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La Bibbia – Lettura dei simboli

cuoreCuore

L’assoluta rilevanza antropologica del cuore nell’Antico Testamento trova riscontri significativi nel Nuovo Testamento. Spesso, infatti, il cuore (kardia) è evocato come centro dei sentimenti, delle passioni e delle emozioni; sede della ragione, del pensiero e dell’intelligenza; organo della volontà. Per questa pluralità di significati, nel cuore si raccoglie di fatto l’intera persona, in quanto essa esprime di più intimo e profondo.

Dal cuore dipendono così anche tutte le decisioni buone o cattive per la fede e la pratica di vita cristiana. Ciò che favorisce l’incontro con Gesù, così come ciò che allontana da lui, impedendogli di abitare in noi (Ef 3,17), con il suo amore (1 Gv 3,17), viene infatti da un cuore retto e puro (1 Tm 1,5). Da qui il costante richiamo alla purificazione (Eb 10,22; 1 Pt 3,4) e alla conversione del cuore come passo obbligato per ricevere un cuore nuovo, capace di accogliere Gesù. In questo non si è lasciati soli da Dio, “che è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1 Gv 3,20); da Dio “che scruta i cuori” (Rm 8,27), “gli affetti e i pensieri” (Ap 2,23), e conoscendo tutto del nostro mondo interiore sa anche ciò di cui abbiamo bisogno per evitare il cuore indurito e favorire la circoncisione del cuore.

La durezza di cuore è l’espressione (kardia pepōrōmenē) riferita ai discepoli (Mc 6,52; 8,17) per indicare la loro incapacità di capire il senso profondo delle parole e dei gesti di Gesù, nella loro portata reale o nel loro valore simbolico. Più in generale, però, la durezza di cuore è riferita ai giudei e in particolare ai farisei per indicare il loro atteggiamento di chiusura nei confronti di Gesù e quindi la barriera insormontabile che si erge davanti al suo messaggio, impedendogli di entrare. Ma anche i cristiani possono esser tentati di respingere, restare indifferenti o tiepidi di fronte alla parola di Gesù. Da qui la pressante esortazione – sull’eco del Sal 95,8 – a non “indurire” (sklērynō) i cuori (Eb 3,8.15; 4,7).

Fonte:

Dizionario del Nuovo Testamento

a cura di Giuliano Vigini, Paoline

Agnello

agnello1Agnello

I tre termini (arnion, amnos e arēn) che designano l’agnello nel Nuovo Testamentosono usati in genere come immagini e simboli, a cominciare dalla definizione di Gesù come agnello di Dio.

L’unica volta in cui viene usato il termine arēn è nel passo di Luca, dove Gesù nell’affidare la missione ai settantadue discepoli, li manda come “agnelli in mezzo a lupi” (Lc 10,3). Il riferimento è alle prove e alle violenze subite dalle prime comunità cristiane (Gv 10,12; At 20,29), che anch’esse, deboli, dovranno subire da parte dei loro avversari più forti.

La definizione di Gesù come agnello (amnos tou theou) ricorre nel Nuovo Testamento solo due volte (Gv 1,29.36) e, nel primo caso, è accompagnata dalla frase “colui che toglie il peccato del mondo” (cfr. anche 1 Gv 3,5).

Il riferimento più sicuro per questo titolo dato da Giovanni Battista a Gesù è l’agnello pasquale. L’accostamento tra la celebrazione rituale del sacrificio dell’agnello, con il sangue sparso sugli stipiti delle porte in segno di liberazione e salvezza (cfr. Es 12,7-13), e il sangue dell’agnello immolato sulla croce sta a significare che il sacrificio di Cristo, “nostra pasqua” (1 Cor 5,7), rappresenta il “passaggio” dalla morte alla vita (5,24), dalle tenebre alla luce (8,12) dell’umanità riconciliata e redenta. Gesù, l’inviato del Padre, inaugura infatti, col suo sacrificio, la pasqua della nuova alleanza e della nuova libertà dei figli di Dio.

L’immagine di Cristo come “agnello” (amnos) pasquale, senza difetti e senza macchia (cfr. Es 12,5; Lv 22,19-25; Nm 6,14; 19,2), è ripresa da 1 Pt 1,19 e, con altro termine (arnion), dall’Apocalisse.

Qui però Cristo, l’Agnello, non è solo la vittima mansueta (cfr. Is 53,7) che si è immolata (5,6; 7,14), ma è soprattutto il vincitore della morte, risorto ed esaltato in cielo, seduto al fianco di Dio sul trono (22,1.3). Da lì l’Agnello combatterà contro le potenze del male e la sua vittoria lo consacrerà “il Signore dei signori e il Re dei re” (17,14; cfr. anche 19,16).

Fonte:

Dizionario del Nuovo Testamento

a cura di Giuliano Vigini, Paoline

LA VIA


FrancigenaLA VIA

 Il simbolo della via /cammino è tipico del linguaggio biblico: vi sono le vie di Dio che conducono alla vita e le vie dell’uomo la cui meta dipende dalla libera scelta. Il simbolo della via caratterizza le varie culture, al punto che verbo il camminare o la parola strada indicano un modo di essere nella vita e di realizzarsi.

‘Farsi strada’ significa affermarsi;’avere una via’ indica un tipico comportamento. Il termine via nell’AT richiama in primo luogo l’esperienza dell’Esodo quando Dio, dopo aver liberato il popolo dalla schiavitù egiziana, gli tracciò una strada nel deserto, per farlo entrare nella terra promessa. Questo cammino è in stretta relazione con le ‘regole’ o ‘legge’, che Dio tramite Mosè diede al popolo. L’osservanza amorosa di questa legge permise di procedere verso la meta e di vivere il dono della libertà. La legge di Dio si chiama, infatti, la via del Signore (Ger 5,4). Essa richiede una scelta libera. Nel libro del Deuteronomio Dio chiede al popolo di scegliere tra la via della vita e quella della morte: «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male. Oggi, perciò, io ti comando di amare il Signore, tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva nella terra in cui tu stai per entrare per prenderne possesso… Scegli dunque la vita…» (Cfr. Dt 30,15-16.19).

La vita stessa dell’uomo, nel suo modo di comportarsi, è definita strada, via o sentiero: «Come potrà un giovane tenere pura la sua via? Osservando la tua parola» (Sal 119,9). Seguire una via è un modo di vivere (Es 18,20), che può essere buono (Ger 6,16; Prv 8,20) oppure cattivo (Ger 25,5; Prv 8,13). Chi segue la propria strada, senza riferimento a Dio, vive senza orientamento e nel pericolo di morte (Is 53;6). Per questo l’orante prega: «Tieni lontana da me la via della menzogna, donami la grazia della tua legge». Sapendo che Dio indica il sentiero della vita, glielo domanda (Cfr. Sal 16,11) e gli esprime pure il desiderio di meditare i tuoi precetti e considerare le tue vie (Sal 119,15).

Nei Vangeli, in particolare Marco e Luca, il cammino indica, innanzitutto, la strada/via seguita da Gesù che lo conduce a Gerusalemme dove compie la volontà del Padre. Nel Vangelo di Marco, Gesù tre volte presenta questa via ai discepoli (Mc 8,27; 9,33-34; 10,32.52). Essi, però, non la comprendono.

Nel terzo Vangelo, per 10 capitoli (9,5 – 19,46) Luca indica che la meta del cammino di Gesù è Gerusalemme. Ed egli lo percorre decisamente. Questo cammino indica il modo o stile di vivere di Gesù: la sua apertura misericordiosa verso i peccatori, la sua attenzione verso coloro che incontra, il suo volontario donarsi per la salvezza dell’umanità.

Nel quarto Vangelo il termine via è contenuto in due passi (Gv 1,23; 14,4-6) e ha un senso diverso dei sinottici. Nel capitolo 14 Gesù si definisce e autorivela la Via unica che conduce al Padre. Il termine via che indicava il cammino e la legge di Dio, viene a indicare Gesù, in quanto unico mediatore che pone in comunicazione con il Padre. Gesù, infatti, è Via sicura perché egli è anche Verità/fedeltà e pienezza di vita. La Via che è Gesù si percorre identificandosi con lui. Nel libro degli Atti degli apostoli il termine via indica Gesù; i discepoli sono i credenti quelli che seguono la Via; coloro cioè che hanno fede in Gesù, lo seguono e fanno proprio il suo modo di vivere (cfr. Atti 9,2; 19, 23; 24,14).

 

Da sapere che…

Nei libri sapienziali dell’Antico Testamento la via del Signore diviene la via della Sapienza (Prv 3,17; 4.11; Sir 6,26).

L’apostolo Paolo definisce “Via sublime” (1 Cor 12,31) il comportamento che esprime la gratuità dell’amore come Gesù ha manifestato con il suo modo di vivere (Cfr. 1 Cor 13,1-12).

 

sr Filippa Castronovo

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La stella

stellaLA STELLA

Il simbolo biblico della stella nell’Antico Testamento si trova, in particolare, nel libro dei Numeri, nell’episodio dell’asina parlante di Balaam. Costui per ordine di Balak, re di Moab, nemico del popolo d’Israele, doveva maledire il popolo d’Israele giunto alle soglie della terra promessa. Il re Balak intima a Balaam; «Vieni, e maledici questo popolo, perché è troppo potente per me; forse così riusciremo a sconfiggerlo e potrò scacciarlo dal paese; so infatti che chi tu benedici e benedetto e chi tu maledici e maledetto» (Nm 22,6).

Balaam, dopo alcune resistenze, cede e s’incammina per pronunciare la maledizione su Israele. Ma l’angelo del Signore si pone sulla strada per ostacolarlo (cfr.Nm 22,22). Egli non lo vede, ma lo vede la sua asina:  «L’angelo del Signore stava ritto sulla strada con la spada sguainata in mano e deviò dalla strada e cominciò ad andare per i campi».  Balaam percuote l’asina per rimetterla sulla strada, ma essa nonostante le percosse si accovaccia sotto di lui e si mette a parlare:  «Non sono io la tua asina sulla quale hai sempre cavalcato fino ad oggi? Sono forse abituata ad agire così?» (22,30). Balaam comprende che Dio stesso è contro di lui e l’asina obbedisce a Dio. Da mago, grazie alla sua asina che scorge  i segni di Dio, diviene profeta e pronuncia una lunga benedizione sul futuro del popolo di Dio: «Io lo vedo, ma non ora,io lo contemplo, ma non da vicino:una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele» (cfr. Nm 24,17-18). La stella che Balaam vede spuntare da Giacobbe, fa riferimento a Davide che diverrà re d’Israele, sottomettendo i popoli di Moab e di Edom.

Nel Nuovo Testamento, gli evangelisti  Luca e Matteo, comprendono che quella stella riguarda Gesù, il vero Messia, re di pace. Luca afferma che  «Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Lc 1,32). L’evangelista Matteo associa la stella che guida i magi alla regalità di Gesù. La stella guidò i magi dall’Oriente verso Gerusalemme per adorare il re dei Giudei. Al re Erode dicono: «Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» (Mt 2,2-11). Quando Erode li invia verso Betlemme ecco che «La stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima». La stella che guida a Gesù è Gesù stesso.

Nell’Apocalisse Gesù risorto si autodefinisce stella, ma con la qualità nuova della risurrezione: «Io, Gesù, ho mandato il mio angelo per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese. Io sono la radice e la stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino» (Ap 22,16). Gesù, discendente di Davide, vero re, è la stella radiosa del mattino, la più brillante che precede l’alba del giorno di Dio. Come la prima stella del firmamento accende la luce del giorno così Gesù, con la sua risurrezione, ha acceso già il giorno che non avrà mai fine.

Da sapere che:

 La profezia di Balaam (Nm 24,2-7.15-17b) è uno dei testi proposti dalla liturgia cattolica dell’Avvento per il lunedì della terza settimana, Anno B.

La seconda lettera di Pietro parla di Gesù risorto come della stella del mattino: «E abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino» (2Pt 1,19.)

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13. Pregare con la Scrittura

13.Pregare con la Scrittura

 ifQuando leggi è Dio che ti parla; quando preghi sei tu che gli rispondi (san Girolamo)

 L’insegnamento dei padri della Chiesa, che si nutrivano della parola di Dio, risuona nella DV: «Tutti i fedeli… si accostino volentieri al sacro testo sia per mezzo della sacra liturgia, che è impregnata di parole divine, sia mediante la pia lettura … Si ricordino, però, che la lettura della sacra Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera» (n. 25).

La formula pia lettura equivale a lectio divina o a lettura orante della parola di Dio.  Queste formule indicano il desiderio del credente di incontrare Dio, per ascoltarlo, per rispondergli  e  per conformare la propria vita alla sua volontà. La raccomandazioni sull’importanza della lectio divina sono numerose: «È necessario che l’ascolto della Parola diventi un incontro vitale, nell’antica e sempre valida tradizione della lectio divina che fa cogliere nel testo biblico la Parola viva che interpella, orienta, plasma l’esistenza» (San Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, 39).

La Vita Consacrata è invitata, in modo particolare, a fondarsi sulla Parola: «La lectio divina, fin dalla nascita degli Istituti di vita consacrata, in particolar modo nel monachesimo, ha ricevuto la più alta considerazione. Grazie ad essa, la Parola di Dio viene trasferita nella vita, sulla quale proietta la luce della sapienza che è dono dello Spirito” (VC 94).

Secondo la definizione classica di Guigo il certosino (XII secolo) la lectio divina è una lettura individuale o comunitaria della Scrittura che si svolge in quattro momenti: lectio, meditatio, oratio e contemplatio. A questi passi fondamentali si possono aggiungere la consolatio, la discretio, la deliberatio e l’actio.

La lectio divina, essendo incontro con Dio, richiede una preparazione: anzitutto un luogo silenzioso che favorisca l’ascolto della parola di Dio. Ad esso corrisponde un atteggiamento di preghiera, che testimonia il silenzio della mente e del cuore. Si può accendere un cero, simbolo della luce che la parola di Dio emana. Segue l’invocazione allo Spirito perché faccia comprendere nell’oggi ciò che Egli ha voluto gli autori sacri scrivessero per sua ispirazione (DV12).

I quattro momenti fondamentali

 Lectio: ascolto del testo in se stesso. Il testo biblico deve essere completo in se stesso. La lectio può essere condotta sulla Parola della liturgia che propone un testo biblico continuo ed evita che si scelga a caso. In questo primo momento ci si domanda:  come si presenta questa testo? Che cosa dice ? Di chi parla?  Il cardinale Carlo Maria Martini consiglia di ‘leggere la Bibbia con la penna, sottolineando, cioè, le parole che colpiscono, oppure richiamando con segni grafici i verbi, le azioni, i soggetti, i sentimenti espressi o la parola-chiave’. Nella ricerca del messaggio, evitare la fretta che fa cadere in conclusioni fantasiose o nella preoccupazione di chi legge la Bibbia per trarre un insegnamento da trasmettere agli altri.

Meditatio:  la parola di Dio per me. Dopo aver compreso il testo in se stesso,  anche con l’aiuto dei passi paralleli perché ogni pagina della Scrittura appartiene all’intero corpo delle Scritture, si ascolta che cosa la parola di Dio dice oggi a me con questo testo. La domanda pertinente è:  quale messaggio, con questo testo, Dio mi propone oggi? Quale conversione mi domanda?

Oractio: la mia risposta a Dio. La parola uscita da Dio ritorna a Lui come ringraziamento, lode, supplica, intercessione. La preghiera può essere formulata con un versetto del salmo che risuona nel cuore e riprende il messaggio della lectio. Se, ad esempio, la parola di Dio invita a conversione, il versetto:  «Scrutami, o Dio, e conosci il mio cuore… » (Sal 139,23), ci fa rispondere a Dio con la sua Parola, che  può accompagnare tutta la giornata, come un  ritornello.   …disporsi all’ascolto di Dio che mi parla…

Contemplatio: guardare con gli occhi di Dio. La contemplazione non è «visione» che solleva in alto, ma esercizio spirituale che fa assumere lo sguardo di Dio sulla propria vita, sulla storia, fino a comprenderla come templum (tempio, casa) dove egli abita. Si vivono le parole del salmo: «Gustate e vedete come è buono il Signore» (Sal 34,9) .

Seguono quattro momenti che, di fatto, possono già viversi nelle tappe precedenti: consolatio: è il gusto della parola di Dio, che suscita il desiderio di scelte che operano un progresso nella vita spirituale; discretio: è il discernimento che fa passare dalla vita già buona alla sequela più profonda di Gesù; deliberatio: è la decisione di voler agire secondo la parola che Dio ha rivolto; actio: è l’azione concreta in conformità alla Parola che porta frutto nella vita (cfr. Is 55, 10-11).

Metodo semplice per la lectio divina in comunità

Si basa sul principio che nella lectio la Parola viene incontro e parla;  richiede l’ascolto con cuore aperto;  esige la  risposta personale e comunitaria.  Dopo aver preparato un luogo adatto e  invocato lo Spirito, si vivono i seguenti passi.

 Incontro con la Parola (lectio): si legge il testo biblico ad alta voce e si accende un primo cero. Dopo uno spazio di silenzio segue l’ascolto: ogni presente condivide, a voce alta, senza commenti, la parola, il verbo, il versetto che l’ha colpito/a.

  1. Ascolto della Parola (meditactio): si legge il testo una seconda volta e si accende il secondo cero. I presenti condividono che cosa la parola comunicata prima (non un’altra!) dice alla mia vita. La comunicazione sarà breve e in forma personale. Es. questa Parola … mi comunica, mi dice, mi incoraggia…. In pratica, si condivide il passaggio di Dio nella vita.
  2. Risposta alla Parola (oractio): segue una terza lettura della stessa Parola e si accende il terzo cero. Ogni presente formula una brevissima preghiera (stile versetto del salmo) usando la parola già comunicata. Può essere preghiera di ringraziamento, invocazione, richiesta di perdono…

Si termina con una preghiera o con un canto.

Da non dimenticare

«La vita consacrata nasce dall’ascolto della Parola di Dio e accoglie il Vangelo come sua norma di vita. Alla scuola della Parola, riscopre di continuo la sua identità e si converte in evangelica testificatio per la Chiesa e per il mondo. Chiamata ad essere “esegesi” vivente della Parola di Dio, essa stessa è una parola con cui Dio continua a parlare alla Chiesa e al mondo» (cfr. Proposizione 24, Sinodo sulla parola di Dio).

«Questo mondo richiede personalità contemplative, attente, critiche, coraggiose. Esso richiederà di volta in volta scelte nuove e inedite. Richiederà attenzioni e sottolineature che non vengono dalla pura abitudine né dall’opinione comune, bensì dall’ascolto della parola del Signore e dalla percezione dell’azione misteriosa dello Spirito Santo nei cuori» (Carlo Maria Martini).

 

sr Filippa Castronovo, fsp

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12. Come ‘leggere’ la sacra Scrittura

ifLa Costituzione Dogmatica DV al n. 12 offre i criteri indispensabili per ‘leggere’ la Scrittura. Basandosi sul presupposto teologico che Dio ha parlato per mezzo di uomini e alla maniera umana, precisa: «Poiché Dio nella S. Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l’ interprete della Sacra Scrittura per capire bene ciò che egli ha voluto comunicarci deve ricercare con attenzione ciò che gli agiografi in realtà abbiano inteso significare e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole» (n. 12).  Il documento: L’Interpretazione della Bibbia nella Chiesa (PCB-1993) seguendo le indicazioni della DV presenta due passi importanti: l’esegesi e l’interpretazione.

 L’esegesi studia il testo in se stesso e determina il suo significato letterale, storico e culturale. Si avvale delle lingue antiche usate dall’autore sacro, del confronto con le letterature orientali del tempo cui gli autori sacri spesso si sono ispirati, valuta l’archeologia, l’analisi narrativa e retorica come pure l’ interpretazione giudaico-rabbinica delle Scritture ebraiche.

L’ermeneutica o interpretazione cerca di capire il messaggio del testo biblico, per noi, oggi. Essendo la Bibbia opera di Dio e dell’uomo ritrova il significato del testo come inteso dallo scrittore sacro e, soprattutto, dallo Spirito Santo, che ha fatto scrivere quelle cose in quel modo, rimanendo parola di Dio per l’umanità di tutti i tempi.

Per una corretta esegesi e interpretazione biblica sono indispensabili tre criteri fondamentali:

  1. i generi letterari;
  2. l’unità della rivelazione considerata nel suo cammino storico;
  3. la verità biblica in ordine alla salvezza.

1. I generi letterari

Caratterizzano la comunicazione umana di tutti i tempi. Ad esempio: un telegramma, a differenza di una lettera, comunica una verità in modo essenziale e conciso; la trama di un romanzo non è paragonabile a un libro di storia; una poesia comunica in modo diverso da un articolo di giornale… Il genere letterario fa distinguere il tema/messaggio (che cosa l’autore dice) dal modo dire (come lo dice). Nel genere letterario biblico si esprime il vissuto dell’ambiente che lo produce: culto, famiglia, scuola e la cultura dell’autore che lo esprime. I generi letterari biblici sono numerosi: codici legislativi (cfr. Esodo, Levitico , Deuteronomio) brani epici, professioni di fede, parabole, leggende e romanzi, lettere inviate a vari destinatari, libri e brani apocalittici, oracoli profetici, racconti autobiografici, gesti simbolici, poesia (cfr. Salmi e alcuni brani profetici), canto di amore (Cantico dei Cantici), cronaca nei libri detti storici, catechesi, teologia della storia, parabole.

  1. L’unità e la progressività della rivelazione biblica

 La DV avverte: «Dovendo la Sacra Scrittura essere letta de interpretata con l’auto dello stesso Spirito Santo mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all’unità di tutta le Scrittura, tenuto conto della viva Tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede» (n. 12 ).

La rivelazione biblica è unitaria e progressiva: va dal primo all’ultimo libro della Scrittura. Poiché il culmine della rivelazione è Cristo Gesù, è pericoloso isolare un brano biblico, in particolare dell’Antico Testamento, e leggerlo fuori contesto (o a caso!) senza tener che la rivelazione cristiana può averlo arricchito o corretto (cfr. Mt 5, 21). La verità biblica va considerata nell’intero arco della rivelazione: «Il NT è nascosto nell’Antico e l’AT è reso manifesto nel Nuovo» (sant’Agostino).

  1. La verità necessaria alla salvezza

 «I libri della Scrittura insegnano con certezza e senza errore la verità necessaria alla nostra salvezza che Dio volle fosse consegnata nelle sacre Lettere» (DV 11)

La verità biblica fa conoscere Dio e il suo progetto di salvezza per l’umanità che ama con cuore di Padre. La Bibbia non risponde a curiosità, anche legittime, di tipo scientifico, storico o di altro genere. Dio rivela se stesso unicamente per entrare in dialogo con l’umanità e vivere comunione amicale (DV 2 ). Chi non ricorda il grave errore nel quale sono caduti coloro che condannarono Galileo Galilei che aveva dimostrato che scientificamente è la terra a girare intorno al sole e non  il sole intorno alla terra, come in linguaggio epico dice Gios  10,12? Galileo aveva capito bene che la Bibbia non insegna come è fatto il cielo ma come si va in cielo!

E’ noto, pure, che nel libro di Giuditta come in quello di Tobia la cornice storica è fittizia; i nomi dei re sono confusi tra di loro come sono imprecisi i riferimenti storici. Il libro di Giuditta cita l’Assiria e nomina Nabucodonosor che è Babilonese e appartiene a un altro periodo storico! Questa confusione ‘storica’ permette all’autore di interpretare la difficile situazione storica/religiosa del suo tempo in modo sapienziale e di comunicare la parola di Dio in modo efficace: per il libro di Giuditta è chiaro che il Signore salva il suo popolo da una situazione senza vie di uscita, per mezzo di una donna credente, rappresentante del popolo fedele.

 Un importante avvertimento

«Nell’Apocalisse si parla di un libro chiuso con sette sigilli: Prova a farlo leggere ad una persona colta e ti risponderà: “come posso leggerlo se è sigillato?”. Quanti sono ai giorni d’oggi coloro che si credono dotti e tengono in mano un libro chiuso! Non possono aprirlo senza che glielo dissigilli colui che possiede la chiave di Davide, colui che quando apre nessuno può chiudere e quando chiude nessuno può aprire. Leggiamo negli Atti degli Apostoli di quel bravo eunuco che sta leggendo sul suo carro il libro di Isaia: Filippo lo interroga: “ riesci a capire quello che stai leggendo?”. E lui risponde: “come posso farlo se nessuno me lo spiega?” Lo vedi tenere in mano un libro, concentrare l’interesse sulle parole del Signore, articolare quelle parole con la lingua, pronunciarle con le labbra e non avere tuttavia la minima idea di colui che, senza saperlo, venera nel libro. Arriva Filippo e gli mostra quel Gesù che è nascosto fra le righe. Che potere magico ha un maestro! In un batter d’occhio gli da la fede, lo battezza, lo rende fedele e santo. Era discepolo e lo fa diventare maestro. Ti ho detto questo per farti capire che senza una guida capace di aprirti il cammino non ti è possibile addentrarti nella S. Scrittura… » (San Girolamo, lettera n.53 scritta a san Paolino da Nola).

sr Filippa Castronovo, fsp

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11. I libri dei cristiani

bibbia1I libri cristiani che compongono il Nuovo Testamento, tra i quali emergono i quattro Vangeli (cfr. DV 18), si sono formati in modo più veloce rispetto ai libri delle Scritture ebraiche.  La loro origine coinvolge molto meno persone e il loro contenuto non si basa su di un insegnamento divino da tramettere, ma sulla persona di Gesù, più importante delle stesse Scritture. Gli stessi testimoni oculari erano ritenuti più autorevoli di qualsiasi documento scritto.  Dopo la loro morte nacque la necessità di non perdere la loro memoria fedele e la loro testimonianza su Gesù e cominciò a operarsi il passaggio dalla tradizione orale a quella scritta.  I motivi di questa decisione sono tre:

  1. Dopo la morte dei testimoni, la distanza temporale dalla loro presenza rischiava di far perdere nitidezza ai loro racconti orali, con il rischio di sfumare il contenuto originario della loro ‘tradizione’. La fede cristiana si diffondeva, inoltre, oltre la Palestina e la distanza geografica rendeva difficile sia consultazione sia la comunicazione tra le comunità. Sorgeva dunque la necessità di affidarsi a mezzi più durevoli della tradizione orale originaria.
  2. La scomparsa dei primi testimoni oculari e il ritardo della parusia (ritenuta agli inizi della fede cristiana imminente: cfr. 1Ts 5, 1ss) costrinsero le comunità cristiane a produrre i primi testi scritti adatti a consegnare alle generazioni future il patrimonio della fede.
  3. A questo si aggiungono le controversie tra cristianesimo e giudaismo e tra esponenti interni della stessa fede cristiana che interpretavano in modo diverso i rapporti tra fede cristiana e pratica giudaica. Un esempio è quello della interpretazione della pratica della Legge, rispetto alla centralità della fede cristiana, sostenuta da Paolo. Le comunità cristiane dovevano, dunque, identificarsi nei confronti delle Scritture ebraiche.

La storia della definizione del canone del Nuovo Testamento va dal  II al IV sec. E non è stata pacifica, in quanto le controversie furono numerose. Si stabilirono tre criteri  guida per stabilire la  “canonicità” di un libro:

– la sua origine apostolica;

– la conformità del suo contenuto alla regola della fede apostolica;

– il suo uso nella liturgia

 

Paolo è il primo scrittore ispirato del Nuovo Testamento.  Le lettere da lui redatte sono datate fra il 50 e il 60 circa d.C. Il Vangelo di Marco, primo tra i quattro, fu scritto verso gli anni 70 d.C!  (cfr. scheda 10. Gesù, Parola fatta carne, nel secondo Testamento). All’apostolo di attribuisce il corpus paolinum, cioè,  s’intende l’insieme delle lettere scritte per aiutare le comunità da lui fondate a crescere nella fede che avevano abbracciato e quelle scritte da alcuni suoi discepoli che ne hanno mantenuto vivo il ricordo e interpretato fedelmente il  pensiero nelle nuove situazioni.

Il corpus paolinum è diviso in tre gruppi:  il primo comprende le sette lettere di cui si riconosce la paternità paolina o ‘homologoumena’: la prima ai Tessalonicesi, la prima e la seconda ai Corinzi, Romani, Galati, Filippesi, Filemone. Il secondo o le lettere discusse o ‘antilegomena’: la seconda ai Tessalonicesi, Colossesi ed Efesini. Infine, il terzo, di sui fanno parte la prima e la seconda a Timoteo e Tito, dette pastorali, perché indirizzate a due vescovi.

L’autorevolezza delle lettere di Paolo è testimoniata in 2Pt 3,15-16, scritta verso la fine del I secolo. Quest’autore riconosce agli scritti di Paolo un valore pari alle altre Scritture, cioè all’ Antico testamento che erano gli unici scritti ispirati che allora si riconoscevano.

Terzo gruppo di scritti del NT: questa terza parte conosce una storia molto simile a quella della terza parte dell’AT, cioè  gli Scritti, a causa della mancanza di dati e di informazioni precise. Comprende i protocanonici, la cui canonicità non fu mai discussa: la prima lettera di Pietro  e la prima lettera di Giovanni. I deuterocanonici, riconosciuti come canonici in un secondo momento:  Giacomo, seconda di Pietro, seconda e terza di Giovanni , lettera di Giuda e Apocalisse.

 Il canone dei libri cristiani si definisce definitivamente nel IV secolo, quando terminate le persecuzioni, il cristianesimo ottiene un riconoscimento ufficiale all’interno dell’impero romano. La libertà di culto che favorì le comunicazioni tra le comunità creò la necessità di fissare un canone comune tra tutte le comunità cristiane. Il primo elenco completo è quello di Eusebio di Cesarea (verso il 325) nella sua Storia ecclesiastica (3,25), seguito da quelli di Cirillo di Gerusalemme (350), Atanasio di Alessandria (367), Gregorio di Nazianzo (400), Agostino (400), liste poi sancite dai concili di Ippona (393) e di Cartagine (397).

Il canone delle chiese cristiane

 Canone ortodosso: considera canonici i libri contenuti nella versione greca della LXX, anche se l’ordine è parzialmente diverso da quello ebraico originale. Le chiese greco-ortodosse hanno stabilito in maniera definitiva il canone biblico nel Sinodo di Gerusalemme del 1672.

Canone cattolico: accoglie  l’ordine e la classificazione presente nella traduzione latina di Girolamo a fine IV secolo, che comprendeva pure i deuterocanonici.

Canone protestante: contiene gli stessi libri della Bibbia ebraica.

Canone copto: nell’Antico Testamento accoglie i testi del canone lungo della LXX e alcuni testi considerati apocrifi dalle altre confessioni cristiane (Libro dei Giubilei, Libro di Enoch.

Canone siriaco. La traduzione della Bibbia in siriaco detta Peshitta, ufficiale tra le varie chiese siriache presenta alcune diversità. L’Antico Testamento comprende alcuni testi considerati apocrifi dalle altre confessioni cristiane (Salmi 151-155 e II libro di Baruc).  

In tutte le confessioni cristiane, il Nuovo Testamento comprende 27 libri.

sr Filippa Castronovo, fsp

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10. Gesù, Parola fatta carne

10. Gesù, Parola fatta carne, nel secondo Testamento

gesù2Come all’origine della fede ebraica non vi è il libro sacro, ma l’incontro con la Parola così all’origine della fede cristiana non vi sono i libri sacri ma la persona di Gesù, che con la sua predicazione, le sue opere, la sua morte e risurrezione porta a compimento la rivelazione di Dio. A differenza dei profeti che parlano a nome di Dio: «Così dice il Signore», Gesù afferma di essere in persona la Parola: «In verità (Amen), io vi dico». Egli con autorevolezza riconosce la validità perenne delle Scritture ebraiche, ma le interpreta in maniera nuova, imprimendo loro un orientamento nuovo (Mt 5,17). La sua persona e la sua parola valgono molto di più del tempio, della legge, dei profeti (Mt 5,21-48; 12,6; 24,35). Gesù è la rivelazione definitiva di Dio (Eb 1,1-2) che si manifesta nella parola di Dio diventata carne, cioè, persona umana, storia (Gv 1,14). La prima comunità cristiana lo riconosce come il «Signore» (Kyrios in greco, il termine che nella traduzione greca della Bibbia era usato per indicare il nome ebraico impronunziabile di JHWH). Gesù Kyrios è l’unico nome che salva (At 4,12) e la sua parola è sacra come quella di JHWH.

La parola di Gesù ‘Verbum Domini’ è testimoniata nei 27 libri nel Nuovo Testamento, ma tra questi eccelle il Vangelo che significa buona notizia.

«A nessuno sfugge che tra tutte le Scritture, anche quelle del Nuovo Testamento, i Vangeli possiedono una superiorità meritata, in quanto costituiscono la principale testimonianza relativa alla vita e alla dottrina del Verbo incarnato, nostro Salvatore. La Chiesa ha sempre e in ogni luogo ritenuto e ritiene che i quattro Vangeli sono di origine apostolica. Infatti, ciò che gli apostoli per mandato di Cristo predicarono, in seguito, per ispirazione dello Spirito Santo, fu dagli stessi e da uomini della loro cerchia tramandato in scritti che sono il fondamento della fede, cioè l’Evangelo quadriforme secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni » (DV 18)

I vangeli si sono formati tra gli anni 70 e 90 d.C. Tre persone autorevoli della Chiesa primitiva Marco a Roma, Matteo in Palestina, Luca ad Antiochia, mossi dallo Spirito, decisero, tenendo conto delle esigenze di queste diverse comunità, di presentare secondo un’ottica catechetico –pastorale, il racconto della vita e dei miracoli, della morte e risurrezione del loro Maestro, Gesù di Nazareth. Dopo qualche anno, con uno stile diverso, ma affascinante, sorge il Vangelo secondo Giovanni.

I quattro Vangeli sono, in forma diversa, un solo VANGELO, l’unica «bella, buona notizia» di quanto Dio abbia amato l’umanità. Il termine Vangelo appare nel primo versetto del Vangelo secondo Marco e costituisce il titolo della sua opera: «Inizio del Vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio». La diversa presentazione di Gesù, che i quattro evangelisti offrono, aiuta a capire che il Vangelo redatto da Marco non è quello di Luca o di Matteo o di Giovanni. Per questo motivo si dice «Vangelo secondo Marco, secondo Matteo, secondo Luca, secondo Giovanni». Il Vangelo è uno e, in quanto buona/bella notizia che riguarda Gesù, ci giunge nell’interpretazione di Matteo, Marco, Luca, e Giovanni. I Vangeli interpretano la vita, il messaggio, la storia di Gesù. Questa memoria interpretativa non toglie nulla alla storicità di Gesù, anzi la valorizza perché restituisce nell’oggi la sua perenne attualità.

«I quattro su indicati Vangeli, di cui la Chiesa afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (cfr. At 1,1-2)» (cfr. DV 19)

L’evangelista Luca all’inizio del suo Vangelo precisa che scrive con attenzione e responsabilità ciò che riguarda Gesù per aiutare i cercatori di Dio (Teofilo) a dare solidità alla propria fede.

 «Poiché molti hanno messo mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, come ce li hanno trasmessi chi ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola, così ho deciso anch’io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teòfilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto» (Lc 1, 1-4)

Una interessante sintesi dei quattro Vangeli

Alcuni definiscono il Vangelo di Marco: Vangelo del catecumeno, perché ha lo scopo di aiutare colui che viene introdotto alla fede a diventare discepolo del Signore. Il Vangelo di Matteo, invece, è il Vangelo del catechista, il Vangelo che aiuta colui che deve introdurre altri alla fede. In questo Vangelo, Gesù è il maestro che insegna. Il Vangelo di Luca è il Vangelo del discepolo /testimone, vale a dire, di colui che avendo intrapreso la sequela di Gesù vuole seguirlo fedelmente, fino alla fine, nonostante tutto. Giovanni, infine, è il Vangelo del presbitero, o del cristiano maturo e contemplativo che riesce ad avere una visione profonda e unitaria dei vari misteri della salvezza.

Differenza tra cronaca e interpretazione

Gli evangelisti non hanno voluto fare una cronaca su Gesù, non hanno voluto dire chi è Gesù, che cosa ha fatto, che cosa ha detto, in maniera neutrale. Gli evangelisti hanno desiderato comunicare l’evento-Gesù che è salvezza, come lo stesso nome Gesù significa. I quattro Vangeli interpretano la sua vita, il suo messaggio, la sua storia. Essi cantano a quattro voci che Gesù è il Messia di Israele, il Figlio di Dio morto e risorto, il salvatore del mondo.

Per capire la fondamentale differenza tra informazione /cronaca e interpretazione ci basti pensare alla differenza tra la fotografia e il ritratto. La fotografia può riprodurre tanti particolari di un fatto o di un oggetto; il ritratto, dipinto con passione, esprime, invece, il calore, le emozioni, l’amore che l‘artista comunica, oltre che con il pennello e con i colori, con il suo cuore. E chi ammira la sua opera ne recepisce la freschezza e attualità del messaggio.

sr Filippa Castronovo, fsp

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9. Pagine di difficile lettura della Bibbia: racconti ripetuti (2)

IFIl Pentateuco è il libro ‘vertice’ della Bibbia ebraica. Contiene la torà che i libri profetici commentano e gli altri scritti meditano. Numerosi esempi di prima parte della Bibbia aiutano a capire il lungo cammino della formazione della Bibbia, nel suo sviluppo storico e letterario.

Grazie agli studi biblici confluiti nelle acquisizioni del Concilio Vaticano II, e nella Dei Verbum, è, ormai, assodato che questi cinque libri non sono stati scritti da Mosè come un tempo si credeva. Oggi gli studiosi ritengono che il Pentateuco è un’opera composita frutto di un lungo cammino di redazione. Una lettura attenta scopre racconti riportati due volte e anche tre, che possono disorientare, il lettore che vi cerca la verità storica nel senso moderno del termine. Vediamo alcuni esempi-

Il racconto della creazione è narrato due volte (Gen 1,1-2,4a e Gen 2,4b-25) e in modo diverso. Il primo racconto (1,1-2,4a) sorto in ambiente babilonese, ad opera dei sacerdoti (P), mostra che il creato, uscito dalla parola creatrice di Dio, è bello! Questo racconto solenne – quasi liturgico – contempla l’armonia impressa da Dio, nel mondo che ha creato. Importante il valore del sabato, il giorno dedicato al riconoscimento della sovranità di Dio e alla solidarietà. Questo racconto risponde alle domande: Da dove viene il mondo e tutto ciò che in esso esiste? Quale il posto o ruolo dell’uomo e della donna nel creato?

Il secondo racconto (Gen 2,4b-25) da leggere unito al capitolo 3, redatto in ambiente palestinese, insiste sulla relazione fra Dio e l’essere umano cui Dio, e non gli dei pagani, infonde il suo ‘alito’; tra l’uomo e la donna; tra l’uomo e la terra e riflette sulla libertà umana capace di introdurre il disordine e di spezzare l’armonia. Questo racconto, utilizzando forme mitiche delle culture circostanti, risponde alla domande: Chi ha creato l’umanità? Come l’ha creata? Com’è entrato il male e la morte nel mondo? Perché la necessaria e seducente relazione uomo-donna è segnata anche dal conflitto? Perché il lavoro dell’uomo genera fatica?

Gli studiosi spiegano che, in questo caso, i redattori sacri, nel dare la forma finale al primo libro della Bibbia, dinanzi al materiale a loro disposizione, anziché scegliere uno dei due racconti li hanno scelti tutte e due e li hanno posti uno speculare all’altro perché i due racconti sono parola di Dio, con lo stesso valore.

L’autore sacro, servendosi dei racconti mitici della cultura del tempo (cfr. Gen 1,1-11) che interpreta alla luce della fede del Dio personale dell’esodo, con i due racconti della creazione risponde alle domande fondamentali sulla vita, il peccato, la morte, che l’umanità di ogni tempo e luogo si pone

Le due alleanze di Dio con Abramo avvengono la prima per fede (Gen 15); nella seconda ad Abramo è richiesta la circoncisione (Gen 17); del diluvio si legge che durò quaranta giorni e quaranta notti (Gen 7,4.12), altri testi dicono anche un anno (Gen 7,6.11; 8,13).

L’esodo degli Ebrei dall’Egitto in una tradizione è avvenuto per espulsione da parte del Faraone che li ha cacciati (Es 12,29-36); in un’altra si è trattato di fuga dal Faraone oppressore, nella guida di Mosè (Es 14,5-15,21 ). Il numero delle piaghe nella tradizione jahvista sono sette in quella elohista e sacerdotale sono dieci. Nel passaggio nel mare le acque si prosciugano (Es 14,21) e o si rialzarono formando come una muraglia a destra e a sinistra e gli israeliti vi passano quasi come in una processione (Es 14,29).

L’itinerario dell’Esodo è duplice: uno a Nord, lungo il Mediterraneo; l’altro a Sud, nella penisola del Sinai. I testi del Pentateuco presentano anche differenze di stile: narrazioni, documenti, saghe e di vocabolario: il nome divino a volte è YHWH, altre volte ’elohìm (il Dio d’Israele).

Le narrazioni dall’esodo vanno comprese come ‘memorie’ della liberazione di Dio dal potere oppressivo del Faraone. Il loro unico scopo è di imprimere la certezza che Dio, in ogni tempo, ha il potere di salvare dal male e di restituire a chi è divenuto schiavo la sua dignità di essere umano creato ‘ a immagine e somiglianza di Sua’.

L’autore/i sacri non narrano i dettagli di un evento accaduto sotto i loro occhi, ma interpretano antiche ‘memorie’ di fede nelle quali il lettore credente vi ‘trova’ la sua vita e una luce nuova per vivere la fedeltà al Dio dell’Alleanza nel presente.

Come spiegare questi racconti doppi e con diversa formulazione?

Nella seconda metà del secolo XIX gli studiosi formularono la “teoria documentaria”, secondo la quale alla base del Pentateuco, vi sarebbero quattro fonti o documenti provenienti da ambienti religiosi e tempi diversi: quella jahwista, che si sarebbe formata nel X secolo a.C all’epoca di Salomone, è chiamata così per l’uso del nome divino YHWH (J); quella elohista che corrisponde alle parti dove Dio è chiamato ’elohim, (E) formatasi nel X –VIII secolo a,c; una terza Deutenonomista caratteristica del Deuteronomio (D) che sarebbe del Nord nell’VII secondo e, infine, una di tipo cultuale, detta sacerdotale (P) dal tedesco Priesterschrift sorta durante l’esilio babilonese, intorno ai sacerdoti esiliati, tra i quali il profeta Ezechiele. Questa teoria oggi è smentita: il Pentateuco è stato costruito, invece, intorno a temi o unità maggiori, quali la storia delle origini, dei patriarchi, l’uscita dall’Egitto; il Sinai; il soggiorno nel deserto, l’inizio della conquista. La presenza di doppioni e di testi a prima vista incongruenti, testimoniano la loro diversa provenienza, l’epoca nella quale furono scritti, la forma narrativa usata e l’esperienza di fede che li caratterizza. Queste unità, nate in luoghi diversi e trasmesse separatamente, furono unificate in un’ottica di fede che conduceva a vedere nella propria storia nazionale la guida amorosa di Dio che visita il suo popolo e lo conduce alla pienezza della vita, suscitando una risposta di fede libera e responsabile da parte dei credenti.

 Una metafora che aiuta a capire la Bibbia, come parola di vita

 I testi biblici sono come uno spartito musicale, che da solo è muto. La musica si sente solo se il musicista conosce le note, legge lo spartito e lo interpreta imprimendogli un tocco personale. Se il musicista (il lettore credente della Bibbia) non fa suonare il testo, lo spartito da solo non fa sentire la melodia di cui è portatore! Il testo biblico fa sentire la parola viva di Dio se chi lo legge, come un bravo musicista, ne interpreta bene le diverse note e le attualizza! La Bibbia, il libro che contiene la Parola per eccellenza, diceva san Gregorio, cresce in noi che la leggiamo: ‘Scriptura crescit cum legente’.

sr Filippa Castronovo, fsp

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8. Come capire le pagine difficili delle Scritture ebraiche (1)

IF_bibia ebraicaLa Bibbia, come sappiamo, non è stata scritta da uno scrittore geniale che, dentro le pareti della sua stanza, redasse il ‘libro sacro ’ come una storia continua. La Bibbia è nata nel grembo di una comunità viva, composta da persone concrete, desiderose di vivere la fede in Dio nonostante la loro fragilità. Questa comunità credente documenta la propria storia di fede, realizzando una specie di ‘album’ di famiglia, che raccoglie tutti gli aspetti della vita: documenti, storie, poesie, feste, leggi… Mano a mano che si aggiorna le storie in esso narrate aumentano e i fatti antichi riacquistano nuovo spessore. In questo speciale ‘album’ la comunità credente, mentre ricorda gli eventi importanti che l’hanno segnata, ri – esprime la sua fede nelle nuove situazioni, crescendo, simultaneamente, nella fedeltà all’alleanza.

La sapiente pedagogia di Dio

 Le Scritture ebraiche, nella loro lunga storia di formazione, rispecchiano la pedagogia misericordiosa di Dio verso il suo popolo, che conduce ad affidarsi a lui, stando al suo passo. Ecco perché i testi biblici, anche i più difficili, non vanno isolati dal loro contesto, ma vanno compresi dentro la storia di fede che li ha prodotti e nel modo nel quale sono stati riportati. La Bibbia è un tutto organico; è quella grande sinfonia di voci, che formano la melodia che per i cristiani è Gesù, centro della Scritture. Come comprendere, tuttavia, i testi biblici la cui morale o teologia è lontana dall’insegnamento di Gesù?

La DV 15 afferma: «I libri poi del Vecchio Testamento, tenuto conto della condizione del genere umano prima dei tempi della salvezza instaurata da Cristo, manifestano a tutti chi è Dio e chi è l’uomo e il modo con cui Dio giusto e misericordioso agisce con gli uomini. Questi libri, sebbene contengano cose imperfette e caduche, dimostrano tuttavia una vera pedagogia divina. Quindi i cristiani devono ricevere con devozione questi libri: in essi si esprime un vivo senso di Dio; in essi sono racchiusi sublimi insegnamenti su Dio, una sapienza salutare per la vita dell’uomo e mirabili tesori di preghiere».

Già nel lontano 1993, il biblista J.L. Ska in un illuminante articolo pubblicato sulla rivista ‘Civiltà cattolica’ 144 III (1993) 209-223, risponde alle domande che molti si pongono dinanzi ad alcune pagine ‘difficili’ della Bibbia.

1. Come accettare, ad esempio, il fatto che i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe dinanzi a situazioni rischiose, per salvarsi la vita dicono bugie? Abramo afferma che Sara è sua sorella (Gen 12,10-20; 20,1-18). Lo stesso fa Isacco (Gen 26,6-11); Giacobbe inganna due volte il fratello Esaù (Gen 25,29-32; 27,1-28,9).

I racconti biblici che riguardano i patriarchi non hanno lo scopo primario di proporre dei modelli di virtù: questi racconti sono memorie su personaggi che ebbero un ruolo importante nella storia del popolo d’Israele, sono gli antenati del popolo, il quale in essi ritrova le proprie radici. Che Abramo, Isacco e Giacobbe abbiamo avuto debolezze non impedisce di essere i padri di Israele secondo la carne e nella fede. Lo scrittore sacro non intende formulare dei giudizi nei loro riguardi, ma semplicemente descrivere il loro cammino. I patriarchi non sono stati perfetti, ma nonostante i loro errori, dubbi e incertezze, nei quali chiunque in ogni tempo si può riconoscere, essi non hanno smesso di cercare Dio, di affidarsi a lui e di lasciarsi guidare dalla sua parola. Questa è l’eredità che consegnano ai discendenti.

2. In alcuni libri emergono giudici crudeli e amorali (cfr. Sansone, Gdc 13-16; Iefte, Gdc 9-11), grandi re peccatori a crudeli, persino Davide e Salomone (cfr. 2Sam 11; 1Re 11). I testi violenti si comprendono alla luce dell’usanza del tempo che richiedeva la distruzione completa delle città conquistate (legge dell’Herem), il massacro degli abitanti, del bestiame e gli oggetti preziosi dovevano consacrarsi solo a Dio.

I racconti di violenza presenti in questi testi biblici, sono scritti in un genere letterario, simile all’epopea. Secondo genere non esistono mezze vittorie. O si vince o si perde. Occorre, inoltre, tener presente che sono storie composte, dopo aver perduto la terra promessa, durante il periodo dell’esilio o del post-esilio. In queste storie si vuole idealizzare il passato che, tramite l’epopea, appare glorioso. Non è vero, ad esempio, che tutti i cananei furono distrutti! Israele, in realtà, ha dovuto convivere con essi mantenendo la sua identità religiosa. L’esigenza di distruzione attribuita a Dio, espressa da questi racconti, riguarda l’astensione dai culti idolatrici e da ogni forma di compromesso con il mondo pagano. Il dramma di Iefte non vuole, ad esempio, edificare, e non invita all’imitazione, ma è un racconto che vuole, invece, commuovere. II racconto induce a partecipare all’esperienza dolorosa dell’amore di un padre verso sua figlia e a capire la sua ingenuità. Altri testi affermano che Dio non vuole sacrifici umani (cfr. Gen 22).

I cristiani nell’AT non cercano sempre e immediatamente modelli da imitare, ma, nel leggerlo, fanno attenzione al senso dei racconti e a ciò che essi vogliono trasmettere e al genere letterario che usano.

3. Il libro di Giobbe che affronta il tema della sofferenza del giusto presenta una soluzione terrena che non corrisponde all’ esperienza. Non vi sono, inoltre, aperture o speranze nella vita oltre la morte o nel dogma della resurrezione. Anche i salmi imprecatori creano dei problemi dove si maledice il nemico e se ne augura la distruzione. Il dramma di Giobbe permette di riflettere sul carattere insondabile dell’azione divina e sul mistero della sofferenza, che trova luce soltanto nella passione e resurrezione di Gesù. Oltre a ciò, insinua che la vocazione umana fondamentale e primaria è di ricercare il senso dell’esistenza, anche nei suoi aspetti più drammatici, soltanto nel confronto schietto e aperto con Dio. Le imprecazioni che troviamo nei salmi [cfr. Sal 34 (35); 108 (109),6-8; 51 (52),7 ecc.] testimoniano l’esperienza religiosa di sofferenza del fedele che la supera unendo la sua causa personale con quella di Dio. La distruzione del nemico appare giusta perché il nemico del credente è considerato nemico di Dio. L’orante, tuttavia, mai chiede di farsi giustizia con le proprie mani e secondo i suoi criteri, ma chiede a Dio di intervenire, secondo la sua ‘giustizia’. Un cristiano può pregare con questi salmi, perché pregandoli identifica i suoi sentimenti di dolore e di giustizia davanti a Dio al quale affida la sua causa. Il tal modo lasciando la ‘vendetta’ a Dio, esce liberato dal peso che lo schiaccia. I salmi imprecatori danno voce al dolore e alla sofferenza di tanti innocenti e aiutano a essere solidali con quelli che soffrono ingiustizia e non possono esprimere la loro ira.

Da ricordare che

 Il documento della PCB, L’interpretazione delle Scritture afferma che «La Bibbia riflette un’evoluzione morale considerevole, che trova il suo compimento nel NT» (p. 101). Non basta, dunque, che una concezione attestata nell’AT come la schiavitù, il divorzio o lo sterminio sia valida. Occorre un necessario discernimento e le giuste chiavi di lettura che tengano conto del contesto storico -culturale, del genere letterario, dell’ evoluzione morale che si compie nel NT. Gesù stesso ha detto: « E’ stato detto, ma io vi dico» (cfr. Mt 5-7).

sr Filippa Castronovo, fsp

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