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Per crescere

scuolaIl decreto legislativo 0-6 anni, pubblicato il 16 maggio 2017, riafferma innanzitutto il diritto inviolabile all’educazione, che spetta a tutti i bambini senza alcuna discriminazione. Nulla di nuovo: il decreto cita testualmente la Costituzione del 1948. Ma quali passi mette in atto per garantire il diritto riconosciuto?

Innanzitutto si ribadisce che, se il diritto di apprendere spetta al bambino, la responsabilità educativa è della famiglia, che difatti ha un ruolo di co-protagonista. “Diritto di apprendere” e “responsabilità educativa” implicano necessariamente – pena la contraddizione – che alla famiglia sia anche garantita la necessaria libertà di scelta formativa: «Il Sistema integrato di educazione e istruzione […] promuove la qualità dell’offerta educativa avvalendosi di personale educativo e docente con qualificazione universitaria e attraverso la formazione continua in servizio, la dimensione collegiale del lavoro e il coordinamento pedagogico territoriale». Evidentemente, se per un verso non c’è più spazio per una scuola intesa come ammortizzatore sociale, la prospettiva di una scuola di qualità, fondata sulla scelta libera di chi ne fruisce, non può essere ingabbiata nella fascia 0-6 anni… Se alla famiglia del bambino 0-6 anni viene riconosciuta la possibilità di esercitare la propria responsabilità educativa nell’ambito del sistema integrato di educazione e istruzione, quale depotenziamento in umanità o quale cataclisma giuridico impediranno mai alla famiglia del bambino 7-14 anni di vedersi riconosciuto e di esercitare lo stesso diritto? Al compimento del settimo anno si piomba forse nel regno vegetale?

All’art. 2 gli estensori del decreto accantonano ogni timidezza, ribadendo che le scuole dell’Infanzia, in un sistema integrato, sono statali e paritarie. Non c’è spazio per le cosiddette scuole private, spesso accomunate ai “diplomifici”… Anche perchè i bambini di 5 anni non conseguono alcun diploma!

L’art. 4 (Obiettivi strategici del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita fino a sei anni) sottende il concetto di “sostenibilità” e di “ascolto della domanda”. Non sono forse maturi i tempi per pronunciare la parola magica “costo standard di sostenibilità”, ma qualificazione e formazione dei docenti, valorizzazione delle risorse presenti sul territorio e partecipazione delle famiglie sono caratteristiche fondanti di un sistema scolastico integrato davvero efficace.

La riflessione si fa ancora più interessante per il genitore consapevole, potenzialmente libero di scegliere quando si imbatte nell’art. 5 (Funzioni e compiti dello Stato). E’ del tutto evidente a chi abbia un minimo di raziocinio che lo Stato Italiano è, ad oggi, contemporaneamente controllore e gestore del sistema scolastico. Iniqua e non conforme, questa condizione, al sano modello europeo, dove lo Stato controlla e non gestisce. Il genitore consapevole si aspetta invece che lo Stato divenga garante del sistema scolastico integrato, favorendo la buona scuola pubblica, sia statale sia paritaria. Dal presente decreto non risulta essere stato compiuto alcun passo avanti: è proprio impossibile che lo Stato Italiano rinunci al suo ruolo di gestore, potenziando invece il suo apparato di controllo? Il fatto è che la gestione, nel caso dello Stato, paga bene… Per contro, il ruolo degli enti locali viene subito chiarito all’art. 7 (Funzioni e compiti degli Enti locali), dove si rimanda ai comuni, senza che sia del tutto chiaro che, se un sindaco considera nel “sistema integrato” la scuola statale e la scuola paritaria gestita dal comune, per evitare il proprio tracollo economico, oltre che per consentire l’esercizio della libertà di scelta della famiglia, deve necessariamente considerare nell’orizzonte del “sistema integrato” stesso anche la paritaria gestita dai privati. Pena la ricaduta nella malattia di chi gestisce e controlla…se stesso. Sistema “integrato” di che?

L’art. 9 (Partecipazione economica delle famiglie ai servizi educativi per l’infanzia) riporta ai contenuti del saggio Il diritto di apprendere. Nuove linee di investimento per un sistema integrato, ed. Giappichelli: «1. La partecipazione economica delle famiglie alle spese di funzionamento dei servizi educativi per l’infanzia, sia pubblici che privati accreditati, non può superare, complessivamente, il 30 per cento del costo medio del servizio rilevato dall’Ente locale». L’interrogativo è immediato: la differenza chi la paga? Il decreto sembra accennare ad una risposta all’art. 12 (Finalità e criteri di riparto del Fondo Nazionale per il Sistema integrato di educazione e di istruzione): il Fondo nazionale finanzia senza dubbio la scuola pubblica statale negli interventi di ristrutturazione e gestione, come la formazione dei docenti. Ma allora, che sistema integrato è? Si integra con che cosa, se la scuola pubblica paritaria resta nel limbo? E’ un sistema unico, rigido, ingiusto, parente di un regime!

I cittadini consapevoli e responsabili dell’educazione dei figli hanno pagato le tasse: meritano di essere liberi.

Parrebbe uno spiraglio l’affermazione che «sulla base delle richieste degli enti locali, le risorse sono erogate direttamente ai Comuni, con priorità per quelli privi o carenti di scuole statali dell’infanzia». È il Sindaco, insomma, a dover essere così lucido da accedere al fondo, favorendo, in assenza della scuola statale, le risorse territoriali (scuole pubbliche paritarie gestite dal comune o da enti privati). Altrimenti è la fine, per il Sindaco, per il Comune, per il Paese.

In conclusione, il decreto, pur avendo aperto e fissato uno spiraglio sull’evidenza del diritto di educare il proprio rampollo in una pluralità di scelta formativa oltre il sesto anno di età, conferma che il cittadino non può essere né distratto né assente…

sr Anna Monia Alfieri

srmonia@yahoo.it

scuola6La buona scuola pubblica paritaria italiana sta morendo?

In genere il dibattito fra chi discute partendo da opinioni già consolidate sul tema scuole paritarie, oltre a diventare una sterile e inconcludente disputa, si conclude quasi sempre con il trinceramento dietro questi due punti di vista: integralisti laici e cattolici. La verità, purtroppo, è che la buona scuola pubblica paritaria italiana, quella che educa persone che non si fanno esplodere e che non tagliano teste, sia essa di tradizione laica o cattolica, sta morendo. E non è solo un fattore economico, quanto piuttosto di un gigantesco disatteso investimento educativo e culturale. Chi ci governa ripete quasi come un mantra che l’Italia ha bisogno di speranza, ma questa aggiungiamo noi, ha due bellissimi figli: uno è lo sdegno, l’altro è il coraggio. Lo sdegno di riconoscere la realtà, i propri errori e il coraggio per cambiarla. La realtà, e quindi lo sdegno, ci dice che nel 2014 le scuole paritarie coprivano circa un milione di studenti, oggi 980mila su un totale di otto milioni (il 12%), ma costano allo Stato solo l’1% di quanto viene investito nell’istruzione pubblica. E’ bene ricordare che una politica miope, dal fiato corto, incapace di porre al centro lo studente, ha portato nell’ultimo triennio alla chiusura di 580 scuole pubbliche paritarie e alla conseguente perdita di 20 mila allievi della scuola superiore, privando così 75 mila famiglie della libertà di scegliere. Un dato drammatico ma veritiero: l’ISTAT segnala come ci troviamo in coda alla classifica europea nella spesa destinata all’Istruzione in rapporto al PIL, appena il 4.6%, vale a dire poco più di 70 miliardi. Siamo invece al 47° posto, quasi ultimi al mondo tra i Paesi civili in termini di libertà di scelta educativa; ci supera perfino la “ex rossa” Mosca di Putin. Il coraggio invece, ci dice che per comprendere tale sproporzione, dobbiamo ripartire dal concetto di scuola pubblica. La nostra Carta Costituzione all’Art. 33 recita: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato, il cui naturale compimento lo troviamo all’ Art. 30 là dove viene affermato che “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli”. La legge quindi, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare alle famiglie che le scelgono (essendo pubbliche) piena libertà, cioè un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole pubbliche statali. La scuola deve essere pubblica, nel senso che il sistema della Pubblica Istruzione deve garantire un servizio per tutti e di qualità, volto alla promozione e allo sviluppo della persona. La realtà purtroppo ci dice che lo Stato italiano ha ridotto in così tale schiavitù i propri cittadini, da essere oramai incapaci di rivendicare il loro diritto costituzionale, non solo di poter mettere al mondo dei figli e di essere quindi madre e padre, ma di scegliere liberamente come educarli. È l’altra faccia della “Buona scuola” di Renzi, che colpisce le scuole paritarie dopo averle praticamente ignorate (nella Legge 107 la parola “paritaria” compare solo due volte in 212 commi, nonostante la parità scolastica della legge Berlinguer del 2000), evidenziando una scuola statale (41mila sedi in Italia), intesa come gestita direttamente dallo Stato, talmente degenerata da costringere le famiglie a pagare delle tasse mascherate (“contributo volontario”) pur di consentire ai propri figli di frequentare una classe in condizioni igieniche e di sicurezza più o meno accettabili. Eppure gli esempi non mancano, ci sono casi in Europa, anche in Paesi a forte tradizione statalista – la Francia – o socialista – i Paesi scandinavi – in cui le scuole paritarie pubbliche non statali eguagliano o superano in percentuale quelle di origine Statale. Anche perché allo Stato non conviene gestire Scuole, mentre deve controllarle. In questi sistemi il principio della libertà educativa viene rispettato e innesca un processo virtuoso di ricerca continua della qualità dell’insegnamento, a beneficio in primis di bambini e studenti. Questa, oltre la garanzia della libertà di scelta della famiglia, dovrebbe essere la vera emergenza che lo Stato è chiamato ad affrontare. Ci si domanda quale tasso di civiltà possa pretendere un Paese che ha generato un sistema scolastico classista, regionalista e discriminatorio. Il sistema è classista nella misura in cui i poveri non possono scegliere come educare i propri figli; regionalista nel momento in cui andando a spulciare i dati OCSE ci accorgiamo che regioni come la Lombardia, il Veneto sono molto avanti in termini di lettura, capacità di apprendimento, mediazione linguistica, e agli ultimi posti troviamo la Campania e Sicilia. Questione Meridionale irrisolta. Occorre essere fortunati a nascere in una famiglia ricca e anche nella Regione giusta. Infine il sistema è discriminatorio perché discrimina i docenti che non possono scegliere se insegnare tra una buona Scuola Pubblica Statale, e una buona Scuola Pubblica Paritaria, perché a parità di titolo conseguito (abilitazione) e di contesto lavorativo (scuola pubblica), il servizio degli uni è depotenziato (in base a che cosa?) rispetto a quello degli altri. Come dire: un Primario del S. Raffaele ha meno chances, a parità di titoli, di un Primario del Policlinico di Milano in un concorso pubblico. Se poi non si vuole considerare il problema nella sfera del diritto (nel senso: nessun interesse per la libertà di scelta dei genitori. E sarebbe comunque mostruoso), allora che lo si faccia almeno in quella dell’economia e della spesa pubblica. Non possiamo pensare di risolvere un problema con la medesima logica che lo ha prodotto; pertanto occorre superare il “vincolo economico” che la Legge 62/2000, come la Legge 107/2015, troppo timide, non hanno saputo affrontare. È un dato di fatto: la comunità nazionale con la presenza degli istituti non statali paritari risparmia 5 miliardi e 600 milioni di euro. Se infatti in Italia venisse applicato il sistema del costo standard di sostenibilità per tutti gli 8.908.102 studenti (totale degli studenti che oggi frequentano la scuola statale e paritaria) con la compartecipazione delle famiglie secondo ISEE (come per la sanità) la Spesa Pubblica totale si assesterebbe intorno a € 28.347.989.316,26, ben al di sotto della spesa che oggi sostiene, pari a € 55.169.000.000,00. Risparmi da poter destinare al migliore funzionamento delle scuole, dalla didattica alle infrastrutture. Ed è una buona notizia che il Presidente del Consiglio stesso abbia dichiarato l’urgenza di una soluzione al problema di migliaia di bambini e studenti delle scuole paritarie, che rischiano di trovarsi a casa, senza un’alternativa per la propria istruzione. Ma la gente che ragiona e che lavora è stanca di promesse, di parole non mantenute: affinchè uno Stato di Diritto si possa definire tale, deve essere capace di garantire i diritti che egli stesso riconosce, altrimenti Stato di Diritto non è. Uno Stato che sia garante, controllore e non gestore, secondo lo spirito della Carta Costituzionale, perché non vi potrà mai essere nessuna forma di responsabilità senza una piena libertà del cittadino. Occorre pensare a un progetto di ampio respiro, trasversale tra le forze politiche e i cittadini della Res-Pubblica, che sostenga il percorso formativo delle nuove generazioni dai 3 ai 19 anni, e che rimetta al centro lo studente ridando fiducia alla Famiglia, l’unica in grado di scegliere l’educazione per i propri figli. Questa è la vera grande sfida per il Governo: una battaglia trasversale di civilità. La politica dei “passettini”, quella dei fondi insufficienti per i bambini disabili (mille euro all’anno, quando ne occorrono 24mila…), quella dei ridicoli sgravi fiscali alle famiglie per le spese scolastiche, oppure quelle di contenimento “random” della spesa per l’educazione, sono rivelatrici di un affanno che vuole mascherare le radicali necessità di rifondazione del sistema con un “buonsenso” che di certo, purtroppo, porterà al tracollo del sistema stesso. La reale innovazione di cui il nostro sistema scolastico ha bisogno non può che derivare dall’affermazione di una nuova e lungimirante politica per la scuola, nella quale non ci sia posto per la distribuzione di mance a pioggia come gli ultimi 100 milioni suddivisi per disabili, materne paritarie e detrazioni, promessi nel DEF, ma che preveda una reale funzione sussidiaria dello Stato in ambito scolastico. Piaccia o no, questo non è più il tempo delle “pezze a colori”.

sr Anna Monia Alfieri

srmonia@yahoo.it

 

scuola1La donna oggi al centro della società e nella scuola

 Suor Anna Monia, Lei è considerata una paladina della libertà di scelta educativa della famiglia, una delle voci più autorevoli nel panorama scolastico italiano oggi, libera da pregiudizi e conformismi, ma schierata. Lei stessa dichiara: «Io sto dalla parte dello studente, che viene costantemente discriminato». Possiamo sicuramente affermare che, lungo questi anni, non si è negata a nessuno: è pubblicata da tutte le testate giornalistiche laiche ed ecclesiali, ma anche da quelle più ostili, perché qualcuno dice di Lei che è disarmante e rispettata.

Parla con la Destra e con la Sinistra, con i giornalisti, con i sindacati e con la gente, senza il rischio di essere strumentalizzata o usata. Insomma, per Lei occuparsi di qualunque studente, anche di quello che vive nel comune più disperso dello Stivale, ha lo stesso peso.

 Nel 2017, molte testate giornalistiche hanno scritto di Lei: Suor Anna Monia Alfieri ha caratterizzato il dibattito sulla scuola di questo 2016. Combattiva e tenace, ha portato avanti una grande battaglia, fatta di proposte sul sistema globale scuola. Ha lanciato il “costo standard di sostenibilità”, una soluzione per porre al centro lo studente e per far risparmiare l’intero sistema scolastico italiano. Nell’ultimo periodo è stata, se non la maggiore, la più combattiva protagonista del dibattito sulla scuola. Schierata a favore dello studente, della libertà di scelta educativa dei genitori e dei buoni docenti”. 

Sappiamo anche della Sua riservatezza, che la fa apparire una persona schiva. Allora osiamo il tempo di un’intervista. Lei compie nella più assoluta normalità questa “battaglia di civiltà”, pur (o forse soprattutto) essendo una donna.

 Oggi la donna è al centro della società. Ha modificato il suo ruolo e i suoi compiti?

Credo che la donna abbia sempre avuto un ruolo centrale nella società. Ricordiamo che i fondatori di tantissime congregazioni hanno pensato alla donna come Educatrice, capace di formare i propri figli perché potessero cambiare la società dal di dentro, criticandola in modo costruttivo. Dunque, la donna è da sempre al centro della società. Probabilmente, a volte lei stessa e gli altri non sono stati capaci di riconoscerle questo ruolo fondamentale, che non è di comando o di sopraffazione, ma di servizio. Il vero problema è che, nella moderna società della globalizzazione, non vediamo più il ruolo come un servizio, ma come un potere. Lo dimostra anche lo scenario fatto di querelles veramente deludenti cui quotidianamente siamo costretti ad assistere. Il ruolo della donna certamente oggi è cambiato. Io ho 41 anni e ricordo che il ruolo di mia nonna era quello di accudire e custodire la famiglia; il ruolo di mia madre, che già apparteneva a una generazione differente, era sì di aver cura della famiglia, ma anche di aprirla alla società, intessendo relazioni sane e mature. Penso che il ruolo della donna oggi sia quello di essere nella società un fuoco vivo, capace di educare i figli (non solo quelli naturali, ma l’essere umano in generale); una figura integra e forte, in grado di affermarsi per le proprie idee, mettendosi sempre dalla parte del più debole. Ci sono donne che meritano il nostro plauso, perché hanno segnato la storia: pensiamo a Rita Levi Montalcini, alla Montessori, a Rosa Parks.

Sono donne meravigliose, e certamente il compito della donna è questo. Spesso i talk-show ci restituiscono diatribe inutili sulla donna, ma la donna è simpatica, sa affermarsi per il suo senso dell’ironia, per un’intelligenza scaltra, per un senso di autonomia, per la capacità di segnare positivamente la nostra società. Non ho mai creduto alle “quote rosa”, perché ritengo che siano la sconfitta più grande per la donna. Non mi sono mai chiesta se l’uomo lasci o meno spazio alla donna (o viceversa): non è una guerra fra le parti. Piuttosto, chiedo alla donna la capacità di riuscire ad affermare le proprie idee al servizio della società, cambiandola dal di dentro, perché sono delle buone idee.

Vede, quando qualcuno si batte per delle idee, ma poi cede, significa sempre che o non valevano nulla le sue idee o non valeva nulla lui. Credo che la donna oggi abbia un ruolo importantissimo. Dovremmo prendere le distanze dalla visione della donna come qualcosa da riscattare, da difendere: anche questo, infatti, è ridurla ad un oggetto e porla in secondo piano. Penso che la via maestra sia sempre quella dell’equilibrio, della normalità. Ci avviciniamo alla Festa della Donna: diamole un significato bello, positivo. La donna ha un ruolo fondamentale, che mai nessuno le potrà togliere: è madre, dà la vita. Dà la vita quando partorisce, naturalmente o anche moralmente. Rosa Parks, ad esempio, ha partorito la salvaguardia del diritto delle pari opportunità, sanando l’apartheid.

Nei ruoli istituzionali, spesso la donna viene “utilizzata”, o nel bene (progresso, sviluppo) o nel male (errori, malgoverno). Quale la strada giusta?

Sì, è così: nei ruoli istituzionali, spesso la donna viene “utilizzata”, perché facciamo ancora fatica a prendere le distanze da una cultura del pregiudizio, una cultura che guarda il contenitore. Le confido, proprio per la fiducia che nutro per lei e per i suoi lettori, un accadimento degli ultimi giorni. È venuto a trovarmi un signore, proponendomi un’attività per le scuole, e mi ha detto: “Guardi, io ero curioso di conoscerla, perché mi ha affascinato il fatto che il Presidente FIDAE Lombardia fosse una donna”. Quell’affermazione non mi ha fatto del male, ma mi ha permesso di fare le mie valutazioni sull’interlocutore. In un’Italia in cui i docenti non vogliono essere valutati, la valutazione è necessaria! I problemi istituzionali e di governo dell’Italia non sono certamente riconducibili a una donna o alle donne, ma piuttosto alla brutta abitudine tutta italiana di autocandidarsi, autoeleggersi, autodimettersi, autoproclamarsi… Abbiamo perso, invece, la capacità di farci valutare, di farci scegliere.

 La donna può rappresentare una chiave di volta in questa situazione, se riuscirà ad affermarsi e – proprio in quanto è madre e dà la vita, come dicevo prima – a maturare un senso di autocritica e anche di critica costruttiva verso la società. Samantha Cristoforetti è andata sulla Luna e ha segnato una tappa, ma molta dell’attenzione riversata su di lei era dovuta al fatto che è una donna: se fosse stata un uomo, ci sarebbe parso un fatto normale, non straordinario. Dunque, sta anche alla capacità di noi donne far emergere anzitutto il positivo delle buone idee ed affermarle al servizio della società. Mi stupisco, ormai da tanti anni, che nei nostri partiti non ci sia una donna capace di emergere come premier: è terribile. La domanda è: sono gli uomini che non lasciano questo spazio oppure è la donna a non essere capaci di affermarsi? Ho sempre avuto la volontà di mettere in chiaro le posizioni e di non cedere alla trappola della strumentalizzazione, rifiutando anche inviti in trasmissioni televisive che mi avrebbero permesso di parlare della libertà di scelta della famiglia e del pluralismo educativo, ma che – lo capivo – non avrebbero dato la giusta attenzione a questi importantissimi temi, ma avrebbero spostato l’attenzione su altro.

Una donna che ha una buona idea ha una marcia in più, perché ha la capacità di dire dei “no” (anche qualora gli eventuali “sì” facciano balenare la possibilità che l’idea passi). In questa sgradevole situazione, in cui istituzioni e governi sono presi da tristi querelles (mentre ci sono cittadini che non trovano lavoro, c’è gente che muore di fame, ci sono volontari che portano da mangiare ai profughi e ai senzatetto nelle stazioni…), mi auguro che emerga una donna coraggiosa, audace, intelligente e forte; capace di essere quella donna che nell’Ottocento uomini illuminati hanno visto come colei che sarebbe stata in grado di cambiare la società (e molte donne dell’Ottocento l’hanno fatto); capace di affermarsi nella nostra società conducendola, guidandola. Ci vuole una marcia in più, perché ci ha proprio stancato dover continuamente assistere a dissertazioni sterili e puerili, che appaiono discussioni di adolescenti e richiamano tantissimo la canzone “Vengo anch’io! No, tu no!”. Chissà che non sia la volta buona. Chissà che non emerga una donna capace di riscattare la società italiana, ristabilendo una Repubblica in grado di garantire i diritti che riconosce. Ecco, questo è il mio auspicio. Sono abituata non a dire che sono gli altri a precluderci gli spazi, ma piuttosto a considerare la mia capacità o meno di affermare le buone idee.

Così guardo alla donna, e so che oggi ci sono tantissime donne potenzialmente capaci di affermare le loro buone idee. Mi auguro che questo avvenga.

Nella scuola, la figura femminile è prevalente come numero di presenze, anche nei ruoli dirigenziali. Ma non tutte le dirigenti sanno utilizzare questo ruolo e compito, a scapito dell’immagine della donna, che assume connotazioni negative.

Sì, effettivamente la scuola è popolata maggiormente dal mondo femminile, perché esso ha di per sé la capacità di educare. Il ruolo dei docenti e dei dirigenti è fondamentale, perché possono contribuire a far maturare nei nostri ragazzi una coscienza critica capace di cambiare il mondo dal di dentro. Tuttavia, non saprei dire se oggi i dirigenti scolastici, donne e uomini, riescano o meno a vivere questo ruolo come servizio.

È noto come la penso: noi abbiamo una scuola che è considerata un ammortizzatore sociale. La buona scuola la fanno i buoni docenti, però i docenti non accettano la valutazione… D’altra parte, li abbiamo ingannati per anni, facendo laureare e aprendo poi concorsoni e TFA che sono andati ad allargare le GaE, che poi abbiamo dovuto svuotare: quindi è seguita l’“infornata” di centomila docenti, con i dirigenti che hanno ricevuto docenti in sovrannumero di cattedre e docenti che sono stati messi in segreteria, etc.

Le famiglie, che vedono mancare per i loro figli l’insegnante di una certa materia, che vedono il continuo cambiamento dei docenti e però dieci persone in segreteria, si domandano come mai. C’è perfino il caso di un docente che dichiara: “Io vengo pagato senza poter insegnare, perché non ho la cattedra”.  Se non smettiamo di considerare la scuola un ammortizzatore sociale e non mettiamo davvero al centro lo studente, permettendo alla famiglia di scegliere tra una buona scuola pubblica statale e una buona scuola pubblica paritaria, sotto lo sguardo garante dello Stato e con le leve della meritocrazia, della valutazione e del costo standard di sostenibilità (quindi a costo zero), non potremo mai capire se i dirigenti utilizzano bene o male la loro posizione come servizio.

Colgo l’occasione di questa intervista per chiedere a tutte le donne che vorranno leggerla, al Presidente della Repubblica, che è un uomo, al Premier, che è un uomo, alla Ministra, che è una donna, e peraltro sensibile a questi temi, ai sindacati, popolati da uomini e da donne, ai giornalisti, che non mi hanno mai negato il supporto in questa denuncia: come è possibile accettare ancora oggi il fatto che l’Italia è al 47° posto al mondo? Cioè che a Mosca e nella laica Francia si può scegliere tra la buona scuola pubblica statale e paritaria e in Italia no?

E questo nonostante la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, la Costituzione, la Legge 62, il buon senso. Noi discriminiamo questi bambini! Diciamo che il bambino ha il diritto di apprendere e la famiglia ha la responsabilità educativa; diciamo (poiché siamo una Repubblica) che può scegliere… Però, di fatto, non può farlo, perché nella scuola statale apparentemente non paga nulla, ma poi deve portare la carta igienica e la risma di carta, cadono i tetti e mancano i docenti; nella scuola paritaria, invece, deve pagare una seconda volta dopo aver pagato le tasse. Qui davvero ci vorrebbe una donna, una Rosa Parks che “si sieda” sulle sedie della scuola statale e della scuola paritaria e pretenda la garanzia di questi diritti. È qui che deve emergere una donna! Ricordiamo che la Festa della Donna è nata perché delle donne hanno dato la vita.

Qui ci vorrebbe davvero la sensibilità delle donne, il loro battersi per le pari opportunità, per sanare qualsiasi tipo di discriminazione. Da anni io denuncio questa del mondo della scuola, proponendo peraltro una soluzione, il costo standard di sostenibilità, resa nota al Governo Renzi e ora nelle mani del Governo Gentiloni e della Ministra Fedeli. Il costo standard di sostenibilità è già facilmente applicato nella sanità… Ironia della sorte: posso scegliere dove curarmi e dove morire, ma non dove farmi educare! Si tratta di una discriminazione gravissima, che consegno alle donne: per questo bisognerebbe battersi! Perché, se noi non siamo uno Stato capace di garantire i diritti, i nostri giovani non si riconosceranno soggetti di diritti e di doveri e, dunque, non riconosceranno neppure l’altro come soggetto di diritti e di doveri, e ne faranno ciò che vogliono. Abbiamo assistito ad eventi tragici, dove abbiamo visto donne capaci di rialzarsi con dignità, con eleganza, con coraggio, senza odio, ma in modo costruttivo. Mi piace ricordare Lucia Annibali, che ha saputo trasformare la tragedia di un soggetto incapace di riconoscere in se stesso e nell’altro un soggetto di diritto in una rinascita per sé e per tanti. Non dimentichiamo simili tragedie e rifuggiamo dal trasformarle in fenomeno, perché, così facendo, rischiamo di sentirci tutti assolti, cosa che non deve avvenire: ciascuno di noi è responsabile di quanto accade e, a volte, il nostro silenzio contribuisce molto ad alimentare certe discriminazioni.

La sensibilità è una dimensione che nelle donne dovrebbe prevalere: quando ciò non avviene, crolla un ideale. Ci sono, anche a scuola, donne asciutte, prive di vitalità e di sorriso. Sono donne insoddisfatte, che non sono capaci di donare e non hanno nulla da dare…

La sensibilità della donna è fondamentale, perché la donna, in quanto educatrice, riesce a raggiungere più facilmente i nostri studenti. Ognuno di noi, nella vita, ha fatto esperienza di figure asciutte: accanto a chi ha segnato la nostra storia in positivo, c’è anche chi l’ha segnata negativamente. Anch’io ricordo che a scuola, accanto a figure che mi hanno affascinata a Dante, Manzoni, Leopardi, ho incontrato figure che mi hanno fatto prendere le distanze dalla geografia. Sembra una banalità, ma, quando abbiamo un ruolo, dovremmo porci nella capacità di servizio (e non di servircene).

Ai giovani dico questo: nella vita possiamo fare esperienza di figure positive e negative, ma la nostra capacità di rielaborare queste due esperienze ci rende uomini e donne migliori. Ci sono ferite che probabilmente porteremo con noi per sempre, ma noi non siamo le nostre ferite, le nostre sconfitte, così come non siamo i nostri successi: noi siamo una realtà molto più complessa. Ecco perché vorrei che ciascuno guardasse alla realtà dell’altro in un modo sempre più complessivo, mai parziale. Nell’epoca del social network, probabilmente tutto questo stona. Il cyberbullismo, ad esempio, è un reato importante: vittima è chi lo subisce, ma anche chi se ne macchia. In tutto ciò, qual è il ruolo degli adulti? Credo che Rai Parlamento sia la pagina più diseducativa che ci sia: frequento le scuole da anni e non ho mai visto aule dove si verifichino simili scene di indisciplina (un allievo riceve una nota per molto poco, e la sospensione per ancor meno)! Quindi dovremmo cominciare, forse, da noi adulti. Parlo spesso della politica, perché la ritengo un’arte nobile e non perdo la speranza che recuperi questo suo valore, che la pone al servizio della società, abbandonando lo strano populismo fatto di una critica che non porta ad alcuna soluzione, le diatribe adolescenziali, le pagine di indisciplina scolaresca, dove la campanellina deve richiamare all’ordine. Se noi adulti riuscissimo a guardare alla realtà in un modo più complessivo e alla parola nel suo giusto significato, probabilmente scriveremmo delle pagine migliori anche per i nostri studenti e saneremmo molte piaghe. Le figure tiepide, che non ci dovrebbero essere, ci sono e ci saranno sempre, ma guardiamo a queste esperienze come a un trampolino di lancio e in un modo più complessivo.

 Giuseppe Adernò

 

civiltà1Una battaglia trasversale di civiltà

In genere il dibattito fra chi discute partendo da opinioni già consolidate sul tema scuole paritarie, oltre a diventare una sterile e inconcludente disputa, si conclude quasi sempre con il trinceramento dietro questi due punti di vista: integralisti laici e cattolici.

La verità, purtroppo, è che la buona scuola pubblica paritaria italiana, quella che educa persone che non si fanno esplodere e che non tagliano teste, sia essa di tradizione laica o cattolica, sta morendo. E non è solo un fattore economico, quanto piuttosto di un gigantesco disatteso investimento educativo e culturale. Chi ci governa ripete quasi come un mantra che l’Italia ha bisogno di speranza, ma questa aggiungiamo noi, ha due bellissimi figli: uno è lo sdegno, l’altro è il coraggio. Lo sdegno di riconoscere la realtà, i propri errori e il coraggio per cambiarla. La realtà, e quindi lo sdegno, ci dice che nel 2014 le scuole paritarie coprivano circa un milione di studenti, oggi 980mila su un totale di otto milioni (il 12%), ma costano allo Stato solo l’1% di quanto viene investito nell’istruzione pubblica. E’ bene ricordare che una politica miope, dal fiato corto, incapace di porre al centro lo studente, ha portato nell’ultimo triennio alla chiusura di 580 scuole pubbliche paritarie e alla conseguente perdita di 20 mila allievi della scuola superiore, privando così 75 mila famiglie della libertà di scegliere.

Un dato drammatico ma veritiero: l’ISTAT segnala come ci troviamo in coda alla classifica europea nella spesa destinata all’Istruzione in rapporto al PIL, appena il 4.6%, vale a dire poco più di 70 miliardi. Siamo invece al 47° posto, quasi ultimi al mondo tra i Paesi civili in termini di libertà di scelta educativa; ci supera perfino la “ex rossa” Mosca di Putin.

La realtà purtroppo ci dice che lo Stato italiano ha ridotto in così tale schiavitù i propri cittadini, da essere oramai incapaci di rivendicare il loro diritto costituzionale, non solo di poter mettere al mondo dei figli e di essere quindi madre e padre, ma di scegliere liberamente come educarli.

È l’altra faccia della “Buona scuola” di Renzi, che colpisce le scuole paritarie dopo averle praticamente ignorate (nella Legge 107 la parola “paritaria” compare solo due volte in 212 commi, nonostante la parità scolastica della legge Berlinguer del 2000), evidenziando una scuola statale (41mila sedi in Italia), intesa come gestita direttamente dallo Stato, talmente degenerata da costringere le famiglie a pagare delle tasse mascherate (“contributo volontario”) pur di consentire ai propri figli di frequentare una classe in condizioni igieniche e di sicurezza più o meno accettabili. Eppure gli esempi non mancano, ci sono casi in Europa, anche in Paesi a forte tradizione statalista – la Francia – o socialista – i Paesi scandinavi – in cui le scuole paritarie pubbliche non statali eguagliano o superano in percentuale quelle di origine Statale. Anche perché allo Stato non conviene gestire Scuole, mentre deve controllarle. In questi sistemi il principio della libertà educativa viene rispettato e innesca un processo virtuoso di ricerca continua della qualità dell’insegnamento, a beneficio in primis di bambini e studenti.

Questa, oltre la garanzia della libertà di scelta della famiglia, dovrebbe essere la vera emergenza che lo Stato è chiamato ad affrontare. Ci si domanda quale tasso di civiltà possa pretendere un Paese che ha generato un sistema scolastico classista, regionalista e discriminatorio.

sr Anna Monia Alfieri

srmonia@yahoo.it

Il punto. Di non ritorno

La famiglia italiana attende, dal 1948 ad oggi, che le venga garantito il diritto alla libertà di scelta educativa.scuola3

La famiglia può scegliere di ricoverare il nonno al San Raffaele pagando un ticket; non può scegliere di educare il nipote presso una buona scuola pubblica paritaria, perché i genitori, con il loro lavoro, non possono pagare e le tasse e la retta che fa funzionare la scuola. La famiglia povera deve iscrivere il pargolo alla scuola pubblica statale, cioè non è libera di scegliere tra “le due gambe del Sistema Nazionale di Istruzione”, come ha affermato, ad effetto e con verità, il ministro Giannini, donna còlta e non inquinata dagli intrallazzi della politica. Durante il dibattito sulla fiducia al governo Gentiloni, un parlamentare ha sostenuto con convinzione che nessun governo come l’ultimo si è prodigato per la libertà di scelta educativa della famiglia. Certamente, di fronte all’evidenza di un risparmio di 17 miliardi di euro all’anno attraverso l’attivazione del costo standard per alunno, qualche sopracciglio si è alzato; ma al momento resta il fatto incontrovertibile che il povero non può scegliere, peggio se ha il figlio portatore di h. I cento euro scarsi di detrazione annui e i mille euro per il sostegno del figlio disabile (a fronte dei 25 mila necessari per il docente ad hoc) denunciano quella che è stata definita la più grave ingiustizia a cui deve sottostare la famiglia italiana, facendo risultare il Paese al 47° posto al mondo in termini di “garanzia” dell’esercizio alla libertà di scelta educativa dei genitori. In Francia il genitore povero sceglie, come pure nei Paesi dell’ex URRS. In Italia no.

Matteo Renzi, il il 18 novembre u.s., durante la presentazione del bilancio dei mille giorni dell’esecutivo da lui guidato, ha affermato: “Ho tanti rimpianti, uno è la scuola.  A differenza dei governi precedenti abbiamo messo tre miliardi nella scuola. Nonostante questo siamo riusciti a fare arrabbiare tutti. Evidentemente qualcosa non ha funzionato”. Non bastavano i tre miliardi spesi, per risolvere il problema. Occorreva risparmiarne diciassette, come si chiarirà a seguire.

Lo scopo è far finalmente  funzionare meglio la scuola pubblica, sia statale che paritaria. Ma occorre avere le idee chiare, partendo dalla legge fondamentale dello Stato. L’art. 3 della Costituzione recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini (…)”

Ebbene, questa uguaglianza non è “concessa” ai genitori che scelgono di iscrivere i loro figli in quelle scuole che la legge 62/2000 ha dichiarato “pubbliche” paritarie, equiparandole in tutto alle statali, esclusa la parte economica.

Gli aggettivi “pubblico” e “statale” non sono sinonimi. Ciò che è “pubblico”, non è necessariamente “statale”. Il San Raffaele è “pubblico”, ma non “statale” (per sua fortuna, direbbero i maligni).

Le famiglie a basso reddito, ma ad alta aspettativa di bene per i propri figli, sono costrette a pagare una retta, dopo aver già contribuito alla spesa scolastica dello Stato mediante le tasse. Insomma devono pagare due volte per esercitare il loro diritto di libera scelta, nonostante la Costituzione reciti: “La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali (art. 33, comma 4).

Concetto ribadito dalla risoluzione del Parlamento Europeo del 14 marzo 1984 che all’art 7 afferma: “La libertà di insegnamento e di istruzione comporta il diritto di aprire una scuola e svolgervi attività didattica. Tale libertà comprende inoltre diritto dei genitori di scegliere per i propri figli, tra diverse scuole equiparabili, una scuola in cui questi ricevano l’istruzione desiderata.” E all’art. 9 leggiamo, dal punto di vista del docente: “Il diritto alla libertà d’insegnamento implica per sua natura l’obbligo per gli Stati membri di rendere possibile l’esercizio di tale diritto anche sotto il profilo finanziario e di accordare alle scuole le sovvenzioni pubbliche necessarie allo svolgimento dei loro compiti, all’adempimento dei loro obblighi in condizioni uguali a quelle di cui beneficiano gli istituti pubblici corrispondenti, senza discriminazione nei confronti degli organizzatori, dei genitori, degli alunni e del personale”. Affermazioni riproposte dallo stesso Parlamento Ue con la risoluzione dell’ottobre 2014.

 Non si chiedono dunque finanziamenti aggiuntivi per le scuole paritarie: lo Stato non potrebbe erogarli, perché il Welfare fa sempre più fatica a sostenere la spesa sociale. E’ necessario invece applicare il principio di sussidiarietà per spendere meglio e di meno.

  L’unica soluzione per risolvere il problema della scuola pubblica – statale e paritaria – italiana è il costo standard di sostenibilità. Lo dimostra scientificamente – dati alla mano – il saggio “Il diritto di apprendere. Nuove linee di investimento per un sistema integrato”, ed. Giappichelli, 2015, di Alfieri, Grumo, Parola, con la prefazione del già Ministro all’Istruzione Stefania Giannini.

La proposta prevede che lo Stato ponga al centro dell’attenzione lo studente. Individui un costo standard di sostenibilità e lo applichi a ogni allievo della scuola italiana, sia statale che paritaria. In pratica, dotando ogni alunno di un cachet da spendere nell’istituto che intende scegliere, si realizzerebbe finalmente il pluralismo educativo dando così alle famiglie la possibilità di decidere fra una buona scuola pubblica statale e una buona scuola pubblica paritaria; lo Stato risparmierebbe fino a 17 miliardi (!) di Euro  sull’attuale spesa scolastica; si attiverebbe infine una sana concorrenza tra le scuole, mirata al miglioramento dell’offerta educativa. L’alternativa dei finanziamenti a pioggia rappresenta il tracollo economico non solo della scuola pubblica statale, ma anche della pubblica paritaria. Tertium non datur.

sr Anna Monia Alfieri

srmonia@yahoo.it

La non violenza: stile di una politica per la pace

paceLa non violenza: stile di una politica per la pace, tema scelto da Papa Francesco per la Giornata della Pace 2017, indica la pace come fondamento di una società –  nazionale che internazionale – nella quale vengano rispettati i diritti della vita, l’accettazione della diversità, l’uguaglianza tra gli uomini di ogni età, categoria sociale, religione; in cui venga salvaguardata la natura di ogni vivente, sia esso uomo o animale.

Costruire la società sulla pace

La pace e la violenza affondano le radici nel cuore umano. Se la prima è da coltivare, alimentare ed estendere, la seconda è da combattere ed estirpare. Sempre e dovunque. A partire dalla propria esistenza; a partire dalla famiglia, cuore pulsante della società.

 “La pace e la violenza sono all’origine di due opposti modi di costruire la società” (cf  Messaggio). Se la violenza è all’origine di sopraffazioni, di lotte e violenze, di guerre e morti, la pace è in grado di offrire e coltivare relazioni di rispetto, di accoglienza, di dialogo, di collaborazione.

Punto l’obiettivo della macchina da presa su quanto oggi stiamo vivendo, alla violenza che alberga nell’animo umano, ai focolari di guerra che si accendono e fioriscono nelle famiglie e nelle varie nazioni, spesso alimentati da interessi celati di potere e di dominio. Passano le immagini: sono volti di persone, bimbi denutriti e abbandonati, corpi massacrati, case e i paesi distrutti. L’obiettivo riprende altre scene: persone curve su chi chiede aiuto, mani e sguardi che si incrociano…  Rivedo le immagini e le scene. Sono un invito alla riflessione, a un impegno sincero e duraturo.

Il Messaggio di papa Francesco ci aiuta e ci accompagna in questa riflessione. Egli ha una visione globale del mondo, di quanto esiste e vibra in esso, delle conseguenze nefaste della violenza su persone e popoli indifesi, dell’incapacità di amministratori – locali, nazionali e internazionali – a far rispettare la dignità e la libertà, i diritti inalienabili della persona e dei popoli; a combattere la povertà, lo sfruttamento del suolo e delle persone. E invita a un cambiamento di rotta, a impugnare le armi della pace, impegnandosi a favore di quanti hanno fame e sete di giustizia, di verità e di amore fraterno. La pace è un diritto da alimentare, proteggere e difendere. E’ un diritto della persona come del gruppo sociale e di un popolo. Un diritto che le famiglie, la scuola, i governi hanno il dovere di salvaguardare, e di opporsi a quanti tentano di distruggerlo. Essa “ha conseguenze sociali positive, e consente di realizzare un vero progresso” (cf Messaggio).

Educare alla non violenza

Di fronte ai molteplici scenari di guerre, alle innumerevoli violenze nei confronti di donne e bambini, agli stupri e ai femminicidi, alle torture e all’istigazione alla violenza, di fronte al commercio – spesso clandestino – di armi e di droga, la domanda è d’obbligo: perché tanta violenza? Come si può arginare questo cancro della società? Una prima risposta arriva dall’opera educativa, quindi dalla scuola. Ma non solo! Prima della scuola e a supporto della scuola c’è l’opera importantissima del focolare domestico.

Educare alla pace implica e suppone l’eliminazione della violenza; equivale a educare alla ‘non violenza’. E’ stato scritto: “La non violenza è politica e la politica è non violenza”. La non violenza è un metodo di “lotta politica” pacifica e pacifista: consiste nel rifiuto di ogni atto di violenza.

La politica, avendo a cuore il bene comune e la costruzione della società, nasce come argine a ciò che vi si ostacola.  Suo è il compito di assicurare la possibilità di avere quanto è necessario per la propria crescita fisica, intellettuale, etica, morale, spirituale, e di guardare al futuro con fiducia e speranza. Solo governando il dominio dell’uomo sull’uomo, di un popolo su un altro, è possibile immaginare e costruire un futuro per l’umanità.

Sovente la politica ha dimenticato la sua nobile natura e si è fatta essa stessa violenza, dominio; ha creato lotte sociali, imperialismo; ha perseguitato lo straniero, ha innalzato muri, ha creato camere a gas, bomba atomica e armi di distruzione sempre più nocive per l’uomo e la natura. E non raramente la politica ha addormentato le coscienze, presentando come difesa lecita atti di vero dominio e violenza. C’è bisogno del risveglio delle coscienze, di aprire gli occhi e il cuore davanti a quanto accade accanto a noi, nella nostra società e fuori dei nostri confini: le molteplici guerre dimenticate, o non conosciute, in Africa, in Asia, in America Latina, sono un pressante invito alla politica e a ognuno di noi a non dimenticare, ad agire!

Il principio del rifiuto della violenza – respiro di ogni pagina del Vangelo è stato caldeggiato, vissuto e suggerito da Mahatma Gandi, e da Martin Luter King.

Gandi scrisse: “Tre quarti delle miserie e delle incomprensioni del mondo scompariranno se riusciremmo a metterci nei panni dei nostri avversari e comprendere il loro punto di vista. Potremmo venire rapidamente a un accordo con i nostri oppositori o avere nei loro panni un atteggiamento di carità”. E la carità, scriveva san Paolo, è benigna, tutto scusa, tutto sopporta; la carità sa comprendere e perdonar, ma sa anche essere forte con chi la combatte e la calpesta; sa accogliere il povero e il rifugiato; sa intraprendere scelte coraggiose per salvaguardare i diritti di tutti e “ottenere la risoluzione di controversie attraverso il negoziato” (cf Messaggio) sia che si tratti di controversie personali che sociali, politiche e religiose. Educare alla nonviolenza è educare alla pace, ed è cammino sicuro per costruire la pace.

 sr anna pappalardo

 

Il valore del non detto

È una disciplina interiore

 silenzio1L’abate Arsenio diceva d’essersi pentito spesso d’aver parlato, e mai d’aver taciuto. Intendeva che il silenzio è una disciplina interiore alla quale va prestata attenzione. Dice santa Teresa: «È grave colpa quando una sorella

abitualmente non osserva il silenzio». I mezzi di comunicazione di massa ci sottopongono a quella che potremmo chiamare un’«alluvione di parole». Esiste un consumismo di parole: parole dolci, seduttive, oggettive, colleriche…

di ogni tipo. Parole che cercano di entrarci rumorosamente nel cuore e non apportano niente alla verità. La Parola ha creato l’universo, la Parola di Dio, che ha detto e tutto fu fatto. La parola che usiamo è stata depotenziata della sua potenza creativa.

È espressione della solitudine

Ecco il cuore del problema: se non c’è solitudine non c’è silenzio, e senza entrambi non c’è verità. Il silenzio è l’espressione più alta della solitudine del cuore. Il silenzio trasforma la solitudine in realtà. E quando non cediamo al prurito di ascoltare noi stessi, cioè alla vanità dell’anti- silenzio, sfuggiamo alla solitudine di quelle innumerevoli

maniere formali, provocatorie, intimistiche, massificanti… Tutte parole che non danno vita, che non nascono da un cuore passato attraverso il crogiolo della solitudine, nella costanza e nell’affetto. Non nascono – in sostanza – da un cuore fecondo.

È forgia di parole vere

Le parole vere si forgiano nel silenzio. Più ancora: il nucleo stesso della parola dev’essere silenzioso. Se la parola è vera, nel suo cuore si annida il silenzio. E la parola, una volta pronunciata, torna al silenzio abissale e fecondo da cui proveniva. La parola muore per fare posto all’amore, alla bellezza, alla verità, che proprio essa ha portato.

La nostra parola, il nostro parlare, che nasce dal silenzio, dev’essere contenta di morire tornando al silenzio da cui era uscita. Il silenzio c’insegna a parlare, dà forza alla parola, la quale – per questo silenzio che racchiude – non è mero rumore (cfr. 1Cor 13,1). Il silenzio c’insegna a parlare perché mantiene nel nostro intimo il fervore religioso, l’attenzione allo Spirito Santo. Il silenzio alleva la vita dello Spirito Santo in noi.

È espressione della dignità

Infine, il silenzio è l’espressione più alta e più quotidiana della dignità. Tanto più nei momenti di prova e di crocifissione, quando la carne vorrebbe giustificarsi e sottrarsi alla croce. Nel momento supremo dell’ingiustizia, «Gesù taceva» (Mt 26,63; cfr. anche Is 53,7; At 8,32). Non è stato al gioco del rispondere a quanti gli dicevano di

scendere dalla croce. Tutta la pazienza di Dio, la pazienza di secoli, e anche il suo affetto, emergono qui, in questo silenzio del Cristo umiliato. Nella storia degli uomini fanno irruzione il silenzio eterno della Parola, la «contemplatività» amorosa del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, tutta la comunione trinitaria dal silenzio dei

secoli. È Parola, ma Parola che – nell’ora dell’annientamento provocato dall’ingiustizia – si fa silenzio.

Iesus autem tacebat. Contempliamo tutto il «viaggio» della Parola di Dio (cfr. Gv 1,1; 14,2-3; 14,10; 16,28); come si fa tenerezza nel seno di una Madre. Questa Madre «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19.51). Nel cuore silenzioso di Maria ha sede la memoria della Chiesa. Il silenzio «incarnato» del Verbo si esprime in quel momento d’ingiustizia, di umiliazione, di annientamento, nell’ora del potere delle tenebre.

Quella è la dignità di Gesù, ed è anche la nostra.

 

Tratto da: Jorge Mario Bergoglio-Papa Francesco

La forza del presepe (Emi, 2014).

Il volume raccoglie alcune riflessioni del 1987, inedite in Italia, dell’allora padre gesuita, dedicate alla festa del Natale.

L’evangelizzazione e la rete

L’evangelizzazione e la rete.

Opportunità e illusioni.

rete1La rete è un ambiente e una esperienza

  • La Rete non esiste, Internet non esiste. Noi siamo colpiti dalla tecnologia, ma finché resteremo colpiti dalla tecnica, dal «macchinoso», non ne capiremo il significato antropologico.
  • La Rete è una rivoluzione antica… In particolare la Rete è una rivoluzione che potremmo definire «antica», cioè con salde radici nel passato perché dà forma nuova a desideri e valori antichi quanto l’essere umano.
  • Quando si guarda a internet occorre non solo vedere le prospettive di futuro che offre, ma anche i desideri e le attese che l’uomo ha sempre avuto e alle quali prova a rispondere, e cioè: relazione e conoscenza.

Ha scritto Papa Francesco nel suo messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali 2014: <<La rete digitale può essere un luogo ricco di umanità, non una rete di fili ma di persone umane>>.

  • La vita stessa è una rete che si esprime fisicamente e anche digitalmente…

Internet è una realtà che ormai fa parte della vita quotidiana.

Internet non è una opzione: è un dato di fatto. L’evangelizzazione non può non considerare questa realtà. Perché? Per rispondere a questa domanda è necessario rispondere a un’altra domanda:

Che cos’è internet? Non è un insieme di cavi, fili, modem e computer. Sarebbe errato identificare la “realtà” e l’esperienza di internet alla infrastruttura tecnologica che la rende possibile. Sarebbe come dire, per fare un esempio, che il “focolare domestico” (home) si possa ridurre all’edificio abitativo (house) di una famiglia.

Internet è innanzitutto una esperienza. Finché si ragionerà in termini strumentali non si capirà nulla della Rete e del suo significato. La Rete “è” una esperienza, cioè l’esperienza che quei cavi rendono possibile così come le pareti domestiche rendono possibile l’esperienza del «sentirsi a casa». Internet dunque è uno spazio di esperienza che sempre di più sta diventando parte integrante, in maniera fluida, della vita quotidiana: un nuovo contesto esistenziale.

“L’ambiente digitale non è un mondo parallelo o puramente virtuale, ma è parte della realtà quotidiana di molte persone, specialmente dei più giovani” (Benedetto XVI).

Quindi:

– Lo spazio digitale non è inautentico, alienato, falso o apparente, ma è un’estensione del nostro spazio vitale quotidiano, che richiede «responsabilità e dedizione alla verità». Crolla la distinzione tra reale e virtuale! Vive quella di fisico e digitale…

Siamo chiamati, dunque, a vivere bene sapendo che la Rete è parte del nostro ambiente vitale, e che in essa ormai si sviluppa una parte della nostra capacità di fare esperienza.

Quindi la mediazione tecnologica non è affatto pura alienazione. Del resto la nostra relazione è sempre mediata.

Non basta il contatto fisico per rendere il nostro rapporto AUTENTICO. Viviamo spesso rapporti fisici e falsi. Se abbiamo bisogno di spegnere il cellulare per riscoprire i rapporti non significa che siamo equilibrati ma che non sappiamo vivere le sfide del nostro tempo.

Benedetto XVI: “Lo sviluppo delle reti sociali richiede impegno: le persone sono coinvolte nel costruire relazioni e trovare amicizia, nel cercare risposte alle loro domande, nel divertirsi, ma anche nell’essere stimolati intellettualmente e nel condividere competenze e conoscenze. I network diventano così, sempre di più, parte del tessuto stesso della società in quanto uniscono le persone sulla base di questi bisogni fondamentali. Le reti sociali sono dunque alimentate da aspirazioni radicate nel cuore dell’uomo”.

Quindi la rete è un tessuto connettivo delle esperienze umane.

Non uno strumento. Le tecnologie della comunicazione stanno dunque creando un ambiente digitale nel quale l’uomo impara a informarsi, a conoscere il mondo, a stringere e mantenere in vita le relazioni, contribuendo a definire anche un modo di abitare il mondo e di organizzarlo, guidando e ispirando i comportamenti individuali, familiari, sociali.

La Gaudium et spes aveva già parlato di un preciso impatto delle tecnologie sul modus cogitandi dell’uomo (n. 5).

Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Il rapido sviluppo, individuava  5 territori di impatto dei processi mediatici:

  1. «la formazione della personalità e della coscienza,
  2. l’interpretazione e la strutturazione dei legami affettivi,
  3. l’articolazione delle fasi educative e formative,
  4. l’elaborazione e la diffusione di fenomeni culturali,
  5. lo sviluppo della vita sociale, politica ed economica»

(Il rapido sviluppo, n. 2).

Il significato spirituale della tecnologia digitale

NON E’ POSSIBILE PARLARE DI PASTORALE E COMUNICAZIONE SENZA COMPRENDERE LA VALENZA SPIRITUALE DELLA TECNOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE

L’uomo ha sempre cercato di capire la realtà attraverso le tecnologie. Pensiamo a come la fotografia e il cinema hanno mutato il modo di rappresentare le cose e gli eventi; l’aereo ci ha fatto comprendere il mondo in maniera diversa del carro con le ruote; la stampa ci ha fatto comprendere la cultura in maniera diversa. E così via. La «tecnologia», dunque, non è un insieme di oggetti moderni e all’avanguardia. Essa è parte dell’agire con il quale l’uomo esercita la propria capacità di conoscenza, di libertà e di responsabilità.

Le «macchine» sempre di più stanno assumendo un valore che tocca le dimensioni dell’uomo più elevate: pensare, esprimersi, comunicare, capire il mondo. Il nostro compito come cristiani è di vedere con occhi nuovi la tecnologia e i suoi prodotti interrogandoci sul loro significato e valore nel progetto di Dio sul mondo.

Ecco un punto chiave: il legame profondo e radicale tra la tecnologia e la spiritualità. La tecnologia, scrive Benedetto XVI nella Caritas in Veritate, «è un fatto profondamente umano, legato alla libertà dell’uomo. Nella tecnica si esprime e si conferma la signoria dello spirito sulla materia» (n. 69). La tecnologia, dunque, esprime la capacità dell’uomo di organizzare la materia in un progetto di valore spirituale.

Il cristiano, quindi, è chiamato a comprendere la natura profonda, la vocazione stessa della tecnologie digitali in relazione allo vita dello spirito.

Ovviamente la tecnica è ambigua perché la libertà dell’uomo può essere spesa anche per il male, ma proprio questa possibilità mette in luce la sua natura legata alla vita spirituale.

Un momento cruciale di questa comprensione spirituale delle nuove tecnologie fu la promulgazione del Decreto del Concilio Vaticano II Inter mirifica, il 4 dicembre 1963. che esordisce:

«Tra le meravigliose invenzioni tecniche che, soprattutto ai nostri giorni, l’ingegno umano, con l’aiuto di Dio, ha tratto dal creato, la Madre Chiesa accoglie e segue con speciale cura quelle che più direttamente riguardano lo spirito dell’uomo e che hanno aperto nuove vie per comunicare, con massima facilità, notizie, idee e insegnamenti d’ogni genere». Meno di un anno dopo della promulgazione della Inter Mirifica Paolo VI in un suo discorso aveva usato parole di una bellezza sconcertante, a mio avviso. Vi cito queste parole sintetizzandole un po’: «La scienza e la tecnica ci fanno intravedere nuovi misteri: il cervello meccanico viene in aiuto del cervello spirituale».

E proseguiva il Pontefice: «Lo sforzo di infondere in strumenti meccanici il riflesso di funzioni spirituali è innalzato ad un servizio che tocca il sacro». Quindi lo sforzo dell’uomo consiste nell’infondere il «riflesso di funzioni spirituali» agli «strumenti meccanici». E’ questa la definizione potremmo dire «teologica» della tecnologia, la sua «vocazione». E’ grazie alla tecnologia che la materia può offrire «allo spirito stesso un sublime ossequio».

Paolo VI sente dunque salire dall’homo tecnologicus il gemito di aspirazione ad un grado superiore di spiritualità. L’uomo tecnologico è dunque lo stesso uomo spirituale.

Lo sviluppo tecnologico, se ben inteso, riesce ad esprimere una forma di anelito alla «trascendenza» rispetto alla condizione umana così come è vissuta attualmente (Cfr S. GEORGE, Religion and technology in the 21st Century. Faith in the e-World, Hershey (PA), Information Science Publishing, 2006, 87-90).

*****

Nel 2007 il Documento di Aparecida aveva accolto questa sfida quando al n. 35 si legge che i “nuovi linguaggi della tecnologia” sono in grado di rivelare e occultare “il senso della vita umana”

La tecnologia diventa uno dei modi ordinari che l’uomo ha a disposizione per esprimere la sua naturale spiritualità. Anzi, se usate saggiamente, dunque, le nuove tecnologie, ha scritto Benedetto XVI nel suo 45 Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, «possono contribuire a soddisfare il desiderio di senso, di verità e di unità che rimane l’aspirazione più profonda dell’essere umano».

Questo valore umano è quanto mai parte della nostra esperienza perché ormai noi, in un certo modo «siamo» in Rete, parte della nostra vita è là. Ci rendiamo conto ormai che noi esistiamo anche in Rete. Una parte della nostra vita è digitale. Dunque anche una parte della nostra vita di fede è digitale, vive nell’ambiente digitale.

 Dunque anche una parte della nostra vita di fede è digitale, vive nell’ambiente digitale.

Un mio studente africano della Pontificia Università Gregoriana una volta mi disse: «Io amo il mio computer perché dentro il mio computer ci sono tutti i miei amici».

Finché si dirà che bisogna uscire dalla relazioni in Rete per vivere relazioni reali si confermerà la schizofrenia di una generazione che vive l’ambiente digitale come un ambiente puramente ludico in cui si mette in gioco un secondo sé, un’identità doppia che vive di banalità effimere, come in una bolla priva di realismo fisico, di contatto reale con il mondo e con gli altri.

La fede nell’ambiente digitale

Ecco, dunque: proprio su questo valore spirituale dell’ambiente digitale si fonda la possibilità dell’annuncio della fede in questo ambiente.

In un tempo in cui la tecnologia tende a diventare il tessuto connettivo di molte esperienze umane quali le relazioni e la conoscenza, è necessario chiedersi: può la Rete essere una dimensione nella quale vivere il Vangelo? E ancora: se la tecnologia e, in particolare, la rivoluzione digitale ha un impatto sul modo di pensare la realtà, ciò non finirà per riguardare anche, in qualche modo, la fede? Non avrà un impatto sul modo di pensare la fede? Come?

Vorrei qui esporre alcune sfide importanti:

  1. Dalla pastorale della risposta alla pastorale della domanda

Viviamo bombardati dai messaggi, subiamo una sovrainformazione, la cosiddetta information overload.

Il problema oggi non è trovare le risposte ma riconoscere quelle giuste  significativo sulla base delle tante risposte che ricevo.

Al tempo dei motori di ricerca, le risposte sono a portata di mano, sono dovunque. Per questo è importante oggi non tanto dare risposte. Tutti danno risposte! “The teacher doesn’t need to give any answers because answers are everywhere” (Sugata Mitra, professore di Educational Technology alla Newcastle University). Oggi è importante riconoscere le domande importanti, quelle fondamentali. E così fare in modo che nella nostra vita resti aperta, che Dio ci possa ancora parlare.

L’annuncio cristiano oggi corre il  rischio di presentare un messaggio accanto agli altri, una risposta tra le tante.

Più che presentare il Vangelo come il libro che contiene tutte le risposte, bisognerebbe imparare a presentarlo come il libro che contiene tutte le domande giuste.

La grande parola da riscoprire, allora, è una vecchia conoscenza del vocabolario cristiano: il discernimento spirituale che significa riconoscere tra le tante risposte che oggi riceviamo quali sono le domande importanti, quelle vere e fondamentali. E’ un lavoro complesso, che richiede una grande sensibilità spirituale.

“Non bisogna mai rispondere a domande che nessuno si pone” (Evangelii Gaudium, 155).

La Chiesa sa coinvolgersi con le domande e i dubbi degli uomini? Sa risvegliare i quesiti insopprimibili del cuore, sul senso dell’esistenza? Occorre sapersi inserire nel dialogo con gli uomini e le donne di oggi, per comprenderne le attese, i dubbi, le speranze», dunque.

Mi ha colpito il fatto che Papa Francesco, rispondendo a una domanda posta da un giornalista sul volo che da Tel Aviv lo riportava a Roma abbia detto: “

“Non so se mi sono avvicinato un po’ alla sua inquietudine…

  1. Dalla pastorale centrata sui contenuti alla pastorale centrata sulle persone

Oggi sta cambiando anche la modalità di fruizione dei contenuti.

Stiamo assistendo al crollo delle programmazioni… Fino a qualche tempo fa MTV (Music Television) tra i giovani era considerata una emittente di «culto». Adesso sta subendo una crisi o, se vogliamo, una sua trasformazione da quel che era – cioè emittente di una notevole quantità di video musicali introdotti da VJ – in emittente di reality show e serie televisive indirizzate soprattutto al target adolescenziale e ai giovani adulti.

I giovani, infatti, ormai fruiscono la musica da internet e non ci sono più ragioni perché la fruiscano dalla Tv. La Tv è un rumore di fondo, il brusio del mondo. La si lascia parlare… Raramente oggi trova posto nelle camere dei ragazzi. Oggi, inoltre, il vedere implica la selezione, e la possibilità del commento e dell’interazione. E questa possibilità è data da un social network come YouTube.

La fede sembra partecipare di questa logica. Le programmazioni sono sostituite dalle ricerche personali e dai contenuti accessibili sempre in rete.

Il catechismo era una forma per presentare in maniera ordinata, coerente e scandita i contenuti della fede. In un tempo in cui i palinsesti sono in crisi, questa modalità di presentare la fede è in crisi.

Quali sfide tutto questo pone alla fede e alla sua comunicazione? Come far sì che la Chiesa non diventi un container da tenere accesso come un televisore che «parla» senza comunicare?

La grande sfida qui è quella percepita già nel 2007 dal documento di Aparecida: la frammentazione, l’incapacità di «percepire un significato coerente del mondo che ci circonda» (n. 36) e un certo individualismo (n. 44)

Ma sempre nel documento di Aparecida al n. 100 leggiamo: “Nell’evangelizzazione, nella catechesi e, in generale, nella pastorale, continuano a essere utilizzati linguaggi poco significativi per la cultura attuale e, in particolare, per la cultura dei giovani. Molte volte, i linguaggi usati sembrano non tener conto dei cambiamenti dei codici esistenzialmente rilevanti nelle nostre società”.

Una direzione di risposta a questa domanda la troviamo in un passaggio di mons. Claudio Maria Celli, nel suo intervento al Sinodo dei vescovi sulla Nuova Evangelizzazione: «la gerarchia ecclesiastica, come anche quella politica e sociale, deve trovare nuove forme per elaborare la propria comunicazione, affinché il suo contributo a questo forum riceva un’attenzione adeguata. Stiamo imparando a superare il modello del pulpito e dell’assemblea che ascolta per il rispetto della nostra posizione. Siamo obbligati a esprimere noi stessi in modo da coinvolgere e convincere gli altri che a loro volta condividono le nostre idee con i loro amici, “followers” e partners di dialogo».

La vita della Chiesa è chiamata ad assumere una forma sempre più comunicativa e partecipativa.

 ******

  1. Dalla pastorale della trasmissione alla pastorale della testimonianza

Infatti la vera novità dell’ambiente digitale è la sua natura di social network, cioè il fatto che permette di far emergere non solo le relazioni tra me e te, ma le mie relazioni e le tue relazioni. Cioè in rete emergono non solo le persone e i contenuti, ma emergono le relazioni.

È cambiato il significato stesso della parola COMUNICAZIONE

—– Comunicare dunque non significa più trasmettere ma condividere —–

La società e la cultura non sono più pensabili e comprensibili solamente attraverso i contenuti. Non ci sono innanzitutto le cose, ma le «persone». Ci sono soprattutto le relazioni: lo scambio dei contenuti che avviene all’interno delle relazioni tra persone. La base relazionale della conoscenza in Rete è radicale.

Si capisce bene dunque quanto sia importante la testimonianza. È questo un aspetto determinante. Oggi l’uomo della Rete si fida delle opinioni in forma di testimonianza. Pensiamo alle librerie digitali o agli store musicali. Ma gli esempi si possono moltiplicare: si tratta sempre e comunque di quegli user generated content che hanno fatto la «fortuna» e il significato dei social network.

 La logica delle reti sociali ci fa comprendere meglio di prima che il contenuto condiviso è sempre strettamente legato alla persona che lo offre. Non c’è, infatti, in queste reti nessuna informazione «neutra»: l’uomo è sempre coinvolto direttamente in ciò che comunica.

In questo senso il cristiano che vive immerso nelle reti sociali è chiamato a un’autenticità di vita molto impegnativa: essa tocca direttamente il valore della sua capacità di comunicazione. Infatti, ha scritto Benedetto XVI nel suo Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni del 2011, «quando le persone si scambiano informazioni, stanno già condividendo se stesse, la loro visione del mondo, le loro speranze, i loro ideali».

 Il documento di Aparecida al n. 145 affermava chiaramente: “La missione non si limita a un programma e a un progetto; no, essa significa condividere l’esperienza dell’avvenimento dell’incontro con Cristo, testimoniarlo e annunciarlo da persona a persona, da comunità a comunità, e dalla Chiesa fino ai confini della terra (cf. At 1,8)”

Ha scritto tempo fa Papa Francesco: «Solo chi comunica facendosi testimone diretto della verità può rappresentare un punto di riferimento. Il suo coinvolgimento personale è la radice stessa della sua affidabilità come comunicatore».

Dunque un annuncio del Vangelo che non passi per l’autenticità di una vita quotidiana personale condivisa resterebbe, oggi più che mai, un messaggio espresso in un codice comprensibile forse con la mente, ma non col cuore.

La fede quindi non solo si «trasmette», ma soprattutto può essere suscitata nell’incontro personale, nelle relazioni autentiche.

Sempre il documento di Aparecida al n. 489, pur essendo stato scritto prima della nascita dei social networks, già affermava: «i siti Internet possono rinforzare e stimolare un interscambio di esperienze e informazioni che intensificano l’esperienza religiosa, fornendo accompagnamento e orientamento”.

Ha scritto Papa Francesco nel Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni 2014: «La testimonianza cristiana non si fa con il bombardamento di messaggi religiosi, ma con la volontà di donare se stessi agli altri “attraverso la disponibilità a coinvolgersi pazientemente e con rispetto nelle loro domande e nei loro dubbi, nel cammino di ricerca della verità e del senso dell’esistenza umana” (Benedetto XVI, Messaggio per la XLVII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 2013).

«Pensiamo all’episodio dei discepoli di Emmaus. Occorre sapersi inserire nel dialogo con gli uomini e le donne di oggi, per comprenderne le attese, i dubbi, le speranze, e offrire loro il Vangelo, cioè Gesù Cristo«.

«Dialogare significa essere convinti che l’altro abbia qualcosa di buono da dire, fare spazio al suo punto di vista, alle sue proposte. Dialogare non significa rinunciare alle proprie idee e tradizioni, ma alla pretesa che siano uniche ed assolute«.

—– Dunque EVANGELIZZARE IN RETE è innanzitutto ASCOLTARE

  1. Dalla pastorale della propaganda alla pastorale della prossimità

Evangelizzare, dunque, non significa affatto fare «propaganda» del vangelo. La Chiesa in Rete è chiamata dunque non a una «emittenza» di contenuti religiosi, ma a una «condivisione» del Vangelo.

E per Papa Francesco questa condivisione è larga. Scrive chiaramente: «internet può offrire maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti, e questa è una cosa buona, è un dono di Dio». Il Papa sembra leggere nella rete il segno di un dono e di una vocazione dell’umanità ad essere unita, connessa. Rivive, grazie alle nuove tecnologie della comunicazione, «la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio» (Evangelii Gaudium, 87).

Nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni 2014, papa Francesco ha definito il potere dei «media» come «prossimità.

 Come si manifesta l’essere prossimo nel nuovo ambiente creato dalle tecnologie digitali? Papa Francesco, parlando ai comunicatori nel 2002, aveva scelto la parabola del buon samaritano, come immagine di riferimento del comunicatore.

Qui c’è il cuore del discorso. Ed è la parte più complessa, forse.

Vedete, noi a volte pensiamo il mondo come un insieme di oggetti, di cose, di informazioni. Non è così: un oggetto esiste come nodo di un insieme di interazioni, di relazioni. Così ognuno di noi.

Vedete, la tessera di un mosaico può essere d’oro, ma il vero valore del suo significato si sprigiona solo quando la tessera trova il suo posto rispetto alle altre.

La rete oggi fa sì che i CONTENUTI non vivono al di fuori delle RELAZIONI. Oggi è strategica la capacità di connettere tra loro in modo dinamico contenuti e persone.

TUTTO È IPERTESTO

Chi evangelizza oggi deve essere un “hub” che mette in relazioni i contenuti con le persone.

Chi evangelizza non è chiamato a “predicare” nel senso tradizionale, ma a sviluppare relazioni e a connettere il vangelo con le persone.

Oggi un contenuto che non genera relazione, cioè incontro, passione, dialogo, è un contenuto insignificante, cioè privo di valore.

Così se il Vangelo non genera relazione, cioè incontro, passione, dialogo, è un contenuto insignificante, cioè privo di valore.

Allora oggi non è importante «sapere comunicare il Vangelo», avere strategie di comunicazione del Vangelo, ma avere una vita che genera relazioni e che connetta il Vangelo che si vive con la vita della gente. Guardiamo i nostri profili Facebook…

 Vedete…. Il Papa non «comunica», ma «è presente».

Quella del Papa è una semplice «presenza», una presenza nuda. Papa Francesco non compie sforzi comunicativi, se non quelli più ovvi e naturali.

Intende essere sempre se stesso, non il lettore di un testo scritto o un emittente di informazioni: comunica per connaturalità, per semplice presenza. Quello che sto dicendo significa una cosa semplice:

Il Papa è un testimone.

Ricordiamo bene quando Papa Francesco si è affacciato per la prima volta dalla loggia delle benedizioni, subito dopo la sua elezione: non solo ha benedetto chi era in piazza e chi lo seguiva dalla tv e da internet, ma si è prima chinato, chiedendo a tutti di pregare per lui.

Che cosa ha fatto dal punto di vista comunicativo? Ha reso attivo chi era immaginato come recettore passivo, seppure di una benedizione. La conseguenza è stata che tutta la piazza ha reagito, partecipando in prima persona alla “costruzione” dell’evento.

 

Lo stesso si dica per un altro momento da cui molti sono stati colpiti, e cioè quando Papa Francesco ha accolto un gruppo di scout, ragazze e ragazzi, arrivati a San Pietro da Piacenza. Uno di loro ha tirato fuori dalla tasca un telefonino e ha scattato un selfie, cioè un autoritratto con l’obiettivo frontale. Ha fotografato così se stesso, gli amici e il Papa in mezzo a loro, e lo ha caricato su Instagram, un social network di fotografie.

 

La dinamica è la stessa: il Papa più che «comunicare», Papa Francesco crea «eventi comunicativi», ai quali si ci sente richiamati a partecipare attivamente. La relazione per lui è contenuto della comunicazione.

  1. 5. Dalla pastorale delle idee alla pastorale della narrazione

– Le foto «taggate», «geolocalizzate», collocate nel tempo esatto in cui sono state condivise sono l’album fotografico live della nostra vita.

– I nostri tweets o gli updates dello stato su Facebook e i post dei nostri blog conservano i nostri pensieri, ma anche i nostri stati emotivi.

Le librerie on line e gli altri negozi tengono traccia dei nostri gusti, delle nostre scelte, dei nostri acquisti e a volte anche dei commenti.

I video su YouTube costruiscono per frammenti il film della nostra vita fatto dai nostri video e da quelli che ci piacciono.

  • Infatti lo streaming della nostra vita non è fatto solo di ciò che immettiamo in Rete ma anche di ciò che «gradiamo», da ciò che ci piace, e che segnaliamo agli altri anche grazie al pulsante like ai nostri followers e ai nostri friends.

L’esperienza condivisa sui social networks è l’opposto di ciò che accadeva ai tempi di Robert Musil che scriveva: «la probabilità di apprendere dal giornale una vicenda straordinaria è molto maggiore di quella di viverla personalmente».

Oggi invece i social networks offrono l’opportunità di rendere più significativa l’esperienza vissuta soggettivamente proprio grazie alla pubblicazione e alla condivisione in una rete di relazioni. Le notizie dei giornali sono invece irrelate a me e dunque, in un certo senso, finiscono per essere percepite come meno «straordinarie» o comunque meno interessanti.

La rete è una opportunità perché narrare in ogni caso è restituire i soggetti della conoscenza alla densità simbolica ed esperienziale del mondo. E oggi è molto alimentato il bisogno di narrazione all’interno di legami e relazioni. La narrazione di rete può essere, sì, individualistica e autoreferenziale, ma può essere anche polifonica e aperta.

Interessante a questo proposito la possibilità di aggregare materiali condivisi su differenti social networks su una piattaforma come Storify che permette l’interconnessione con Twitter, Facebook, Flickr, Youtube,…  e le apre alla condivisione. Alla base è la consapevolezza che ciascuno di noi è un living link. L’interattività è la cifra radicale di questo lifestreaming.

  1. Dalla pastorale della voce e del testo a quella (anche) dell’immagine (il Papa in Instagram)

 Il 19 marzo 2016 Papa Francesco è «sbarcato» su Instagram co l’account @franciscus. Questo Papa viene raccontato al meglio in tutta la sua potenza proprio dalle immagini scattate dai fedeli. Le immagini che lo ritraggono al meglio addirittura a volte non sono quelle «pulite» e nitide, ma quelle «sporche», persino sfocate e mosse, dei fedeli. Il Papa del popolo viene raccontato dal popolo che coglie non solo i gesti ma anche il contesto dei gesti dal di dentro. E in questo modo, appunto, il Papa è già in Instagram dall’inizio al di là di ogni ufficialità.

Perché le foto? Perché la foto parla. Non intendo dire solamente che ha valore simbolico, ma innanzitutto è oggetto di condivisione. Condividere una propria foto è un gesto che permette di condividere un pezzo di vita vissuta.

E oggi non c’è più bisogno di una macchina fotografica. Tutti gli smartphone, che siano iPhone, Android o Windows Phone o altro ancora, sono ormai dotati di un obiettivo di una certa qualità. Avere uno smartphone in tasca significa dunque anche avere sempre a portata di mano una macchina fotografica.

Questa evoluzione tecnologica sta dando vita a una vera e propria rivoluzione della esperienza umana della fotografia che consiste nel fatto che oggi si può fotografare in qualunque istante della vita.

La «macchina fotografica» è obsoleta come oggetto, o meglio è riservata a cultori del click. Si vanno moltiplicando, anzi, i professionisti, e specialmente i reporter, che praticano la cosiddetta «phonografia». La caratteristica di questa pratica fotografica consiste nel fatto che lo scatto ne è solamente il primo momento. A questo, infatti fa seguito il secondo momento, cioè la post-produzione, cioè l’elaborazione della foto grazie a numerose applicazioni che ne permettono la modifica anche applicando filtri: è un gesto che permette di elaborare un’immagine per adeguarla alla propria visione. Il terzo momento consiste nella condivisione: ogni scatto elaborato può sempre essere condiviso sui social networks.

Dunque: scatto, elaborazione e condivisione

La logica del social network, sposandosi con quella dello scatto ha così trasformato la fotografia da «memoria» a «esperienza». Si scattano foto per «vedere» meglio ciò che si vede e per condividere l’esperienza che si sta facendo sul momento con gli amici. Le «istantanee» diventano i pezzi di una narrazione «lifestreaming». La condivisione in diretta delle fotografie sviluppa un flusso di immagini che non è pensato per essere archiviato, indicizzato, memorizzato. Le foto si accavallano, si sostituiscono, man mano che vengono postate in successione. Più che creazione di memoria, dunque, si tratta di plasmare l’esperienza e di condividerla.

Come cambierà il modo di dire la fede al tempo delle istantanee simboliche e condivise?

Ma ecco una domanda più ampia e generale sollevata dalla presenza del Papa su Instagram: Come cambierà il modo di dire la fede al tempo delle istantanee simboliche e condivise? Non lo sappiamo, ma certo lo stiamo vivendo: la fede si esprime e si condivide grazie anche alle foto. Per questo Papa Francesco «sbarca» su Instagram.  Perché in questo flusso di immagini si può discernere un «desiderium naturale videndi Deum». Ci sono vari esperimenti a questo proposito dai nomi interessanti quali «Framing God in all things»  o «Picturing God».

Non solo: #theology è diventato anche un hashtag abbastanza usato su Instagram. Il potenziamento dell’espressione simbolica certamente avrà un impatto anche sulla nostra capacità di dire la fede nella cultura della digitale.

E’ una strada interessante da percorrere anche per gruppi e comunità: quali le immagini per dire la fede? Quali gli hashtag, cioè le parole-chiave, da usare? La Chiesa ha una lunga tradizione di catechesi visiva in tempi in cui l’alfabetizzazione era limitata. E questa tradizione può dire molto all’uomo d’oggi alla ricerca di immagini per esprimere il proprio desiderio di una vita piena, oltre che di trascendenza.

7. Dalla comunità al network e viceversa

Nella sua omelia per la solennità della Pentecoste del 2012 Benedetto XVI ha posto una domanda importante e impegnativa: «E’ vero, abbiamo moltiplicato le possibilità di comunicare, di avere informazioni, di trasmettere notizie, ma possiamo dire che è cresciuta la capacità di capirci o forse, paradossalmente, ci capiamo sempre meno?».

E’ una domanda che ha un significato che potremmo definire radicale: basta moltiplicare le connessioni per sviluppare la comprensione reciproca tra le persone e le relazioni di comunione?

Ecco allora la nostra vocazione al tempo della connessione relazionale: la vocazione a vivere la Rete da luogo di «connessione» a luogo di «comunione». Il rischio di questi tempi è di confondere i due termini: la connessione non produce automaticamente una comunione.

Essere connessi non significa automaticamente essere in relazione. La connessione non basta a fare della Rete un luogo di condivisione pienamente umana.

Ecco dunque un compito specifico del cattolico in Rete: farla maturare da luogo di «connessione» a luogo di «comunione». Il rischio di questi tempi è proprio quello di confondere questi due termini. La connessione di per sé non basta a fare della Rete un luogo di condivisione pienamente umana. Lavorare in vista di tale condivisione è compito specifico del cristiano.

E questo soprattutto oggi dove le singole persone o le singole comunità rischiano di rimanere ancora più di prima dentro BOLLE FILTRATE, dentro muri invalicabili. Cerco di spiegarmi meglio…

Oggi si è tutti connessi grazie ai social networks quali Facebook o Twitter. Come forse sapete sia i social networks sia i motori di ricerca come Google conservano le informazioni delle persone che li frequentano, e questi dati sono utilizzati per dirigere le risposte o gli aggiornamenti circa i contatti personali. È come se Google e Facebook «ci conoscessero» sulla base dei nostri accessi alla rete, dei siti che visitiamo, di cosa ci interessa di più.

Questi dati orientano la risposta alle nostre ricerche. Gli aggiornamneti di Facebook o le risposte alle nostre ricerche non sono mai «oggettive». Sono orientate sul soggetto, e dunque persone diverse ottengono risultati differenti. Il vantaggio è immediato: arrivo subito a ciò che presumibilmente mi interessa di più perché Google mi ‘conosce’ e mi suggerisce cosa possa attirarmi maggiormente.

Ma d’altra parte c’è un grande rischio: quello di rimanere chiusi in una sorta di «bolla» che fa da filtro a ciò che è diverso da me, per cui io non sono più in grado di accorgermi che ci sono persone, articoli, libri, ricerche che non corrispondono alle mie idee o che esprimono un’opinione diversa dalla mia.

Quindi, alla fine, io sarò circondato da un mondo di informazioni e da un mondo di relazioni che mi somigliano, uguali a me. Così rischio di rimanere chiuso alla provocazione intellettuale che proviene dall’alterità e dalla differenza.

 Il rischio è evidente: perdere di vista la diversità, aumentare l’intolleranza, chiusura alla novità e all’imprevisto che fuoriesce dai miei schemi relazionali o mentali. L’altra persona diventa per me significativo se mi è in qualche modo simile, altrimenti non esiste. A questo punto oggi più che mai il dialogo tra persone di fede diversa, di stili di vita differenti, l’ecumenismo, il dialogo interreligioso, il confronto all’interno della Chiesa tra gruppi e movimenti assumono un valore fondamentale in un mondo che tende a costruire, anche in rete – cioè il luogo in termini di principio più aperto possibile – isole di autoreferenzialità.

L’altro diventa per me significativo, dunque, soltanto se mi è in qualche modo simile, altrimenti non esiste.

 Ecco dunque che il Papa ribadisce: «Costatata la diversità culturale, bisogna far sì che le persone non solo accettino l’esistenza della cultura dell’altro, ma aspirino anche a venire arricchite da essa e ad offrirle ciò che si possiede di bene, di vero e di bello” (Discorso nell’Incontro con il mondo della cultura, Belém, Lisbona, 12 maggio 2010)».

Ma per la comunione che i cattolici sperimentano nella Chiesa non basta una comunicazione bella, buona, sana. Non basta: la comunione non è frutto dei nostri sforzi. La Chiesa non è frutto di un «consenso», cioè un «prodotto» della comunicazione.

 Se fosse così, sarebbe a forte rischio la comprensione della Chiesa come «corpo mistico», che sembra diluirsi in una sorta di piattaforma di connessioni. In questo contesto il battesimo rischia di risolversi in una sorta di «procedura di accesso» (login), che permette anche una rapida disconnessione (log off). Il radicamento in una comunità ecclesiale si risolverebbe in una sorta di «installazione» di un programma che si può dunque facilmente anche «disinstallare» (uninstall).

 Ciò che da un punto di vista cattolico dunque DEVE rimanere chiaro è che la comunità ecclesiale non è un prodotto della comunicazione, ma ha sempre un principio e un fondamento «esterno».

Le relazioni in Rete dipendono dalla presenza e dall’efficace funzionamento degli strumenti di comunicazione; la comunione ecclesiale invece è radicalmente un «dono» dello Spirito. E’ questo dono che trasforma la connessione in comunione.

Occorre rileggere il racconto della torre di Babele. Noi siamo convinti che la differenza delle lingue sia la punizione di Dio per una umanità che ha progettato di invadere lo spazio di Dio. L’esegesi biblica recente ci sta facendo capire che invece Babele è una «nuova creazione» che denuncia e sventa il progetto di un monolitismo totalitario della civiltà di Babele per cui «Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole» (una civiltà ripiegata su se stessa). indirizzando l’uomo verso un progetto di comunione che parta da quella condizione di pluralismo descritta nella tavola dei popoli di Genesi 10, dove la varietà delle lingue e delle culture costituisce una ricchezza e non un ostacolo alla comunicazione e alla comunione dei popoli.

8. Dal pensare in gruppo al pensare in rete

Ma questa conversazione è ormai globale. Internet comporta la connessione e la condivisione di risorse, tempo, contenuti, idee… Si pensa insieme! L’esempio ormai «classico» è quello di Wikipedia. Al di là di ogni altra considerazione, è il frutto della convergenza di tante persone connesse tra loro nel pianeta che pensano e scrivono. Tutti scrivono una stessa voce di enciclopedia, contribuendo a un unico lavoro comune. In Qualche modo è come se si «pensasse» insieme.

Il cablaggio delle reti sta dando vita a una forza emergente e vitale, in grado di raccogliere le persone e di farle pensare insieme al di là del tempo e dello spazio. Oggi si pensa e si conosce il mondo non solo nella maniera tradizionale della lettura o dello scambio in un contesto ristretto di relazioni (insegnamento, gruppi di studio,…), ma realizzando una vasta connessione tra intelligenze che lavorano in rete. Potremmo dire che l’intelligenza è distribuita dovunque ci sia umanità, ed essa oggi può essere facilmente interconnessa. La rete di queste conoscenze dà vita a una forma di «intelligenza connettiva».

I media sociali dunque non solamente aiutano ad esprimere agli altri il proprio pensiero, ma aiutano anche a pensare insieme agli altri, a elaborare riflessioni, idee, visioni della realtà. La comunicazione oggi aiuta il comunicatore a pensare insieme a una comunità. Ma direi di più: può aiutare il comunicatore a pensare insieme alle persone alle quali si rivolge grazie alla possibilità di ricevere continuamente feedback e commenti.

Cosa questo significherà per il dialogo teologico?

Nelle reti sociali gli uomini sono coinvolti – si legge nel Messaggio – «nell’essere stimolati intellettualmente e nel condividere competenze e conoscenze». Internet comporta la connessione e la condivisione di contenuti e idee. Già nel Messaggio del 2011 il Papa notava che il web sta contribuendo allo sviluppo di «nuove e più complesse forme di coscienza intellettuale e spirituale, di consapevolezza condivisa».

I networks sociali dunque non solamente aiutano ad esprimere agli altri il proprio pensiero, ma aiutano anche a pensare insieme agli altri, elaborando riflessioni, idee, visioni della realtà.

  1. Chi è il mio «prossimo»?

La possibile separazione tra connessione e incontro, tra condivisione e relazione implica il fatto che oggi le relazioni, paradossalmente, possono essere mantenute senza rinunciare alla propria condizione di egoistico isolamento. Sherry Turkle ha riassuto questa condizione nel titolo di un suo libro: Alone together[1], cioè : «insieme ma soli».

Anzi, gli «amici», proprio perché sempre on line, cioè disponibili al contatto o immaginati come presenti a dare un’occhiata ai nostri aggiornamenti sui social network, sono immancabilmente presenti e dunque, proprio per questo, rischiano di svanire in una proiezione del nostro immaginario. La frattura nella prossimità è data dal fatto che la vicinanza è stabilita dalla mediazione tecnologica per cui mi è «vicino», cioè prossimo, chi è «connesso» con me[2].

Qual è il rischio, dunque? Quello di essere «lontano» da un mio amico che abita vicino ma che non è su Facebook e usa poco l’e-mail, e invece di sentire «vicino» una persona che non ho mai incontrato, che è diventata mio «amico» perché è l’amico di un mio amico, e con la quale ho uno scambio frequente in Rete.

Il vero nucleo problematico della questione che stiamo affrontando è il concetto di «presenza» al tempo dei media digitali e dei network sociali che sviluppano una forma di presenza virtuale. Che cosa significa essere presenti gli uni agli altri? Che cosa significa essere presenti a un evento? L’esistenza «virtuale» appare configurarsi con uno statuto ontologico incerto: prescinde dalla presenza fisica, ma offre una forma, a volte anche vivida, di presenza sociale.

Certamente una parte della nostra capacità di vedere e ascoltare è ormai palesemente «dentro» la Rete, per cui la connettività è ormai in fase di definizione come un diritto la cui violazione incide profondamente sulle capacità relazionali e sociali delle persone. La nostra stessa identità viene sempre di più vista come un valore da pensare come disseminata in vari spazi e non semplicemente legata alla nostra presenza fisica, alla nostra realtà biologica.

  1. Una pastorale attenta all’interiorità e all’interattività

Oltre all’ascolto, più in generale, la vita spirituale dell’uomo contemporaneo è certamente toccata dal mondo in cui le persone scoprono e vivono queste dinamiche della Rete, che sono interattive e immersive. L’uomo che ha una certa abitudine all’esperienza di internet infatti appare più pronto all’interazione che all’interiorizzazione. E generalmente «interiorità» è sinonimo di profondità, mentre «interattività» è spesso sinonimo di superficialità. Saremo condannati alla superficialità? E’ possibile coniugare profondità e interattività? La sfida è di grande portata.

Sostanzialmente possiamo constatare che l’uomo di oggi, abituato all’interattività, interiorizza le esperienze se è in grado di tessere con esse una relazione viva e non puramente passiva, recettiva. L’uomo di oggi ritiene valide le esperienze nelle quali è richiesta la sua «partecipazione» e il suo coinvolgimento.

Una strada è quella proposta dagli Esercizi spirituali ignaziani.

Chi fa gli Esercizi ignaziani viene invitato a immergersi nel testo biblico in almeno tre modi:

– proiettando con l’immaginazione il proprio corpo nella scena rappresentata;

– partecipando alle emozioni dei personaggi;

– rivivendo passo passo le vicende del mistero contemplato.

Come esempio paradigmatico leggo il testo che invita a contemplare la nascita di Gesù:

«Vedere con gli occhi dell’immaginazione la via da Nazareth a Betlemme, considerandone la lunghezza e la larghezza, se tale via è pianeggiante o se attraversa valli o alture. Nello stesso modo, guardando il luogo o grotta della Natività, vedere quanto sia grande o piccolo, basso o alto e come sia addobbato. […] vedere le persone; vale a dire vedere la Madonna, Giuseppe e l’ancella e il bambino Gesù, appena nato. Mi farò simile a un povero e indegno schiavo, guardandoli, contemplandoli e servendoli nei loro bisogni, come se fossi lì presente, con tutto il rispetto e la riverenza possibili; […] guardare, notare e contemplare ciò che dicono, […] guardare e considerare ciò che fanno, per esempio, camminare e lavorare …».

L’esercizio spirituale implica un pieno coinvolgimento dell’esercitante, che si «immerge» nella scena come in una sorta di «realtà virtuale», una Second Life: non vede la scena della natività, della grotta di Bethlem, ma vede se stesso trasferito lì, dentro quella scena.

L’esercitante dunque è chiamato a entrare in un vero e proprio ambiente virtuale, che è la cosiddetta composición viendo el lugar, composizione vedendo il luogo (ES 47), una vera e propria visione stereoscopica totale.

A questo punto però appare molto chiara una cosa: l’esperienza degli Esercizi non è di tipo puramente interiorizzante. Essi generano una esperienza interattiva: l’esercitante è chiamato a immergersi nella realtà contemplata e a interagire pienamente con essa senza filtri.

La spiritualità dell’uomo contemporaneo è molto sensibile a queste esperienze. Il giovane comunicatore che si abitua alla comunicazione digitale che è interattiva e immersiva è quindi chiamato a imparare a vivere la propria spiritualità in una maniera interattiva e immersiva con la Parola di Dio. L’importante, credo, sia non opporre radicalmente profondità a interazione, superficialità a interiorizzazione.

Dunque la profondità si coniuga con una immersione in una vera e propria «realtà virtuale», quella della vicenda biblica resa attuale con l’immaginazione. E si coniuga con un’interazione viva con i personaggi e l’ambiente circostante. Il contemplativo qui non vede la scena della natività, della grotta di Bethlem, ma vede se stesso trasferito «dentro» quella scena.

A questo punto però appare molto chiara una cosa: l’esperienza degli Esercizi Spirituali non è di tipo puramente «interiorizzante». Essi generano un’esperienza «interattiva»: l’esercitante è chiamato a immergersi nella realtà contemplata e a interagire pienamente con essa senza filtri. La profondità qui deriva dall’intensità delle relazioni e delle interazioni che si creano durante la contemplazione.

Nel web inteso come luogo antropologico non ci sono «profondità» da esplorare ma «nodi» da navigare e connettere tra di loro in maniera fitta. Ciò che appare «superficiale» è solamente il procedere in modo, magari inatteso e non previsto, da un nodo all’altro. La spiritualità dell’uomo contemporaneo è molto sensibile a queste esperienze: «la superficie al posto della profondità, la velocità al posto della riflessione, le sequenze al posto dell’analisi, il surf al posto dell’approfondimento, la comunicazione al posto dell’espressione, il multitasking al posto della specializzazione» (Alessandro Baricco).

Quale sarà dunque la spiritualità di quelle persone il cui modus cogitandi è in fase di «mutazione» a causa del loro abitare nell’ambiente digitale? L’uomo oggi è chiamato ad imparare a vivere la propria spiritualità in una maniera interattiva e immersiva con la Parola di Dio. E questo è anche una delle principali sfide educative dei nostri giorni. Il rischio di perdere il valore delle soste meditative, del silenzio, del bisogno di interiorizzazione è grande e va evitato in tutti i modi.

Una via per evitare questa perdita consiste nell’evitare di opporre troppo velocemente profondità a interazione, superficialità a interiorizzazione.

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La rete è un ambiente e una esperienza

Il significato spirituale della tecnologia digitale

La fede nell’ambiente digitale.

Alcune sfide importanti:

  1. Dalla pastorale della risposta alla pastorale della domanda
  2. Dalla pastorale centrata sui contenuti alla pastorale centrata sulle persone
  3. Dalla pastorale della trasmissione alla pastorale della testimonianza
  4. Dalla pastorale della propaganda alla pastorale della prossimità
  5. Dalla pastorale delle idee alla pastorale della narrazione
  6. Dalla pastorale della voce e del testo a quella (anche) dell’immagine
  7. Dalla comunità al network e viceversa
  8. Dal pensare in gruppo al pensare in rete
  9. Chi è il mio «prossimo»?
  10. Una pastorale attenta all’interiorità e all’interattività

La rete non è certo priva di ambiguità e utopie. In ogni caso la società fondata sulle reti di connessione comincia a porre sfide davvero significative sia alla pastorale sia alla comprensione stessa della fede cristiana, a partire dal suo linguaggio di espressione. Le sfide sono esigenti. Il nostro compito lo è altrettanto.

Antonio Spadaro, sj

 

Fonte: http://docplayer.it/4984018-L-evangelizzazione-e-la-rete-opportunita-e-illusioni-p-antonio-spadaro.html

 

 

[1] S. TURKLE, Alone together. Why we expect more from technology and less from each other, New York, Basic Books, , 2011.

[2] Cfr B. E. BRASHER, Give Me That Online Religion, New Brunswick (NJ), Rutgers University Press, 2004, 116-119, cioè il paragrafo: «Who Is Our Virtual Neighbour?».

Non tramonti il sole…

non-tramontiE’ con viva trepidazione che mi accingo a dire soltanto qualcosa sul tema. Lo faccio consapevole che, prima ancora di parlare a voi, è un dialogo intenso con il mio cuore, anche perché, durante tutta la mia vita, ho sempre sentito la fecondità della beatitudine “Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia” (Mt 5,7).

La domanda che mi sono posta più volte è: Che cosa è la “Misericordia“?

Papa Francesco, nella sua Bolla d’indizione del Giubileo che stiamo vivendo, dice: “Misericordia è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda il fratello con occhi sinceri“.

Già San Giovanni XXIII, nel suo discorso d’inaugurazione del Concilio Vaticano II, aveva detto: “Oggi la Chiesa preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che della severità“.

Possiamo allora dire che la misericordia è una medicina per la nostra vita così spesso infarcita, non dico di odio e di vendetta, ma di indifferenza e di egoismo.

L’uomo ha tanto bisogno di misericordia. Fragile, minacciato, impaurito, assetato di giustizia, cerca disperatamente misericordia. Da Dio e dai fratelli. E’ stanco di sentirsi giudicato e di vedersi respinto: ha bisogno, invece, di sapersi amato, di sentirsi accolto e compreso.

Una stupenda definizione dell’uomo fu data dal Beato Paolo VI, quando disse che l’uomo è uno “sconfinato e fecondo bisogno d’amore“. Un bisogno d’amore… Infatti

Se guardiamo dentro di noi,

se giriamo lo sguardo intorno a noi,

se sappiamo penetrare oltre le maschere che spesso portiamo,

scorgiamo che ognuno di noi ha bisogno di essere amato quanto ha bisogno del pane e, talvolta, più del pane.

San Basilio il Grande chiarisce meglio il concetto, sottolineando che “lo spirito dell’uomo ha in sé la capacità e anche il bisogno di amare“.

Che dice la Scrittura in proposito?

Nel Cantico dei Cantici leggiamo: “Le grandi acque non possono spegnere l’amore” (Ct 8,7).

Quali sono queste grandi acque per noi consacrati?

Sono i grigiori dei giorni, la monotonia delle ore che si susseguono, la stanchezza, a volte la delusione, la difficoltà di vivere gomito a gomito.

Le grandi acque sono: il venir meno nel fervore, le amarezze improvvise, le tentazioni che ci scombussolano.

Le grandi acque non possono spegnere l’amore“, è vero, ma a condizione che l’amore si viva, che sia continuamente rinnovato, costantemente alimentato, che sia quotidianamente purificato e approfondito.

I poveri d’amore stanno vicino a noi. In certo modo siamo tutti poveri di amore e tutti abbiamo bisogno di misericordia. Dobbiamo, però, dire che non è sempre facile vivere la misericordia, soprattutto la misericordia spirituale. E’ molto più immediato fare, agire, operare. E’ decisivo allora saper cogliere il cuore delle cose.

Una delle sette opere di misericordia spirituale è: Perdonare le offese.

Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi(Col 3,13).

Perdonare, però, non è facile, anche se noi, per esperienza, sappiamo che, come diceva un grande, quando si ha un ideale anche gli scogli diventano strada. Ma bisogna che questo l’ideale sia sempre luminoso e affascinante.

Se siamo sinceri con noi stessi, dobbiamo confessare che tante volte abbiamo scoperto e scopriamo che il Signore sa piegare la durezza del nostro cuore e, in un mondo lacerato da lotte e discordie, lo ha reso e continua a renderlo disponibile alla riconciliazione e al perdono.

Noi persone consacrate abbiamo il vantaggio di vivere in una comunità con tante risorse di intelligenza, di operosità, di disponibilità. Queste risorse, però, attendono di essere convogliate in un unico flusso di comunione, contro le facili tentazioni dell’individualismo e dell’isolamento, altrimenti si contribuisce a tessere una fitta rete di rapporti in cui ci sentiamo soltanto dei numeri.

A volte ho sentito dire da qualcuno:

Spesso l’altro ti passa accanto senza neanche accorgersi di te.

In comunità ti senti di tutti e di nessuno.

Ti cercano finché vali, finché fai comodo, finché sei in buona salute.

Poi ti ritrovi a fare i conti con la tua solitudine“.

Devo confessare che queste considerazioni mi danno sempre tanta tristezza. Certamente ognuno ha da fare; oggi si corre vertiginosamente e nervosamente. Non si ha più il tempo di guardarsi negli occhi, di raccontarsi le cose, di farsi il dono della tenerezza.

Ma, allora, a che cosa valgono le risorse di intelligenza e di operosità, a cui accennavo?

Perché in certi momenti della vita sapere non basta; c’è tanta gente che sa e non sa amare e non sa perdonare.

     Sapere non basta! Non basta nei momenti di tempesta, quando si scatena l’uragano della vita, non basta nei momenti di tentazione, di solitudine, di paura.

sapere non basta; occorre aver accolto e continuare ad accogliere col cuore il fratello.

Un grande filosofo contemporaneo, Emanuel Levinas, ha detto:

Il primo millennio è stato contrassegnato dalla ricerca dell’essere;

il secondo dalla ricerca dell’io;

il terzo sarà (dovrebbe essere, dico io) invece caratterizzato dalla ricerca dell’altro“.

La ricerca dell’altro, quindi, l’impegno nel dialogo, un dialogo vero che ci permette di crescere e creare comunione.

Il guaio nostro è che quando le cose vanno male, quando ci sentiamo feriti, per prima cosa che facciamo? Chiudiamo, abbassiamo il sipario e quindi togliamo la comunicazione; rimaniamo chiusi in noi stessi, chiusi dentro il nostro egoismo, dentro la cosiddetta nostra sensibilità, dentro le nostre esperienze e non riusciamo a uscirne per aprirci agli altri.

Una delle cause più forti del malessere di noi consacrati è proprio la mancanza di perdono, dato e ricevuto, mancanza che procura spirito di animosità e di rivalsa. Vogliamo comprensione e perdono, ma noi perdoniamo sempre le offese che riceviamo? o, come talvolta si sente dire:

Non tocca a me chiedere perdono… lui (lei) è più giovane…

e poi io che cosa ho fatto di male?…

ma lui (lei) si rende conto di come mi ha trattato, di cosa mi ha detto?

Eppure sappiamo ciò che Paolo scrive ai Romani: “Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole” (13,8).

La mia Fondatrice, la venerabile Brigida Postorino, diceva a noi Suore: “Quante volte la parola spontanea vorrebbe la rivincita, quante volte il desiderio di rivalsa ci spinge. La persona generosa invece ricambia la freddura con l’amore, la sgarberia con la dolcezza, con la squisitezza dei modi, l’indifferenza con l’aiuto” (C 1916).

L’abbiamo già detto, il perdono fraterno è una cosa difficile, anche perché se vogliamo la riconciliazione completa, non deve volerla una sola persona, dobbiamo essere in due a volerla.

E’ vero, il perdono e la riconciliazione si basano sulla chiarezza e sulla verità di ciò che può essere stato causa di tensione e di scontro; prima di chiedere o dare il perdono, però, devo togliere l’acredine dal mio animo, devo prima rasserenarmi e poi si può arrivare alle spiegazioni…. (Non lasciamo passare, però, molto tempo prima di rasserenarci).  Molte volte basta un sorriso ed è fatto il primo passo; avere cioè l’atteggiamento di chi non punta il dito, ma porge la mano aperta del perdono.

Non mancano grandi esempi di richiesta e di dono di perdono, anche nella storia della Chiesa. Ricordiamo l’incontro, a Gerusalemme, nel 1964, del Beato Paolo VI con il Patriarca Athenagoras e gli incontri voluti dai Papi più vicini a noi: San Giovanni Paolo II, Benedetto XVI ed ora Papa Francesco.

E noi, nel nostro piccolo, come ci comportiamo?

Del salmo 23, teniamo presente quel versetto che dice: “Chi salirà il monte del Signore? Chi starà nel suo luogo santo?“. A quali condizioni possiamo presentarci al Signore? La risposta è nel Salmo: “Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non giura a danno del suo prossimo“.

 E cuore puro vuol dire cuore semplice. Semplice, “simplex”, cioè: “sine plica“, senza piega; perché tra una piega e l’altra non si sa mai quello che si può nascondere.

 Chiediamoci: abbiamo noi un cuore semplice, trasparente, un cuore umile che non sa e non vuole tenere i ponti tagliati con l’altro?

 Tanti, tra i consacrati, sono eternamente inquieti, perché non sono riconciliati. Riconciliati con chi? Prima di tutto con se stessi, con la propria vocazione e poi con gli altri. Dobbiamo diventare per il nostro prossimo testimoni dell’amore. Dobbiamo far sentire al fratello, alla sorella che “amore, pietà e tenerezza è il Signore” (Sal 110).

Purtroppo siamo sempre pronti a lamentarci della dimenticanza, del torto subito, e non ci accorgiamo di quello che noi stessi pratichiamo a danno degli altri. Quante volte, dopo un’offesa, non riusciamo a prendere sonno la notte; siamo andati a letto non ricordandoci di quanto San Paolo scrive agli Efesini: “

E se passano giorni, mesi, senza che ci sia l’esperienza corroborante del perdono, dell’amore, della tenerezza, è evidente che il logorìo della vita, contribuisce a svuotarci anche di senso.

E’ pienamente naturale che con alcune persone ci troviamo subito bene; con altre, invece, non riusciamo ad ingranare. E ci vuole coraggio nel disporci ad accettare chi ci sembra che ci ostacoli. E’ faticoso, ma col perdono, tanti spigoli vengono smussati. Ed è tutto di guadagnato, perché, di riscontro, si trova tranquillità e serenità.

   In caso contrario, se non si ha il coraggio di perdonare, si resterà sempre in una situazione di conflitto, di insoddisfazione, di pesantezza e, in definitiva, facciamo male a noi stessi.

Questa è la nostra vita, soprattutto la vita comune; ma non ricordiamo che tutto può essere recuperato nella preghiera? Abbiamo fatto l’esperienza di pregare, per una settimana, per un mese, 10 minuti ogni giorno, proprio per quel fratello, per quella sorella con cui non riusciamo ad andare d’accordo e quindi non riusciamo ad esprimergli il perdono e la tenerezza?

Qualcuno può obiettare: che c’entra la preghiera? a volte ci vuole altro per saper concedere il perdono, dopo un’offesa. Eppure io dico, per esperienza, che le cose, dopo la preghiera, si vedono diversamente, si vivono diversamente, proprio perché, in quella preghiera, sono costretta a guardarmi dentro con coraggio e a riprendere in mano la mia vita. Infatti, per saper perdonare, occorre fare l’esperienza del proprio limite, occorre toccare con mano il proprio nulla e sapersi ridimensionare.

Certo, il nostro vivere, soprattutto in comunità, non è mai semplice; infatti non è facile far ruotare in armonia persone molto diverse fra loro per carattere, formazione, cultura e, di conseguenza, vi sono continuamente motivi per urtare ed essere urtati.

Come reagiamo a tutto questo?

La risposta la possiamo trovare nel salmo 26: “In te mi rifugio, Signore“, non nella consorella perché mi dia ragione contro la responsabile o contro l’altra consorella. Questo è tempo perso, anzi serve solo ad avvelenare il clima generale.

Tra noi può anche succedere, e succede, che io mi senta offesa, mi sento umiliata; si è creato uno stato di sofferenza o con la comunità, o con una singola persona della comunità e allora io mi tiro indietro anche nella preghiera comune, perché non voglio vedere nessuno.

E’ allora, invece, che il Signore mi dà appuntamento là, con quel gruppo, dove magari c’è il carattere più difficile, con cui non riesco a capirmi facilmente, da cui non mi sento compresa; caratteri che facilmente entrano in frizione e stridono.

Perdonare come sono stata e vengo continuamente perdonata io da Dio.

E’ poi bello superarsi in certi momenti; Come? L’ho già detto:

con l’ascolto, il dialogo, il rispetto reciproco soprattutto, il mutuo sostegno, così si affinano i temperamenti e si fanno scendere piogge di grazia sulla nostra vita e sulla comunità intera.

Un proverbio, non ricordo più se cinese o giapponese, dice: “Il tuo avversario è il tuo più grande benefattore“. Infatti quello che io che non sopporto o che penso non mi sopporti, è colui che mi dà l’occasione, se sono una persona di buon senso, però, se sono umile, mi dà l’occasione di correggermi e crescere (anche se son vecchia).

Ognuno di noi dovrebbe sempre tenere presente ciò che dice il Salmo 83: “Beato chi trova in te la sua forza, o Signore (…) cresce lungo il cammino il suo vigore“. Ma come, camminando, vivendo, sopportando le fatiche della vita comune e talvolta anche le offese, non ci si stanca, anzi cresce il vigore?

A me fa sempre tanta impressione vedere, per fortuna soltanto qualche volta, persone che quando hanno deciso di diventare sacerdoti o religiose erano splendenti, come ho già sottolineato, erano luminosi, leggevi nei loro occhi la felicità di essere stati scelti dal Signore; li incontri dopo qualche anno e sono spenti.

Come mai? Non è cresciuto il vigore lungo il loro cammino?

Come mai sono diventati tristi e talvolta irascibili, tanto da non sopportare alcunché e da non saper perdonare? con la tentazione di sgusciare, di sottrarsi, di arenarsi, di tornare indietro e riprendersi al dettaglio quello che, in un momento di generosità, avevano donato all’ingrosso.

Come mai?

La risposta è chiara: è mancato e manca l’impegno durante il viaggio, un viaggio che porta con sé tutte le sorprese, le sofferenze, i rischi, le difficoltà.

E non si ha la forza o la volontà di vincersi.

Certo se dovessimo contare solo sulle nostre forze, è chiaro che tutto è fallimentare; ma noi non contiamo soltanto sulle nostre risorse; noi contiamo sulla fedeltà di Dio. “Se noi siamo infedeli, Lui rimane fedele” (2Tim 2,13) dice San Paolo.

Mi piace concludere con quanto scrisse Don Tonino Bello, il quale riferiva di aver letto da qualche parte che “gli uomini sono angeli con un’ala soltanto; possono volare solo rimanendo abbracciati“.

Mi permetto, allora, un consiglio: quando tra noi i rapporti sono difficili, quando si respira aria pesante, quando regna la sfiducia, il disfattismo, il disimpegno dobbiamo ripetere l’invocazione delle Lodi del martedì della I settimana del Salterio: “Signore, fa’ che nessuno sia rattristato per causa mia“,

perché tutti siamo chiamati a creare comunione,

a nessuno è lecito mettersi in veste di spettatore

o peggio ancora mettersi sul trono del giudice,

ma metterci tutti nell’atteggiamento di chi accoglie, comprende, ama e perdona.

suor Loretana Grosso, F.M.I.

Instancabile operatrice di misericordia

madre-teresa-di-calcutta1…La sequela di Gesù è un impegno serio e al tempo stesso gioioso; richiede radicalità e coraggio per riconoscere il Maestro divino nel più povero e scartato della vita e mettersi al suo servizio. Per questo, i volontari che servono gli ultimi e i bisognosi per amore di Gesù non si aspettano alcun ringraziamento e nessuna gratifica, ma rinunciano a tutto questo perché hanno scoperto il vero amore. E ognuno di noi può dire: “Come il Signore mi è venuto incontro e si è chinato su di me nel momento del bisogno, così anch’io vado incontro a Lui e mi chino su quanti hanno perso la fede o vivono come se Dio non esistesse, sui giovani senza valori e ideali, sulle famiglie in crisi, sugli ammalati e i carcerati, sui profughi e immigrati, sui deboli e indifesi nel corpo e nello spirito, sui minori abbandonati a sé stessi, così come sugli anziani lasciati soli. Dovunque ci sia una mano tesa che chiede aiuto per rimettersi in piedi, lì deve esserci la nostra presenza e la presenza della Chiesa che sostiene e dona speranza”. E, questo, farlo con la viva memoria della mano tesa del Signore su di me quando ero a terra.

Madre Teresa, in tutta la sua esistenza, è stata generosa dispensatrice della misericordia divina, rendendosi a tutti disponibile attraverso l’accoglienza e la difesa della vita umana, quella non nata e quella abbandonata e scartata. Si è impegnata in difesa della vita proclamando incessantemente che «chi non è ancora nato è il più debole, il più piccolo, il più misero». Si è chinata sulle persone sfinite, lasciate morire ai margini delle strade, riconoscendo la dignità che Dio aveva loro dato; ha fatto sentire la sua voce ai potenti della terra, perché riconoscessero le loro colpe dinanzi ai crimini – dinanzi ai crimini!della povertà creata da loro stessi. La misericordia è stata per lei il “sale” che dava sapore a ogni sua opera, e la “luce” che rischiarava le tenebre di quanti non avevano più neppure lacrime per piangere la loro povertà e sofferenza.

La sua missione nelle periferie delle città e nelle periferie esistenziali permane ai nostri giorni come testimonianza eloquente della vicinanza di Dio ai più poveri tra i poveri. Oggi consegno questa emblematica figura di donna e di consacrata a tutto il mondo del volontariato: lei sia il vostro modello di santità! Penso che, forse, avremo un po’ di difficoltà nel chiamarla Santa Teresa: la sua santità è tanto vicina a noi, tanto tenera e feconda che spontaneamente continueremo a dirle “Madre Teresa”. Questa instancabile operatrice di misericordia ci aiuti a capire sempre più che l’unico nostro criterio di azione è l’amore gratuito, libero da ogni ideologia e da ogni vincolo e riversato verso tutti senza distinzione di lingua, cultura, razza o religione. Madre Teresa amava dire: «Forse non parlo la loro lingua, ma posso sorridere». Portiamo nel cuore il suo sorriso e doniamolo a quanti incontriamo nel nostro cammino, specialmente a quanti soffrono.

Apriremo così orizzonti di gioia e di speranza a tanta umanità sfiduciata e bisognosa di comprensione e di tenerezza.

 

Papa Francesco, Omelia , Canonizzazione di Madre Teresa di Calcutta

Roma, 4 settembre 2016

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