lo studio, la professione, la politica…- divenendo “un fulcro di integrazione di tutte le dimensioni della persona”: i talenti naturali, le competenze acquisite, i successi ed i fallimenti “che ogni storia personale contiene”, “la capacità di entrare in relazione e di amare”, l’assunzione di responsabilità “all’interno di un popolo e di una società”. Nello specifico delle vocazioni sacerdotali, invece, la Chiesa è chiamata a riflettere, perché “è innegabile la sua preoccupazione per il calo numerico dei candidati – si legge nell’Instrumentum – Ciò rende necessaria una rinnovata riflessione sulla vocazione al ministero ordinato e su una pastorale vocazionale che sappia far sentire il fascino della chiamata di Gesù a divenire pastori del suo gregge”.

Santità: il Documento sinodale si conclude con una riflessione sulla santità, poiché “la giovinezza è un tempo per la santità” ed essa va proposta come “orizzonte di senso accessibile a tutti i giovani”. In fondo, tutti i Santi sono stati giovani: la “narrativa” della loro vita, allora, possa permettere ai ragazzi di oggi di “coltivare la speranza” affinché – come scrive Papa Francesco nella preghiera finale del Documento – i giovani, “con coraggio, prendano in mano la loro vita, mirino alle cose più belle e più profonde e conservino sempre un cuore libero”.

D.S.

 

 

…E si meravigliava della loro incredulità…

Dal Vangelo di Marco           Mc 6,1-6

LUGLIO_8Partì di là e venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.

Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

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Sicuramente non era la prima volta, notano gli esegeti, che Gesù, durante il suo ministero pubblico, tornava a Nazareth dove, i suoi concittadini, erano così ben informati della risonanza dei suoi discorsi e dei prodigi, compiuti nelle città vicine.

Il vangelo di Marco ricorda un’altra presenza di Gesù in sinagoga, e precisamente a Cafarnao, agli esordi della sua missione,”.. egli, entrato di sabato nella sinagoga, si mise a insegnare. E si stupivano del suo insegnamento, giacché, li ammaestrava come uno, che ha autorità, e non come gli scribi.” (Mc. 1,21-22)

In quella medesima circostanza, il Maestro liberò dal possesso dal demonio un uomo che, spinto dallo spirito immondo, l’aveva riconosciuto come <il Santo di Dio>; e Marco, nota che, ” tutti si chiedevano tra di loro: <Che è mai questo?…comanda perfino agli spiriti impuri e questi gli obbediscono >…e la fama si sparse ovunque per tutta la regione della Galilea…” (Mc.1,23-28 )

Ora, qui, nella sinagoga di Nazareth, dove pure era giunta quella fama, i presenti, sono presi da uno stupore ben diverso, è il disappunto di chi non vuol concedere fiducia, anzi, è pieno di stizza, di invidia, la misera invidia di gretti compaesani.

“Ma chi crede di essere?”, sembrano dirsi tra loro i nazaretani: «…non e costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?».

Il ritratto di Gesù, fatto dai suoi concittadini, molto scettici nei suoi confronti, è il ritratto di una persona qualunque, che non ha rilevanza in alcun campo, né sociale, né religioso, né culturale, né politico, egli è un operaio come tanti, un carpentiere, figlio di una famiglia modesta, come si può arguire dalla citazione dei suoi familiari.

Ormai è lontano lo stupore, ammirato ed entusiasta delle folle, di fronte alla novità della sua dottrina, una dottrina impegnativa, ma che dilatava il cuore e la mente, una dottrina che ridava dignità e valore a qualunque persona, senza badare alla sua condizione sociale.

Non c’ è più lo stupore felice e riconoscente, di chi ha assistito ai miracoli, e incomincia a credere al potere straordinario di questo rabbi, diverso dagli altri.

Per i cittadini di Nazareth, Gesù è uno come loro, anzi, proprio per alcuni del suo parentado, era semplicemente una persona ” fuori di sé” (Mc. 3,20 ), non meritava dunque, alcun credito; avrebbe, soltanto, dovuto star zitto.

Del resto, quando Filippo, chiamato da Gesù alla sua sequela, incontrò Natanaele e, pieno di entusiasmo, gli disse di aver trovato, quello di cui Mosè aveva scritto e quello che i profeti avevano annunciato: ” Gesù figlio di Giuseppe da Nazareth”, questi rispose incredulo: ” da Nazareth può venire qualcosa di buono?” ( 1, 45-46)

Questo era Gesù, per tanti che non riuscivano, o non volevano, credere in lui, nelle sue parole e nelle sue opere.

La mancanza di fede; quella fede che lo aveva mosso a compiere i miracoli, e che tante volte, egli aveva lodato, qui, nella sua città, non esiste, ed è questa la ragione per cui egli si allontana per, portare il suo messaggio nei villaggi vicini.

Gesù, in questa circostanza, fa esperienza di quanto sia vero il vecchio proverbio: «Nessuno è profeta nella sua patria.»; ed è anche lui pieno di stupore, per l’atteggiamento dei concittadini, ma è uno stupore amaro, per l’incredulità, e il disprezzo che lo circonda.

Gesù conosceva bene la sorte dei profeti, inascoltati, soli, perseguitati e, talvolta, uccisi.

La liturgia della Parola, oggi, ci ricorda, con un breve passo, la missione del profeta Ezechiele, il sacerdote, la ” sentinella di Dio”, al quale venne rivolta questa parola: «Figlio dell’uomo, io ti mando agli Israeliti, a un popolo di ribelli che si sono rivoltati contro di me…Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito…. sono una genia di ribelli… sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».( Ez 2, 2 5 )

Cristo è il Figlio dell’uomo, è la vera e piena rivelazione del Padre, ma non fu riconosciuto, e seguì la sorte, di tanti altri profeti.

” Venne tra i suoi, ma i suoi non l’accolsero…” (Gv. 1,11), non lo riconobbero, si fermarono a quei pochi modesti dati anagrafici: era il figlio di Maria, il cugino di Giacomo, Jose, Simone, un artigiano come tanti, e niente di più.

C’è una sollecitazione importante in questo breve passo del Vangelo, in cu, i il Figlio di Dio si rivela nella semplicità e povertà del suo essere uomo come tanti, e, tuttavia, è egli stesso Dio, la cui presenza deve esser colta nelle situazioni esistenziali ordinarie, nella quotidianità della vita, nel volto di ogni uomo o donna per i quali Egli si è incarnato.

Se Cristo ha affrontato il disprezzo, la solitudine e il discredito, è perché è necessario che essi siano eliminati e gli uomini si accolgano gli uni gli altri, come fratelli, figli dello stesso Padre e redenti dallo stesso Sangue.

E’ questo il vero valore dell’uomo, la sua vera dignità, o, come Paolo scrive, il vero vanto: “…mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò, mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte.” ( 2 Cor.12,10 )

Ma c’è un passo, sempre di Paolo, che può far da splendido commento al Vangelo di questa domenica, in cui abbiamo visto un Cristo disprezzato e misconosciuto, è un passo della prima lettera ai Corinti che recita:” I Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi prediciamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini. Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole, per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato, e ciò che è nulla, per ridurre a nulla le cose che sono» (1 Cor 1, 22 25.27 28).

Abbiamo bisogno di occhi contemplativi, per cogliere il Cristo presente in ogni uomo, nel povero, nel piccolo, nell’emarginato, per sperimentarlo presente in noi, sopratutto quando ci ritroviamo deboli e siamo tentati di giudicarci inutili.

 M. Giuseppina Pisano o.p.

mrita.pisano@virgilio.it

 

Una suora missionaria: “Di lebbra si muore ancora”

LEBBRA1In Madagascar, la lebbra non è sparita e fa ancora numerose vittime. Da oltre mezzo secolo, Marie Alleyrat, religiosa francese delle Suore della Divina Provvidenza di Saint Jean, trascorre la sua vita insieme ai lebbrosi malgasci nell’ex lebbrosario Ilena non lontano da Fianarantsoa. Ne ha visti moltissimi. Molti di essi li ha curati. Altri li ha aiutati a lenire le sofferenze di una malattia che evoca epoche antiche ma che è ancora ben presente. “La nostra struttura – spiega a Fides la suora – è stata fondata da missionari norvegesi nel 1898 ed è rimasta sotto la gestione della Chiesa fino al termine della colonizzazione francese. Poi è passata alla gestione dallo Stato che ha inviato qui numerosi medici e infermieri. A un certo punto, il ministero della Salute li ha però trasferiti in una struttura più moderna e questo ospedale è stato di fatto abbandonato. Alcuni anni fa però, i sacerdoti camilliani l’hanno riaperta e le attività di assistenza sono riprese”. Secondo l’Istituto Pasteur, la lebbra colpisce quasi tre milioni di persone al mondo. Nel 2017, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha segnalato 1.500 nuovi casi in Madagascar. “Molti pazienti muoiono ancora – osserva suor Alleyrat -. Sono i più poveri che non hanno accesso alle cure o arrivano troppo tardi negli ospedali. Muoiono per gli effetti della patologia o perché sono così deboli da non essere più capaci di contrastare malattie opportunistiche”. Eppure il morbo di Hansen oggi può essere curato grazie a terapie appositamente elaborate in anni di studi. E messi a disposizione dallo Stato malgascio. “Quando i pazienti vengono da noi per problemi di pelle – osserva la religiosa – sono visitati attentamente e, se trovati positivi alla lebbra, viene loro consigliata una terapia. Solitamente non vengono ricoverati e, se prendono con costanza i farmaci, in sei mesi guariscono e ritornano alle loro attività”. Nelle vecchie strutture del centro rimangono i vecchi pazienti, quelli che hanno subito malformazioni e mutilazioni tali che non possono più tornare a casa. “Sono ancora una ventina pazienti gli ex pazienti che non possono più tornare a casa – osserva la suora -. La loro è una condizione molto triste. Sono mutilati, non hanno le mani o i piedi o sono diventati ciechi. Non hanno una famiglia, né terra, né risorse per vivere. Non possono e non sanno dove tornare. Rimangono qui e noi li seguiamo quotidianamente”. (EC)

Fonte: Agenzia Fides

La nostra epoca esige ogni giorno delle persone dai livelli di solidarietà e di benevolenza mai richiesti in precedenza. Charles Taylor

benevolenza1Nonostante alcune scarse eccezioni, tutti siamo contenti di vivere nell’oggi, immersi nelle sue angosce, legittime, e nelle sue interessanti positività. Possiamo rimpiangere momenti singoli, di particolare significatività per noi e per chi viveva con noi, ma il progresso tecnico e scientifico, artistico e manifatturiero, un po’ ci sbalordisce e ci piace. Godiamo. E, simultaneamente, non possiamo non lasciarci scuotere da quei poveri naufraghi che, fuggiti da situazioni particolarmente avverse, non sanno dove approdare, o da quei poveri anziani, spesso in carrozzella nei nostri pur ridenti parchi, ma che non sanno su chi contare; dai giovani che ambiscono sicurezze su cui potersi appoggiare senza patemi d’animo. E i bambini? Essi si trovano nella felice incapacità di potersi preoccupare per un ‘futuro migliore’…

Il nostro autore, filosofo e politico, scrittore di talento, è tassativo: “La nostra epoca esige ogni giorno”. Egli ha piena coscienza della situazione empirica, quasi paradossale che ci tocca vivere e che non permette dilazioni. Guai rimandare al domani. Ogni giorno sentire e vivere e condividere le tristezze, le fatiche, le passioni. Fare nostri i desideri, le aspirazioni, i sogni altrui, ma anche le angustie, i dolori piccoli e grandi.

Papa Francesco nel n. 87 di Evangelii Gaudium scrive testualmente: “Oggi, quando le reti e gli strumenti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi, sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio. In questo modo, le maggiori possibilità di comunicazione si tradurranno in maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti. Se potessimo seguire questa strada, sarebbe una cosa tanto buona, tanto risanatrice, tanto liberatrice, tanto generatrice di speranza! Uscire da se stessi per unirsi agli altri fa bene. Chiudersi in sé stessi significa assaggiare l’amaro veleno dell’immanenza, e l’umanità avrà la peggio in ogni scelta egoistica che facciamo”.

Poco più avanti aggiunge:

“Lì sta la vera guarigione, dal momento che il modo di relazionarci con gli altri che realmente ci risana invece di farci ammalare, è una fraternità mistica, contemplativa, che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano, che sa sopportare le molestie del vivere insieme aggrappandosi all’amore di Dio, che sa aprire il cuore all’amore divino per cercare la felicità degli altri come la cerca il loro Padre buono. Proprio in questa epoca, e anche là dove sono un «piccolo gregge» (Lc 12,32), i discepoli del Signore sono chiamati a vivere come comunità che sia sale della terra e luce del mondo (cfr Mt 5,13-16). Sono chiamati a dare testimonianza di una appartenenza evangelizzatrice in maniera sempre nuova. Non lasciamoci rubare la comunità” (EG 92).

Ecco: noi e gli altri, tutti. Noi e gli altri sempre, sopratutto quando l’altro è in difficoltà. E’ l’amore cristiano.

Biancarosa Magliano, fsp

biancarosam@tiscali.it