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La Bibbia – Lettura dei simboli

IL CIELO

CIELONel linguaggio biblico il “cielo” quando è unito alla “terra”, indica una parte dell’universo. A proposito della creazione, la Scrittura dice: “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gn 1,1).

Sul piano metaforico il cielo è inteso come abitazione di Dio, che in questo si distingue dagli uomini (cfr Sal 104,2s.; 115,16; Is 66,1). Egli dall’alto dei cieli vede e giudica (cfr Sal 113, 4-9), e discende quando lo si invoca (cfr Sal 18,7.10; 144,5). Tuttavia la metafora biblica fa bene intendere che Dio né si identifica con il cielo né può essere racchiuso nel cielo (cfr 1 Re 8,27); e ciò è vero, nonostante che in alcuni passi del primo libro dei Maccabei “il Cielo” sia semplicemente un nome di Dio (1 Mac 3,18.19.50.60; 4,24.55).

Alla raffigurazione del cielo, quale dimora trascendente del Dio vivo, si aggiunge quella di luogo a cui anche i credenti possono per grazia ascendere, come nell’Antico Testamento emerge dalle vicende di Enoc (cfr Gn 5,24) e di Elia (cfr 2 Re 2,11). Il cielo diventa così figura della vita in Dio. In questo senso, Gesù parla di “ricompensa nei cieli” (Mt 5,12) ed esorta ad “accumulare tesori nel cielo” (ivi 6,20; cfr 19,21).

Il Nuovo Testamento approfondisce l’idea del cielo anche in rapporto al mistero di Cristo. Per indicare che il sacrificio del Redentore assume valore perfetto e definitivo, la Lettera agli Ebrei afferma che Gesù “ha attraversato i cieli” (Eb 4,14) e “non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso” (ivi, 9,24). I credenti, poi, in quanto amati in modo speciale da parte del Padre, vengono risuscitati con Cristo e sono resi cittadini del cielo.

Vale la pena ascoltare quanto in proposito l’apostolo Paolo ci comunica in un testo di grande intensità: “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù” (Ef 2,4-7). La paternità di Dio, ricco di misericordia, viene sperimentata dalle creature attraverso l’amore del Figlio di Dio crocifisso e risorto, il quale come Signore siede nei cieli alla destra del Padre.

4. La partecipazione alla completa intimità con il Padre, dopo il percorso della nostra vita terrena, passa dunque attraverso l’inserimento nel mistero pasquale del Cristo. San Paolo sottolinea con vivida immagine spaziale questo nostro andare verso Cristo nei cieli alla fine dei tempi: “Quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro (i morti risuscitati) tra le nubi, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole” (1 Ts 4,17-18).

Nel quadro della Rivelazione sappiamo che il “cielo” o la “beatitudine” nella quale ci troveremo non è un’astrazione, neppure un luogo fisico tra le nubi, ma un rapporto vivo e personale con la Trinità Santa. E’ l’incontro con il Padre che si realizza in Cristo Risorto grazie alla comunione dello Spirito Santo.

Occorre mantenere sempre una certa sobrietà nel descrivere queste ‘realtà ultime’, giacchè la loro rappresentazione rimane sempre inadeguata. Oggi il linguaggio personalistico riesce a dire meno impropriamente la situazione di felicità e di pace in cui ci stabilirà la comunione definitiva con Dio.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica sintetizza l’insegnamento ecclesiale circa questa verità affermando che “con la sua morte e la sua risurrezione Gesù Cristo ci ha “aperto” il cielo. La vita dei beati consiste nel pieno possesso dei frutti della Redenzione compiuta da Cristo, il quale associa alla sua glorificazione celeste coloro che hanno creduto in lui e che sono rimasti fedeli alla sua volontà. Il cielo è la beata comunità di tutti coloro che sono perfettamente incorporati in lui” (n. 1026).

Questa situazione finale può essere tuttavia anticipata in qualche modo oggi, sia nella vita sacramentale, di cui l’Eucaristia è il centro, sia nel dono di sé mediante la carità fraterna. Se sapremo godere ordinatamente dei beni che il Signore ci elargisce ogni giorno, sperimenteremo già quella gioia e quella pace di cui un giorno godremo pienamente.

Sappiamo che in questa fase terrena tutto è sotto il segno del limite, tuttavia il pensiero delle realtà ‘ultime’ ci aiuta a vivere bene le realtà ‘penultime’. Siamo consapevoli che mentre camminiamo in questo mondo siamo chiamati a cercare “le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio” (Col 3,1), per essere con lui nel compimento escatologico, quando nello Spirito egli riconcilierà totalmente con il Padre “le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli” (Col 1,20).

Dalla Catechesi di San Giovanni Paolo II, 21 luglio 2018

© LEV

 

L’arca dell’alleanza tanto importante nell’Antico Testamento era una cassa di legno di acacia, sulla quale era posto il ‘propiziatorio’ (Kapporet): un coperchio costituito da una placca d’oro con due cherubini uno di fronte all’altro e posti alle sue estremità.

ARCA1L’arca conteneva le’ tavole della testimonianza’ o ‘della legge’ che Dio aveva dato a Mosè (Es 25,16; 40,20; 2Cr 5,10). Perciò essa è anche luogo della presenza particolare di Dio in mezzo al popolo. Certamente non contiene Dio, ma simbolicamente è come lo sgabello dove egli poggia i piedi (cfr. 1Cr 28,2 e Sal 132,7).

Nel segno dell’arca sono collegati i due cardini centrali della fede d’Israele: la parola di Dio e la sua presenza. Dio si rende presente nella Parola che ha donato al popolo, il quale, a sua volta, ascoltandola vive in comunione personale con Dio. Il libro dei Numeri narra che l’arca assicurava che Dio, in mezzo al popolo, lo guidava verso la terra promessa. L’arca, infatti, precedeva gli israeliti nel loro cammino, scandendone le tappe. Al grido d’invocazione degli israeliti l’arca si alzava o si fermava (Num 10,33-36) Quando il popolo si fu stabilito nella terra promessa, l’arca, dopo varie vicende belliche durante le quali fu sottratta al popolo d’Israele (cfr. Sam 4, 5-6), fu posta da Davide in una tenda costruita appositamente. Alla sua morte il figlio Salomone la pone nel Tempio, nel luogo più sacro, detto il Santo dei Santi.

Nella lettura del Nuovo Testamento l’arca dell’alleanza indica la vergine Maria, che nel suo seno porta Gesù. L’evangelista Luca ci mostra che Maria, in cammino verso le montagne della Giudea, per andare da Elisabetta, è la nuova arca dell’alleanza che contiene la presenza del Signore in lei. Il viaggio di Maria richiama quello che l’arca compì quando Davide la trasportò a Gerusalemme e dinanzi alla morte della persona che l’aveva toccata il re esclamò: “Come potrà venire da me l’arca del Signore”? (2 Sam6,9). Elisabetta quando Maria entra nella sua casa, come il re Davide, esclama: “A che debbo che la madre del mio Signore venga a me”? Lc 1,43). Maria rimase circa tre mesi in casa di Zaccaria ed Elisabetta. Anche nel racconto di Davide l’arca prima di entrare in Gerusalemme rimase, come in una tappa provvisoria, tre mesi in casa di Obed – Edom di Gat (2Sam 6,10-11).

Il cammino finale dell’arca dell’alleanza era diretto nel Tempio di Gerusalemme, luogo della presenza di Dio, ma anche il cammino nella fede di Maria termina in questa città, dove sulla croce, fuori della città e dal Tempio (Eb 13,12), il suo figlio Gesù, presenza del Dio vivente, Parola fatta carne, comunica la salvezza e realizza nuova alleanza. Da risorto, presente con noi fino alla fine del mondo, conduce l’umanità in un esodo che conduce alla terra promessa della comunione definitiva con Dio.

Da Sapere

  • L’arca dell’alleanza, secondo i riferimenti biblici, fu nascosta da Geremia (2Mac2,4-8) all’interno dal monte Sinai per sottrarla alla distruzione. Storicamente sappiamo che con la distruzione di Gerusalemme e del Tempio da parte dei Babilonesi (inizi del VI sec. a.C.), dell’arca non vi è più traccia. La sorte dell’arca, perciò, rimane ancora tutta da scoprire.
  • La lastra dorata che copriva l’arca (kapporet) e che il Sommo sacerdote una volta l’anno nel giorno dell’espiazione (Yom Kippur) ungeva con il sangue dell’animale offerto a Dio, per l’apostolo Paolo è il corpo di Cristo in croce, unto di sangue (Rom 3,25).
  • Filippa Castronovo da www.paoline.it

IL FUOCO

FUOCO_2Non c’è religiosità che non ponga il fuoco al centro del proprio culto come segno per esprimere la divinità e il suo operare. Il fuoco illumina, purifica, riscalda, consuma, distrugge e trasforma. È insieme ad aria, acqua e terra uno dei quattro elementi fondamentali del creato, secondo le antiche concezioni, e come tale ricco di messaggi per ogni cultura e in ogni tempo poiché porta in qualche modo, se così possiamo dire, la firma del Creatore.

II fuoco pertanto non poteva non diventare uno strumento fondamentale anche nella rivelazione di Dio e nel culto cristiano.

Il termine fuoco nella Bibbia è usato frequentemente sia nel significato naturale e tecnico che nella valenza simbolica. Nella traduzione greca della LXX ricorre 490 volte.

In tutta quanta la Scrittura notiamo che Dio ama manifestarsi particolarmente attraverso il fuoco per sigillare la sua alleanza con Abramo (Gn 15,17), per entrare in dialogo con Mosè (Es 3,2); per guidare il popolo nel deserto (Es 13,21); per sigillare l’alleanza con il suo popolo al Sinai (Es 19,18; 24,17). Non c’è quindi da meravigliarsi se la funzionale accensione dei lumi al tramonto del sabato divenne per il popolo d’Israele un rito profondamente religioso, il lucernario, dal quale prenderà origine il rito della benedizione del cero nella veglia pasquale cristiana. Il fuoco infatti evoca all’uomo biblico, quindi all’ebreo come al cristiano, l’azione salvifica di Dio. Un’azione che trova il suo vertice nel Nuovo Testamento dove il battesimo cristiano viene assimilato al fuoco (Mt 3,11 ) e dove lo stesso Gesù paragona, la sua missione all’azione del fuoco: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già acceso» (Lc 12,49). L’inizio stesso della Chiesa ha luogo attraverso l’azione di quelle lingue di fuoco, segno dell’effusione dello Spirito Santo, dono del Cristo risorto che si posa sulla prima comunità. Lo Spirito santo come fuoco illumina la Chiesa facendole comprendere la propria identità di comunità di salvati (At 11,16); brucia la paura e ogni forma di timore rendendo i credenti testimoni i coraggiosi del vangelo in ogni angolo della terra (At 1,5 – 8); riscalda il cuore che diviene capace di vivere giorno dopo giorno l’ideale della comunità cristiana nata dalla Pasqua (At 2, 42-47). Inoltre, come Dio sul Sinai fumante diede la sua Legge per mezzo di Mosè, a Pentecoste nel dono delle lingue di fuoco regala il dono della Parola che gli apostoli, colmi di amore, porteranno in tutto il mondo, facendosi capire.

Il simbolo del fuoco descrive pure la missione e la personalità di alcuni personaggi biblici: il profeta Elia: 2 Re 1,10 14; Sir 48,13; Giovanni Battista in riferimento al Cristo: Mt 3,11 12; e la stessa missione del Signore: Lc 12,49- 50.

Paolo utilizza la simbologia del fuoco per descrivere l’azione dello Spirito nel cuore dei credenti: il fuoco “scolpì” la prima legge nelle tavole di Mosè, ora lo Spirito Santo imprime a caratteri forti la legge di Cristo nel cuore dei cristiani (2 Cor 3,3). Lo Spirito come fuoco realizza la nuova alleanza profetizzata dal profeta Geremia (31,31-33).

 

colomba-pace1

Nella Bibbia il primo riferimento esplicito alla colomba è nella Genesi alla fine del diluvio, quando essa ritorna da Noè che l’aveva inviata sulla terra, portando nel becco un ramoscello d’ulivo, segno che la terra non più invasa dalle acque, ritorna a essere vivibile e a produrre beni (cfr. Gen 8,8-12). La colomba ricorda che Dio ha fatto pace con l’umanità peccatrice. In questo senso la colomba può rappresentare anche l’amore misericordioso di Dio per l’umanità.

Nel Cantico dei Cantici la colomba esprime in maniera intensa l’amore umano, appassionato e fedele e a più riprese definisce la sposa ‘colomba mia’ (1,15; 2,14; 4,1; 5,2; 6,9).

La colomba, che geme, è simbolo della persona oppressa e infelice in cerca di libertà dal dolore: «Timore e spavento mi invadono e lo sgomento mi opprime. Chi mi darà ali come di colomba per volare e trovare ri-poso?» ( Sal 55,6-7). Israele che attende con ansia la salvezza, che tarda a venire, fa udire i suoi gemiti che sono come di colomba: «La Signora è condotta in esilio, le sue ancelle gemono con voce come di colombe, percuotendosi il petto» (Na 2,8; cfr. Is 38,14; 59,11; Sal 74,19). La colomba è pure simbolo di gioia e in que-sta valenza descrive il ritorno degli esuli in patria: «Accorreranno come uccelli dall’Egitto, come colombe dall’Assiria e li farò abitare nelle loro case» (Os 11,11).

La colomba, simbolo proverbiale di semplicità e ingenuità perché si lascia intrappolare dalle reti, per il profeta Osea rappresenta la tribù di Efraim, che come ‘ ingenua colomba, priva d’intelligenza’ (7,11-12) aveva confidato prima nell’Egitto e poi nell’Assiria.

La colomba, animale bianco e puro, è adatto al sacrificio che i fedeli credenti offrivano al Tempio (Lv 1,4; 12.6). Tra le offerte al Tempio costituiva l’offerta dei poveri, soprattutto nei riti di purificazione (Lc 2, 22-24). I Vangeli testimonino l’ira di Gesù che si scaglia contro i venditori di colombe, che facevano commercio di questi uccelli nell’area del Tempio (Mt 21,12; Mc 11,15; Lc 19,45-48; Gv 2,12-25).

Nel Nuovo Testamento il richiamo alla colomba che, in occasione del battesimo al fiume Giordano, scende e si ferma su Gesù ( cfr. Mt 3,16; Mc 1,10; Lc 3,22) indica che con l’inizio della missione di Gesù finisce il naufragio dell’umanità peccatrice e inizia una nuova creazione. Come all’inizio della creazione ‘lo Spirito di Dio alleggiava sulle acque’ facendo sì che dal caos originario venisse la vita così ora si posa su Gesù perché in Lui è iniziato il momento decisivo in cui Dio interviene nella storia dell’umanità per salvarla.

In ebraico il termine «colomba» è Yonah (Giona). Il profeta che porta questo nome può indicare il popolo di Israele, che come colomba ingenua non comprende l’agire di Dio e pensa di potersi nascondersi ai suoi occhi o di percorrere strade diverse, ma allo stesso tempo geme per acquisire lo spirito nuovo, capace di obbedienza al suo Signore.

Gesù nelle sue parabole usa poco questo simbolo, ma raccomanda ai discepoli di essere dinanzi ai loro oppositori, paragonati a lupi, non solo ‘semplici come colombe’, ma anche ‘prudenti come serpenti’ (Mt 10,16).

Filippa Castronovo

da www.paoline.it

L’ULIVO

ulivo1L’albero dell’ulivo, tipico delle culture del Vicino Oriente, nella Bibbia è simbolo di pace, fecondità, benedizione.

La prima volta la parola ulivo appare nella Bibbia alla fine del racconto del diluvio quando la colomba porta a Noè, come segno di pace, un ramoscello di ulivo (cfr. Gen 8,9).

Allo stato selvatico l’ulivo si presenta in tutto il suo splendore naturale. Il suo legno è ritenuto tanto nobile da entrare a far parte dei materiali utilizzati per la costruzione del “Santo dei santi”, la parte più sacra del tempio.

L’ulivo è uno dei sette prodotti simbolo della ricchezza della terra promessa: «II Signore tuo Dio sta per farti entrare in un paese fertile, paese di frumento, di orzo e di viti, di fichi e di melograni; paese di ulivi, di olio e di miele» (Dt 8,8; 2 Re 18,32).

Nei libri profetici – in particolare Geremia – l’ulivo è simbolo dell’identità di Israele: «Ulivo verde, maestoso, era il nome che il Signore ti aveva imposto» (Ger 11,16). Il profeta Osea descrive la fertilità e la gioia della sposa infedele, ricondotta da Dio alla fedeltà, nei simboli dei germogli di ulivo: «Metterà radici come un albero del Libano, si spanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell’olivo e la fragranza del Libano» (Os 14,6a-7). La bellezza dell’ulivo significa benessere e fecondità. .

Nel periodo postesilico l’ulivo diviene segno di speranza. II profeta Zaccaria vede un candelabro d’oro con in cima un recipiente con sette lucerne e sette beccucci per le lucerne. Due ulivi gli stanno vicino, uno a destra e uno a sinistra (cfr. Zc 4,1a-3). I due ulivi rappresentano il re Zorobabele di stirpe davidica e Giosuè, sommo sacerdote. Questi personaggi definiti «figli dell’ulivo» simboleggiano il sommo sacerdozio (Giosuè) e la regalità (Zorobabele): la comunità postesilica vive una nuova speranza. Il sacerdozio, infatti, media il perdono rendendo possibile l’accesso a Dio e la regalità davidica ricostruisce il Tempio dove Dio si rende presente e il popolo gli

presta il culto dovuto. I salmi presentano i credenti come ulivo verdeggiante: «Ma io, come olivo verdeggiante nella casa di Dio, confido nella fedeltà di Dio in eterno e per sempre» (Sal 52,10) e i figli del credente sono ‘virgulti d’ulivo’ perché segno di benessere e ricchezza (cfr. Sal 128).

Il simbolo dell’olivo come pace, fecondità, benedizione si riferisce anche a Gesù. Accolto a Gerusalemme con rami di alberi (Mt 21,9) e di palma (Gv 12,13) prima di morire «se ne andò, come al solito, al monte degli Ulivi» per pregare (Lc 22,39-42). La sua preghiera profonda avviene nel Getsemani che significa frantoio dell’olio: «Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani» (cfr. Mt 26,36; Mc 14,32). Nel Getsemani Gesù sarà torchiato e spremuto come si spremono le ulive. Egli è ulivo verdeggiante dalla cui vita donata sgorga la pace, la riconciliazione, la risurrezione.

CIELO

cieloNella storia delle religioni, come anche nella Bibbia, il cielo è simbolo della trascendenza, del sacro, del luogo dove Dio abita e dal quale guarda la terra.

I riferimenti al cielo nella Bibbia sono numerosissimi, al punto che il termine cielo designa la stessa identità di Dio e la sua relazione con l’umanità. La prima pagina della Scrittura presenta Dio che crea i cieli e la terra (cfr. Gen 1,1) e l’ultima annuncia l’avvento di nuovi cieli e nuove terre (Ap 21, 1). Dio chiama il cielo firmamento (Gen 1,8) ed esso, secondo la mentalità antica, è immaginato come luogo solido: poggia su colonne robuste (Gb 2,11) e ha fondamenta solide (2 Sam 22,8). Dotato da finestre, dette cateratte, da esse fa uscire la pioggia (Gen 7,11; 2 Re 7,2.19 ). Dio abita nel cielo/firmamento che ha creato (Gen 14,18,19; Sal 33,13-14; Is 66,1; Est 4,17), vi si siede sopra e distende la sua volta come la tenda (Is 40,22; 1Re 8,27; Sal 104,2). Dal cielo governa il mondo e invia le sue benedizioni, il suo aiuto e la sua Sapienza (Dt 33,13; Sal 121,2; Sap 9,10). Alzare gli occhi verso il cielo equivale a rivolgersi a Dio che in esso risiede (Dt 4,19; Dn 13,35; At 7, 55) mentre innalzarsi fino al cielo indica il voler giungere, con le proprie forze, fino a Dio (cfr. Gen 11,4).

Nel Nuovo Testamento il cielo presenta la stessa simbologia. Gesù insegna a pregare: «Padre nostro, che sei nei cieli» (Mt 6,9). Egli viene dal cielo, dal Padre e tornerà al cielo, al Padre (cfr. Gv 3,13; 6,62; Mc 16,19). E’ il pane vivo disceso dal cielo; nel suo battesimo, al fiume Giordano, i cieli si aprono (Lc 3,21). Dopo la risurrezione mentre ascende in alto (At 1,10-11) invita i discepoli a smettere di fissare il cielo perché devono, mediante l’annuncio evangelico, trasformare il mondo in un ‘nuovo cielo e in una nuova terra‘, nella nuova umanità che riconosce Cristo morto e risorto suo unico Signore. I cristiani nel compiere le loro scelte «rivolgono il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3,2) non per estraniarsi da essa ma perché, guidati dalla vita nuova in Cristo, possano renderla terra dove abita Dio e dove vi è Dio la vi è pure il ‘cielo’. Nel cielo il veggente dell’Apocalisse vede una donna (Ap 12,1) rivestita di sole, simbolo di Gesù risorto, con la luna sotto i suoi piedi e una corona di dodici stelle. La donna è la Chiesa che annuncia Cristo morto e risorto nella storia, per rinnovare l’umanità intorno a Lui, Signore della storia e del creato. Il cielo, infine, è la vera patria dei credenti i quali solo da esso attendono il loro salvatore (Fil 3,20).

Da Sapere

  • Nei vangeli sinottici ricorre l’espressione regno dei Cieli e/o regno di Dio che, di fatto, hanno lo stesso significato. La forma regno dei Cieli è adoperata da Matteo, perché scrive alla comunità cristiana di origine giudaica la quale anziché nominare Dio adopera un termine che lo sostituisce. Quindi cielo indica Dio. Anche noi anziché dire ‘grazie a Dio’ usiamo dire ‘grazie al cielo’.
  • L’apostolo Paolo narra di essere salito al ‘terzo cielo‘ (2 Cor 12,2). Quest’espressione allude al fatto che il cielo s’immaginava diviso in tre sezioni, l’ultima della quale era quella dove abita Dio, o cielo dei cieli (cfr. 1Re 8,27). Il terzo cielo corrisponde al ‘Paradiso‘ (2 Cor 12,4).

Filippa Castronovo

Tratto dal sito www.paoline.it

Rubrica Conoscere la Bibbia – 26.x.2016

Fiat lux

luce1a ricordare la relazione costante che il cristiano deve avere con Dio, riproducendo nella sua esistenza quotidiana ciò che ha accolto credendo alla rivelazione (cfr. 1Gv 2,9-10: «Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui occasione di inciampo»), inoltre richiama innegabilmente il fatto che Dio è fonte, per il credente, di ogni bene, di vita e di salvezza, secondo l’abituale significato della metafora nel Nuovo Testamento. Si può dire che l’affermazione di 1Gv 1,5 presupponga che la pienezza e la potenza di vita stiano anzitutto (o forse “soltanto”) in Dio.

Nel Nuovo Testamento si ritrovano i valori simbolici della luce già individuati nell’Antico Testamento, ma con sottolineature peculiari e aspetti innovativi. Notiamo dapprima, però, un uso più concreto del termine: l’apparizione di una «luce dal cielo» (At 9,3; 22,6; 26,13) è legata all’epifania di Gesù Cristo a Paolo, così come l’apparizione di un angelo illumina la cella in cui Pietro è imprigionato (At 12,7); analogamente l’evento della trasfigurazione di Gesù è descritto facendo riferimento alla luce (cfr. Mt 17,2.5). Questa descrizione di particolari manifestazioni del divino come apparizioni di una «luce» si discosta dall’Antico Testamento che preferisce parlare del fuoco (cfr., p. es., Es 3,2; 19,18; 24,17). Probabilmente il riferimento alla luce, senza precisazione della sua fonte, veniva percepito dagli autori del Nuovo Testamento come rimando più adeguato alla trascendenza divina.

Dal punto di vista antropologico, interessante è il detto di Mt 6,22-23, che paragona l’occhio umano a una lampada, secondo un’immagine comune sia nel mondo greco che in quello giudaico: «La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!». Si faccia attenzione che il riferimento finale alla «luce» è probabilmente sempre un immagine dell’occhio: come organo della vista è ciò che consente che ci sia luce nella persona. Il detto, quindi, non fa tanto riferimento a una “illuminazione interiore”, ma al valore dello sguardo sulla realtà che si vive e sui rapporti con gli altri, che può essere «semplice» (cioè retto, limpido, mite) o «cattivo» (cioè, malizioso, invidioso, cupido). L’occhio esprime l’intenzionalità fondamentale che il soggetto applica alla realtà e questa si riflette sulla sua situazione complessiva di vita (rappresentata dal «corpo»), descritta come luminosa o tenebrosa. Nel brano parallelo l’evangelista Luca aggiunge un versetto («Se dunque il tuo corpo è tutto luminoso, senza avere alcuna parte nelle tenebre, sarà tutto nella luce, come quando la lampada ti illumina con il suo fulgore», Lc 11,36) che sembra suggerire che la vita di colui che ha lo sguardo «semplice» sia capace di diffondere luce; con ciò ci si ricollega all’interpretazione matteana del detto sulla lampada che non va nascosta (Mt 5,14-16 «Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli»).

Come si vede il fine della testimonianza, data dalle opere buone che sgorgano dallo sguardo semplice sulla realtà, è la glorificazione di Dio, il riconoscimento della sua paternità e del suo operare nella storia. Infatti diversi detti collegano l’immagine della luce al processo del pubblico manifestarsi e quindi della rivelazione: così è per il detto sulla lampada che non si può nascondere in Mc 4,21-22 («Diceva loro: “Viene forse la lampada per essere messa sotto il moggio o sotto il letto? O non invece per essere messa sul candelabro? Non vi è infatti nulla di segreto che non debba essere manifestato e nulla di nascosto che non debba essere messo in luce”»; cfr. Lc 8,16; 11,33) e per Mt 10,27 («Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze»; cfr. Lc 8,17; 12,2-3). Quello che Gesù annuncia, infatti, è di per se stesso destinato a diventare manifesto, in quanto espressione del disegno divino di salvezza che chiede all’uomo di essere accolto. Ma ciò significa, ovviamente, che Gesù stesso (o meglio: il Messia atteso) può essere definito «luce» (così in Mt 4,16, nella ripresa di Is 9,1; e in Lc 2,32): questo non tanto in relazione alla sua natura, ma piuttosto alla sua missione, che è quella di donare la salvezza divina (riprendendo quindi il valore simbolico della luce che si trova in diversi passi dell’Antico Testamento). La connessione fra luce e offerta della salvezza si può trovare anche nella parola apostolica (cfr At 13,47, dove Paolo e Barnaba applicano alla loro attività l’oracolo di Is 4,6, e Ef 3,8-9), ovviamente in quanto proclamazione del Vangelo di Gesù. Collegando questo a Mt 5,14-16 si vede come la vita dell’apostolo e discepolo debba essere improntata all’assoluta trasparenza luminosa del suo parlare e del suo agire in riferimento all’annuncio del Cristo.

La rappresentazione della rivelazione divina con la metafora della luce viene ripresa nelle lettere paoline, con alcuni tratti caratteristici. Anzitutto sottolinea la possibilità per il credente di conoscere o comprendere la realtà salvifica che gli viene donata (2Cor 4,6: «Dio, che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo»; cfr. anche Ef 1,17-18: «Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi»). In questa stessa prospettiva il momento iniziale della vita cristiana, la conversione alla fede in Gesù Cristo può essere definita come «illuminazione» (cfr. Eb 6,4; Eb 10,32; secondo alcuni autori questi passi farebbero riferimento al battesimo, ma non è certo; l’uso del termine «illuminazione» per indicare il battesimo si trova però nel II secolo d.C, negli scritti di Giustino). In secondo luogo la manifestazione del Cristo è anche svelamento di ciò che si trova nella profondità del cuore umano (1Cor 4,5 «Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode»; cfr. Ef 5,13 dove l’accento è però sulla condanna) e quindi vale come giudizio. In questo la prospettiva escatologica (cioè quella della fine dei tempi) e quella etica (relativa alla prassi quotidiana) si intrecciano. Infatti il cristiano, accogliendo la salvezza di Cristo, è reso già ora «capace di partecipare alla sorte dei santi nella luce» (Col 1,12): in questo versetto si deve evidentemente intendere la «luce» come una metafora della comunione con la divinità. D’altra parte sono ripetuti gli inviti a vivere nella luce e a rifiutare le opere delle tenebre, dove l’immagine si riferisce senz’altro alla rettitudine dell’agire (cfr Rm 13,12; Ef 5,8-9); anzi il richiamo alla separazione primordiale fra luce e tenebre (2Cor 4,6) spiega anche la calda esortazione a uno stile di vita chiaramente distinto da quello dei non-credenti (2Cor 6,14 «Non lasciatevi legare al giogo estraneo dei non credenti. Quale rapporto infatti può esservi fra giustizia e iniquità, o quale comunione fra luce e tenebre?»). L’idea della separazione e della distinzione rispetto ai non credenti, sia dal punto di vista etico sia da quello della speranza nella vita futura, soggiace probabilmente anche all’uso dell’espressione «figli della luce» (cfr. Lc 16,8; Gv 12,36; Ef 5,8; 1Ts 5,5) che non si trova nell’Antico Testamento, ma è frequente nei testi di Qumran.

Nel Vangelo di Giovanni è Gesù stesso a definirsi «luce del mondo» (Gv 8,12; 9,5; cfr. 12,35-36.46) e il significato dell’immagine è duplice: da una parte, infatti, sottolinea il ruolo di Gesù nella Rivelazione, anzi il suo essere la Rivelazione stessa (la «verità» nel linguaggio giovanneo) che va accolta con fede (non a caso la definizione di Gv 9,5 apre il racconto del miracolo di guarigione del cieco nato che non solo riacquista la vista, ma giunge alla fede); dall’altra la connessione fra luce e vita riprende il tema della salvezza, ovvero della pienezza di vita, offerta da Dio agli uomini in Gesù. La connessione tra luce e vita, che risale all’esperienza basilare dell’essere umano e che veniva affermata dal racconto di Gen 1, viene ripresa in forma marcatamente cristologica, affermando che tale connessione dipende dal “Verbo” sin dal «principio» (cfr. Gv 1,4 «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini») e va accolta dall’uomo credendo in Gesù di Nazareth. Chi rifiuta la sua persona si trova di fatto nelle «tenebre» (Gv 3,19-21; cfr. 11,9-10): in tal senso la rivelazione e l’offerta di salvezza sono anche giudizio, perché smascherano alcune situazioni o posizioni esistenziali come radicalmente opposte alla volontà divina di vita e quindi apportatrici di morte.

Nella prima lettera di Giovanni la «luce» non è posta come predicato di Gesù, ma di Dio (1Gv 1,5: «Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna»). Questo non va inteso come una pura definizione dell’essenza divina, cosa che tra l’altro comporterebbe di intendere il vocabolo «luce» in senso concreto e non metaforico, perché il contesto immediatamente seguente mette in rapporto tale affermazione con la condotta concreta dei credenti, che devono «camminare nella luce» (1Gv 1,7). L’immagine serve quindi anzitutto a ricordare la relazione costante che il cristiano deve avere con Dio, riproducendo nella sua esistenza quotidiana ciò che ha accolto credendo alla rivelazione (cfr. 1Gv 2,9-10: «Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui occasione di inciampo»), inoltre richiama innegabilmente il fatto che Dio è fonte, per il credente, di ogni bene, di vita e di salvezza, secondo l’abituale significato della metafora nel Nuovo Testamento. Si può dire che l’affermazione di 1Gv 1,5 presupponga che la pienezza e la potenza di vita stiano anzitutto (o forse “soltanto”) in Dio.

Filippo Serafini,

docente di Sacra Scrittura, Istituto Superiore di Scienze Religiose all’Apollinare, Roma

Liberamente tratto da DISF.org

Cuore

cuore1CUORE

Il termine “cuore” è uno dei più usati nella Bibbia ed ha un significato molto ricco al di là del devozionalismo e del sentimentalismo.

“Cuore” in ebraico (e aramaico) leb si trova menzionato circa 860 volte nell’Antico Testamento, mentre kardíá del greco neotestamentario si trova circa 1000 volte nel Nuovo Testamento. Un vocabolo significativo, applicato soprattutto all’ uomo: nell’ Antico Testamento solo 26 volte si parla antropomorficamente del cuore di Dio e nel Nuovo Testamento una sola volta in modo esplicito si presenta quel cuore di Cristo che ha avuto così tanto rilievo nella devozione cristiana popolare; si pensi alla solennità del Cuore di Cristo.

I significati del “cuore” biblico sono vari; per esempio nel libro di Samuele simbolica, si si descrive un infarto (o arresto cardiaco o emorragia cerebrale o apoplessia): «Il cuore gli si tramortì nel petto e diventò come pietra», si dice di un avversario di Davide, Nabal, che dieci giorni dopo muore (1Samuele 25, 37-38) così pure il profeta Geremia per la sua sofferenza interiore sente scoppiare le

pareti del cuore » (4, 19).

Ma il cuore è soprattutto un segno di interiorità

Così infatti si dice nel libro dei Proverbi: «Il cuore intelligente cerca la conoscenza» (15, 14) e «il cuore saggio rende prudenti le labbra» (16, 23). Per questo il salmista prega Dio così: «Insegnaci a contare i nostri giorni e conquisteremo un cuore sapiente » (90, 12).

Salomone, alla vigilia della sua intronizzazione, chiede a Dio «un cuore docile perché sappia rendere giustizia al popolo e sappia distinguere il bene dal male»; «al Signore piacque», commenta l’autore sacro, « che Salomone avesse domandato la saggezza nel governare» (1Re 3, 9-10).. Il cuore è anche la sede della volontà, delle decisioni e dell’etica.

Ancora una volta nel libro dei Proverbi è scritto: «Il cuore dell’uomo determina la sua vita» (16, 9). L’augurio che il salmista rivolge al re ebraico è questo: «Ti conceda (il Signore) quanto anela il tuo cuore e faccia riuscire ogni tuo progetto! »(20, 5).

In negativo c’è «il cuore che trama progetti perversi »(Proverbi 6, 18). E’ in questa luce che nasce la curiosa e frequente immagine del cuore «ingrossato/ ingrassato o indurito» che è la rappresentazione del male e come Gesù dice è dal cuore che «escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, suicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza» (Marco 7, 21-22). Al contrario, l’invito a decidere e a scegliere il bene è formulato così: «Tutto ciò che è nel tuo cuore va’ e mettilo in opera!» (2Samuele 7, 3). E il libro del Deuteronomio rafforza: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta la tua anima e con tutte le tue forze» (6, 5), frase cara anche a Gesù che la varierà introducendo anche la “mente”: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente» (Matteo 22, 37).

Avere una religione del cuore allora, non significa entrare in una spiritualità sentimentale quanto piuttosto pensare, decidere e operare secondo verità e giustizia.

Questo, però, non esclude che il cuore biblico celi al suo interno anche la dimensione affettiva e passionale. Stupenda è l’immagine di Isaia: «Il cuore freme come fremono gli alberi del bosco, agitati dal vento» (7, 2) e alcune frasi del libro dei Proverbi: «E’ roso dall’ invidia per il successo dei peccatori», (23, 17) «il cuore calmo, vita di il corpo, mentre quello agitato è tarlo per le ossa» (14,30), e che esalta «il cuore allegro che rischiara il volto», «il cuore contento che fa bene al corpo», mentre depreca «il cuore triste che indica uno spirito depresso» (15, 13; 17, 22). E poi il Cantico dei cantici: «Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo!» (41 9), mentre il giorno delle nozze diventa nel linguaggio semitico «il giorno della gioia del cuore».

Ma secondo la Bibbia, anche Dio ha un cuore che, più o meno, ricalca al positivo le esperienze del cuore umano: « Il volere del Signore rimane in eterno, i pensieri del suo cuore di età in età » (Salmo 33, 11).Prova gli stessi sentimenti e passioni; infatti il profeta Osea descrive Dio come padre pieno di amore «Come potrei abbandonarti Israele …? Il mio cuore si commuove dentro di me, tutte le mie viscere fremono di passione … » (11, 8). E’ per questo che il Signore dichiara a Salomone: « I miei occhi e il mio cuore saranno lì di continuo» nel tempio di Sion, in mezzo all’ umanità (1 Re 9, 3). Nel Nuovo Testamento, Cristo entra in scena con sentimenti di amore e vicinanza nei confronti di chi lo cerca e di tutti coloro che lo circondano.

Ma è solo una volta che si fa esplicitamente menzione del suo cuore (anche nel celebre episodio del costato trafitto dalla lancia del soldato, l’evangelista Giovanni non usa il termine “cuore”). E’ solo Matteo che scrive: « Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo, infatti, è dolce e il mio carico leggero» (11,28-30). Dio – si dice negli Atti degli Apostoli (1, 24 e 15, 8) – è kardiognóstes, cioè “conoscitore dei cuori”, delle coscienze, dell’ intimo più segreto dell’ uomo. Cristo, invece, svela il suo stesso intimo all’umanità e lo rivela segnato dalla mitezza e umiltà, cioè dalla bontà e dalla tenerezza, dalla comprensione e dalla condivisione.

Città

Città

Nel Nuovo Testamento la città (polis) può assumere il significato generico di “località”, oppure designare le città ellenistiche dell’Asia Minore, o le città e i centri dell’impero romano sorti lungo le principali vie di comunicazione. Come nell’Antico Testamento, ciò che distingueva la città dal villaggio non era però la dimensione o la quantità di popolazione, ma la presenza di mura di difesa, a volte anche fortificate, con torri di guardia agli angoli e su entrambi i lati delle porte. Nelle città formatesi prima della conquista greco-romana, non esistendo alcun piano urbanistico, era assente ogni punto di riferimento certo (la piazza, l’arteria principale, il foro, ecc.), così che le città si presentavano come un groviglio di viuzze e vicoli tortuosi. Nelle numerose città mediterranee fondate o ricostruite dai greci e dai romani – di cui circa trenta in Palestina –, la struttura della città obbediva invece a un preciso e ordinato disegno urbanistico. Nelle città che, rifiutando la cultura ellenistica e romana, avevano conservato un’impronta prevalentemente ebraica, si viveva in abitazioni modeste, costruite con i caratteristici tetti piatti e le stanze che si aprivano su un cortile, separato dalla strada per mezzo di un muro nel quale era collocata la porta d’ingresso.

Le città del Nuovo Testamento offrono quindi, a seconda della loro origine e dislocazione geografica, un panorama variegato, non solo in rapporto al numero e alla tipologia della popolazione, ma anche in relazione alla loro struttura amministrativa, alle attività esercitate (agricole, artigianali, economico-finanziarie, ecc.), al loro benessere o alla loro povertà. Si può così anche comprendere perché la distinzione tra città e villaggio risulti a volte oscillante, tanto che l’evangelista M arco 1,38 conia perfino il termine “città-villaggio” (kōmopolis): una località, cioè, con una popolazione pari a quella di una città, ma con le caratteristiche abitative tipiche di un villaggio. Nei vangeli viene attribuita la qualifica di c., oltre naturalmente a Gerusalemme, a Cafàrnao e Betsàida (Mt 9,1; 11,20-23; Lc 4,31; 9,10), a Nàzaret (Mt 2,23), a Gàdara o Geràsa (Mt 8,34; Mc 5,14; Lc 8,34).

Nel resto del Nuovo Testamento le città nominate sono per gran parte le località visitate da Paolo e dai suoi collaboratori durante i loro viaggi missionari, e le chiese delle città nominate nell’Apocalisse . È da queste città greco – romane che prenderà avvio il movimento cristiano, lasciando il contesto rurale dei villaggi palestinesi per diffondersi nel mondo.

Città di Davide

Nell’Antico Testamento la città è Gerusalemme (cfr. 2 Sam 5,7.9; 6,10.12; Is 22,9). L’evangelista Luca (Lc 2,4), invece, chiama così Betlemme, città natale di Gesù, per sottolineare l’appartenenza di Giuseppe alla casa di Davide e, di riflesso, anche la discendenza davidica di Gesù.

santaCittà santa

Metafora di Gerusalemme (Mt 4,5; 27,53; Ap 11,2; 21,2.10; 22,19), “la città del grande Re” (Mt 5,35), ma anche il luogo del rifiuto del messaggio di Gesù, dove i profeti sono perseguitati e lapidati. Nel suo lamento su Gerusalemme, Gesù ne predice la rovina (Mt 23,37; Lc 13,34; 19,41-44) e in Apocalisse 11,2 si annuncia che i pagani “la calpesteranno per quarantadue mesi”: la durata della persecuzione contro i giudei da parte di Antioco IV Epìfane (Dn 7,25; 12,7).

Città straniere

Nel suo discorso davanti al re Agrippa, Paolo racconta che, prima della conversione, perseguitava i cristiani inseguendoli “perfino nelle città straniere”. Queste città “di fuori” (exō) sono probabilmente un’espressione iperbolica per indicare, in realtà, Damasco e i suoi immediati dintorni.

Città sul monte

L’immagine della “città che sta sopra un monte” è riferita in Mt 5,14 ai discepoli, “luce del mondo”. Una città costruita così in alto non si può nascondere; le sue mura e, di notte, le sue luci, sono viste per forza da chiunque alzi lo sguardo.

Sullo sfondo di Is 2,2-5, la città potrebbe essere Gerusalemme, costruita sul monte Sion, segno visibile dal quale sono attratte tutte le nazioni.

Fonte:

Dizionario del Nuovo Testamento

a cura di Giuliano Vigini, Paoline

casa1Casa

Nel Nuovo Testamento la casa (oikos; oikia) assume una pluralità di significati. Essa rimanda all’abitazione come edificio; alla famiglia come comunità domestica; al tempio come luogo di culto (casa di Dio; casa di preghiera); alla Chiesa come comunità dei credenti; al luogo d’incontro delle prime comunità cristiane come assemblea dell’agàpe fraterna; alla stirpe come discendenza ( casa di Davide; casa di Giacobbe; casa di Giuda). (oikos pneumatikos), in cui ogni membro della famiglia viene costituito “pietra viva” sul fondamento che è Cristo, e chiamato a rendere presente e far crescere lo Spirito, orientando la propria vita al Dio che sceglie e chiama il suo nuovo popolo ad offrirgli “sacrifici spirituali” (1 Pt 2,5). Diventata dimora vivente dello Spirito, la casa può così essere, dentro e fuori di sé, “tempio di Dio”.

Casa del Padre

Quest’espressione (oikos tou patros) designa il tempio in Gv 2,16 – come nell’AT (cfr., ad es., Es 33,7; 40,34-38; Nm 12,7) -, mentre in Gv 14,2 la casa (oikia tou patros) simboleggia la casa nei cieli, dove sono le “dimore” dei giusti.

Casa deserta

Riferimento alla profezia di Ger 22,5 dove si annuncia la rovina del tempio di Gerusalemme. Come punizione per aver ostinatamente rifiutato Gesù, il popolo d’Israele vedrà la sua c. (oikos erēmos), fino al giorno in cui Cristo non verrà nella gloria a instaurare il regno di Dio (Mt 23,38; Lc 13,35).

Casa di Cesare

Quelli della casa (kaisaros oikia) di cui Paolo – in attesa del processo a Roma – trasmette i saluti (Fil 4,22) sono un gruppo di schiavi e liberti cristiani, addetti a numerosi servizi domestici e professionali nel palazzo imperiale e nella pubblica amministrazione.

Casa di Davide

Espressione (oikos Dauid) che indica la discendenza davidica, riferita a Giuseppe, padre putativo di Gesù (Lc 1,27; 2,4), e a Gesù (Lc 1,69). Proprio l’appartenenza di Giuseppe alla casa sancisce sul piano legale la discendenza davidica di Gesù e giustifica la promessa fatta dall’angelo a Maria che al figlio che concepirà, il Messia, sarà dato il trono di Davide (Lc 1,32).

Casa di Dio

Espressione (oikos theou) riferita al tempio (Mt 12,4; Mc 2,26; Lc 6,4), ma anche al popolo di Dio, la chiesa riunita in comunità, presieduta da Cristo e in Cristo viva (1 Tm 3,15; Eb 10,21; 1 Pt 4,17).

Casa di Giacobbe

Immagine (oikos Iakōb) ripresa dall’AT (cfr. Es 19,3; Sal 114,1; Is 2,5; 8,17; 48,1) per designare il popolo d’Israele, rappresentato in una delle sue figure-guida (Lc 1,33; At 7,46).

Casa di Giuda

Riferimento (oikos Ioudas) alla tribù da cui discende Gesù come Messia (Eb 8,8; cfr. anche 7,14).

Casa di Israele

Espressione (oikos Israēl) equivalente a “popolo d’Israele”: il popolo dell’antica (Mt 10,6; 15,24; At 2,36; 7,42) e della nuova alleanza (Eb 8,8.10).

Casa di preghiera

Riferimento al luogo di culto (oikos proseuchēs) fatto dai sinottici a proposito dei venditori cacciati dal tempio (Mt 21,13; Mc 11,17; Lc 19,46), combinando e adattando alla situazione presente di Gesù la citazione di Is 56,7 e di Ger 7,11.

L’enfasi dell’episodio è posta sulla purificazione del tempio, da restituire alla sua dignità e alla sua vera funzione di casa.

Casa sulla roccia

La parabola della casa è narrata da Mt (7,24-27) al termine del discorso sul monte (5,1-7,29) e da Lc (6,4749), alla fine del discorso della pianura (6,20-49). Essa vuol mettere in luce due atteggiamenti contrapposti: quello del costruttore saggio e quello del costruttore stolto. Il primo, conoscendo i pericoli del clima della Palestina durante la stagione delle piogge (soprattutto da novembre a febbraio) costruisce la casa sulla roccia, in modo da preservarla dalle alluvioni, dal vento e dalle calamità naturali. Il secondo, invece, si espone imprudentemente a questi rischi perché edifica la casa sulla sabbia della costa, rendendola più vulnerabile all’impeto dell’acqua e del vento. Contrapposta alla casa costruita sulla sabbia, che viene spazzata via, la casa sulla roccia resiste ad ogni intemperie, perché ha solide fondamenta. Così è anche del discepolo che ascolta le parole di Gesù e le mette in pratica. Chi, cioè, è ben radicato nella sua parola non deve temere nulla, non perché la sua vita si trovi al riparo dalle prove e dalle avversità, ma perché ha in sé la saggezza, la forza e la tenacia per resistere ad esse e per superarle.

Fonte:

Dizionario del Nuovo Testamento

a cura di Giuliano Vigini, Paoline