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Per crescere

La misericordia nell’Islam

3La misericordia è un tema comune delle due religioni, cristianesimo e islam, una parola “ponte” come si dice.

Il Corano, la fonte principale della dottrina e dell’etica islamiche, abbonda di citazioni della rahma, parola che traduciamo spesso con “misericordia”. Ad esempio, 113 delle 114 sure coraniche iniziano con la basmala (l’invocazione bismi-llā al-Rahmān al-rahīm, tradotta in diversi modi nelle edizioni italiane: “Nel nome di Dio il Clemente, il Compassionevole” oppure “il Compassionevole, il Misericordioso”, evidenziando la difficoltà di esprimere fedelmente la semantica della rahma). Il musulmano devoto recita la basmala 5 volte nelle preghiere rituali giornaliere e in molte altre occasioni. Rahma deriva dalla radice araba RHM, la stessa nella lingua ebraica, e nell’Antico Testamento la parola rahamīm significa le viscere materne di Dio, pieno di misericordia, tenerezza e compassione.

Che significano Rahmān e rahīm? Al-Rahmān nel Corano è riferito soltanto a Dio, in un certo periodo della predicazione coranica, accanto al nome Allāh: “Invocatelo con il nome di Dio (Allāh), oppure invocatelo con il nome di Clemente (al-Rahmān)” (17, 110). Dio è Rahmān per i benefici che dispensa all’uomo: è il Provvidente. Tali benefici si manifestano nella creazione (vedi l’intera sura 55) e nell’invio di profeti ai popoli, alcuni recanti una Scrittura. Di Muhammad il Corano afferma “Noi ti abbiano inviato solo come misericordia per i mondi” (2, 107), come anche del “profeta” Gesù (19, 21-22).

Ma il Clemente non investe totalmente il campo semantico del Misericordioso cristiano, il Padre, l’Amore. Ad esempio nell’islam la misericordia divina non previene la conversione del peccatore, Allāh ama piuttosto quelli che adempiono la legge. In Lui coesistono misericordia e ira: “In quel giorno il regno vero sarà del Clemente (Rahmān), un giorno terribile per chi non crede”. E nei confronti della “gente del Libro”, i giudei e i cristiani, si dice: “Voi che credete non prendete come alleati gli ebrei e i cristiani […] quelli che dicono: ‘Dio è il terzo di tre’” (5, 51.72).

La misericordia di Dio, in senso islamico, si comprende alla luce della teologia coranica, per la quale amore e tenerezza sono attitudini creaturali di debolezza che non si addicono alla divinità, impassibile, onnipotente e trascendente e che, predicate di Dio, Lo renderebbero vulnerabile come la creatura. Pertanto il termine rahma esprime piuttosto l’idea di dono, di atto gratuito di bontà e benevolenza di Dio, Creatore generoso e Sovrano assoluto, a favore dell’uomo e del creato.

Rahīm è un aggettivo che qualifica l’agire sia di Dio sia degli uomini. L’azione di Dio è selettiva, abbraccia i veri credenti, i musulmani, “quelli che hanno creduto e agito bene (19, 96), “chi ha timore di Lui” (3, 76), “coloro che confidano in Lui” (3, 159). Per loro è il perdono e il paradiso: “Dio ha promesso perdono ed enorme ricompensa a quelli che credono e compiono azioni pure, mentre quelli che non credono e accusano di menzogna i Nostri segni sono i compagni della Geenna” (5, 9-10). Il Suo agire resta libero e arbitrario: “Egli perdona chi vuole e punisce chi vuole” (3, 129).

Dio non perdona mai l’“associazionismo” (associare a Dio altre divinità, non solo gli idolatri ma anche i cristiani che adorano la Trinità, compresa come tre-divinità), e nemmeno perdona l’apostasia dall’islam: “Quanto a quelli che avranno abbandonato la loro fede… tutte le loro azioni in questo mondo e nell’aldilà saranno vanificate, ecco quelli del fuoco, dove resteranno in eterno” (2, 217).

Il Clemente, il Misericordioso coranico non è il buon Pastore del Vangelo, che va in cerca del peccatore, il Corano non distingue fra “peccato” e “peccatore”. Manca, inoltre, nell’islam, la dottrina del purgatorio, cioè di un tempo suppletivo di purificazione.

Rahīm, dicevamo, connota anche l’azione misericordiosa dell’uomo, più volte sollecitata nel Corano ed espressa in modo esemplare ed esauriente in un hadīth qudsī (cioè un “detto del Profeta” che trasmette le parole di Dio stesso).

Da Abū Hurayra (Allāh sia soddisfatto di lui) che disse: “L’Inviato di Allāh (la Grazia e la Pace divine siano su di lui) ha detto: “Allāh il Giorno della Resurrezione dirà: ‘O figlio di Adamo, ero ammalato e non Mi hai visitato’; l’uomo dirà: ‘O Signore, e come avrei potuto visitarTi quando Tu sei il Signore delle creature?’ Egli dirà: ‘Non sapevi che il tale Mio servo era ammalato e non l’hai visitato? Non sapevi che se tu l’avessi visitato Mi avresti trovato presso di lui? O figlio di Adamo: ti ho chiesto da mangiare e non Mi hai dato da mangiare’; l’uomo dirà: ‘O Signore, e come avrei potuto darTi da mangiare quando Tu sei il Signore delle creature?’ Egli dirà: ‘Non sapevi che il tale Mio servo ti ha chiesto da mangiare, e non gli hai dato da mangiare? Non sapevi che se tu gli avessi dato da mangiare avresti trovato che ciò era per Me?’”.

Mentre è evidente la contaminazione evangelica del hadīth, risaltano al contempo le differenze laddove il Dio coranico non si “mescola” con la creatura, poiché l’islam respinge la dottrina dell’incarnazione divina, e in quanto l’hadīth non ha un significato universale. Infatti, beneficiari dell’azione misericordiosa del musulmano non sono il “prossimo”, ma i “vicini”, cioè i parenti o gli appartenenti alla propria comunità di fede. Sappiamo però che lo Spirito soffia ovunque e che i cristiani, testimoniando la misericordia, seminano misericordia. Come non ricordare allora quei musulmani che hanno perso la vita contrapponendosi alle violenze dei mujaheddìn dell’Isis, per salvare amici e vicini cristiani?

don AUGUSTO NEGRI

dalla Rivista Andare alle genti

per gentile concessione

Don Augusto Negri, direttore del Centro studi Peirone, di Torino, ci offre una esposizione molto interessante del tema della misericordia di Dio nell’islam. I numeri tra parentesi si riferiscono alla sura e ai versetti del Corano.

Spunti sull’Islam

È possibile riassumere una presentazione dell’Islam in poche battute? Assolutamente no. Mi limiterò a qualche veloce suggestione sui temi chiave lasciando al lettore l’interesse per ulteriori approfondimenti.

Forse nessun credo, nessun testo sacro, nessuna filosofia è così intrinsecamente unita alla biografia del proprio fondatore. La rivelazione proposta dal Corano è continuamente legata ad episodi vissuti dal Profeta e dalla nascente comunità.1

Muhammad (Maometto) nasce nella potente tribù dei Quraish a La Mecca circa nel 570, da una donna da poco vedova. È cresciuto prima dal nonno e poi da uno zio che lo avviano all’attività di carovaniere. Giovane brillante e molto attivo, diventa segretario di una ricca vedova, Khadijia, che poi sposerà a 25 anni, pur avendone lei 40. Ne nasceranno diversi figli, tra cui la prediletta Fatima. Nel 610, a 40 anni, inizia a sentire la voce dell’arcangelo Gabriele che gli porta la rivelazione da parte del Dio “uno e unico”, Allah (Allah significa Dio nella lingua araba). Da qui si dipanano le rivelazioni che avranno termine solo nel 632, alla sua morte a Medina.

Inizia a diffondere il nuovo credo nella sua città dove viene attaccato e osteggiato tanto che nel 622 decide di emigrare a Yatrib (poi Medina) con pochi compagni convertiti. È l’anno dell’Egira da cui parte il computo del tempo per il mondo islamico. In questa città diventa il leader religioso, politico e sociale e da qui iniziano le spedizioni per assoggettare le tribù che abitano le circostanti oasi della penisola araba, fino ad occupare La Mecca nel 630.

La rivelazione, tutta orale, poi raccolta da Othman, suo terzo successore, nel testo che oggi noi conosciamo come Corano, ha una pretesa di assolutezza che nessun altro libro sacro propone. Il Corano non è considerato soltanto un testo rivelato bensì munzal, disceso, e quindi è la trascrizione letterale di un Corano “increato” che si trova da sempre presso Dio, la Parola di Dio. La rivelazione divina tocca tutti gli aspetti della vita: da quelli strettamente religiosi a quelli politici a quelli sociali, plasmando quindi a 360 gradi l’esistenza dell’uomo.

Se l’Islam si presenta come una rivelazione data e non intaccabile da mano umana, è pur vero che nella realtà storica si sono dovute dare interpretazioni e questo ha portato ad una continua tendenza alla pluralità di posizioni e di voci, tutte ugualmente autorevoli. L’Islam proclama che non esiste autorità se non quella di Allah, ma la mancanza di una gerarchia ufficiale, universalmente riconosciuta, ha determinato la nascita di molti poli autorevoli che spesso levano la loro voce in modo del tutto contraddittorio. Dimostrazione lampante di questo è il tema del jihad. L’argomento, diventato consueto dopo i tanti attentati e la presenza di al-Qaida e Isis, ha visto emergere dichiarazioni antinomiche sul suo significato: da chi lo intende solo uno sforzo spirituale sulla strada verso Dio, a chi invece insiste sul suo carattere bellicoso ed obbligatorio per tutti i musulmani autentici. Questo dipende dal fatto che esistono due letture del Corano e della Tradizione (sunna): una lettura opta per i versetti che invitano alla tolleranza nei confronti degli altri credenti, accanto ad una seconda lettura, altrettanto legittima, che preferisce i versetti che invitano al conflitto.

Su cosa basa la propria fede il pio muslim? Il credo si riduce a poche cose: Non c’è dio se non il Dio e Muhammad è il suo profeta. Questo è il testo della shahada, il primo dei 5 pilastri della fede. Chiunque recita con cuore sincero questa frase è automaticamente un musulmano. Altro pilastro è la preghiera quotidiana (salat), tributo di lode e di sottomissione ad Allah, da compiere secondo un ben preciso rituale cinque volte al giorno: al sorgere del sole, a mezzogiorno, all’inizio del calar del sole, all’imbrunire e alla sera.

Vi è poi una particolare attenzione alle esigenze della comunità dei fedeli (la umma), verso cui si deve versare una elemosina rituale annua (zakat) che ha lo scopo di sovvenire alle necessità della conversione degli infedeli, al sostegno verso le persone indigenti, a favorire il pellegrinaggio alla Mecca (altro pilastro, hajj), da compiere almeno una volta nella vita. Il pilastro forse più noto a tutti è il digiuno (sawn) nel mese di ramadan, che impegna tutti i musulmani adulti e sani ad astenersi da cibi e bevande dall’alba al tramonto per un mese lunare di 28 giorni.

In questo terzo millennio non si può evitare di parlare del rispetto dei diritti umani. Se il pensiero corre subito al problema della donna (anche se molte banalità non vere vengono dette a questo proposito), occorre invece partire dai principi ispiratori. Allah, dopo la creazione, ha proposto un patto di sottomissione ad Adamo che lui ha accettato per sé e per i suoi discendenti. Quindi tutti gli uomini nascono naturalmente muslim (sottomessi ad Allah). Sono poi le condizioni esistenziali che allontanano alcuni dalla verità e quindi anche dalla loro piena dignità di esseri umani. Gli uomini non sono uguali per dignità, in quanto partecipano tutti della comune umanità ma godono di diritti differenziati rispetto al loro livello più o meno vicino all’Islam, in una scala gerarchica che vede dopo il pio muslim, le Genti del Libro (cristiani ed ebrei) e poi tutti gli altri. Da questo discendono ovviamente preoccupanti violazioni della libertà religiosa (non è lecito convertirsi), della libertà personale (si può essere ridotti in schiavitù come recentemente succede nei territori dominati dall’Isis), si può essere messi di fronte all’alternativa “o conversione o morte”, una donna non può sposare un uomo che appartenga ad altra religione, e via dicendo.

La tradizione prevede che la pena da infliggere all’apostata sia la morte e che la condizione degli appartenenti ad altre religioni monoteiste sia quella di dhimmi, ovvero “protetti” dietro il pagamento di una apposita tassa (la jizya che nei territori dell’Isis viene oggi imposta, alternativa all’esilio entro 48 ore) e quindi mai cittadini a pari livello con un muslim.

Parlando di Islam oggi è inevitabile affrontare altri temi: la crescente presenza di musulmani in Europa; il rapporto con il mondo cristiano; il terrorismo di stampo jihadista sempre più presente; le forti tensioni interne al mondo arabo per cui molti politologi parlano di vera e propria guerra civile. Temi forti su cui non ci si può soffermare in questo articolo, ma su cui è doveroso evitare le chiacchiere qualunquiste per lasciare posto ad uno studio serio della realtà: il vero dialogo si può fare solo nella reciproca verità di posizioni e nella reale conoscenza di entrambe le fedi; l’azione politica si può svolgere solo nella consapevolezza che le mentalità e le tradizioni culturali sono realmente diverse.

Come ha detto Papa Benedetto XVI: “Al Dio del Corano vengono dati i nomi tra i più belli conosciuti dal linguaggio umano, ma in definitiva è un Dio al di fuori del mondo, un Dio che è soltanto Maestà, mai Emmanuele, Dio-con-noi. L’islamismo non è una religione di redenzione. Non vi è spazio in esso per la Croce e la Resurrezione”.

Silvia Scaranari

dalla Rivista Andare alle genti

per gentile concessione

L’autrice dell’articolo, Silvia Scaranari Introvigne, già preside del liceo Faà di Bruno di Torino, è un’esperta islamologa e collabora da molti anni con il Centro studi Peirone, organismo dell’Arcidiocesi di Torino, che ha come fine la promozione e cura delle corrette relazioni di dialogo religioso tra la Chiesa cattolica e il mondo musulmano. È redattrice della rivista “Il Dialogo/al-Hiwar” e dà il suo contributo nei diversi corsi che si svolgono presso il Centro.

 

Coltivare le virtù nei social network

Come possiamo educare i ragazzi e gli adulti di oggi ad acquisire un “uso umano” per cogliere le potenzialità e le opportunità dei dispositivi digitali? Esiste uno stile cristiano che dia una forma alla nostra “presenza digitale” nei social network? Infine, concretamente, cosa significa fare “pastorale digitale”?

Rivoltella, nel suo testo “Le virtù del digitale. Per un’etica dei media”, riprendendo le tradizionali virtù (cardinali e teologali) sviluppa una nuova logica di approccio allo scenario digitale. virtù1La virtù è “un dispositivo” etico e umano e si costruisce attraverso la pratica; presuppone, quindi, un processo di crescita del soggetto: l’uomo virtuoso è, infatti, colui che agisce con consapevolezza e responsabilità. In una società come la nostra, intessuta dai media digitali, diventa di vitale importanza lavorare (educare, fare pastorale) per aiutare le persone a diventare “soggetti virtuosi” anche nel loro quotidiano “scenario digitale”.

Ecco che, attraverso “la crescita nelle virtù”, diventa possibile attivare efficienti ed efficaci percorsi educativi, assumere uno stile cristiano anche nel digitale: fare, quindi, pastorale digitale.

LA VIRTÙ DELLA PRUDENZA

Essere prudenti nello scenario dei social network significa: … saper viaggiare informati, acquisire una competenza digitale per distinguere ciò che è vero da ciò che è falso; essere consapevoli di cosa si pubblica e come si pubblica, perchè un contenuto una volta pubblicato può difficilmente rimanere sotto il proprio controllo; essere responsabili della propria comunicazione, pesare le parole e rispettare la netiquette, evitare lo spam (condividere contenuti inutili).

LA VIRTÙ DELLA GIUSTIZIA

Nella rete essere giusti vuol dire: …diffondere pari opportunità di comunicazione; permettere che tutti possano esprimere, liberamente senza pregiudizio e prevaricazione, il proprio punto di vista.

LA VIRTÙ DELLA FORTEZZA

Essere forti nei social network significa: …tenersi lontano dal conformismo e pensare con la propria testa anche a costo di diventare impopolari; condividere contenuti non per ricevere like ma per partecipare agli altri il proprio punto di vista; esercitare un pensiero critico.

LA VIRTÙ DELLA TEMPERANZA

Agire nella temperanza vuol dire: … sapersi controllare per non abbandonarsi agli eccessi; nell’utilizzo dei media assumere un atteggiamento riflessivo al fine di distinguere i bisogni effettivi; assumere la consapevolezza di quanto sia necessario essere online e quanto essere offline.

LA VIRTÙ DELLA FEDE

Nei social network ci si trova continuamente di fronte al dubbio se fidarci o meno di ciò che viene comunicato, e se sì sino a che punto. Comunicare alla luce della virtù della fede significa mostrarsi affidabili, evitare ogni forma di maschera e di simulazione, trasmetter e promuovere i valori umani.

LA VIRTÙ DELLA SPERANZA

Il web vive di velocità, il tempo sembra mancare e ne consegue un appiattimento della dimensione del presente: il tempo della rete sembra, infatti, un eterno presente. Comunicare con tale virtù, pertanto, vuol dire dare spazio all’immaginazione, rinunciare alla comodità rassicurante del format, evitare i conformismi e i modelli standard. Non limitarsi a condividere contenuti ma generare novità, cose nuove per il bene degli altri.

LA VIRTÙ DELLA CARITA’

Oggi, grazie ai media, siamo costantemente informati sui mali che affliggono l’umanità; i media eliminano l’impatto dello spazio ed estendono a dismisura la nostra possibilità di conoscere la sofferenza che attraverso l’umanità. «Il problema è che la sofferenza globale cade fuori dai confini del nostro mondo di incidenza». Il rischio forte è che la nostra partecipazione si fermi all’indignazione e/o commozione. «Se i media sono troppo vicini può perdersi la neutralità del giudizio; quando i media sono troppo lontani ci si orienta verso solo i vicini (le nostre vittime) tralasciando il resto; quando i media non sono ne vicini e ne lontani si crea la falsa neutralità, facendo spettacolo delle notizie». Bisogna capire che i media, per quanto riguarda la vicinanza spaziale, sono sempre distanti, cioè posso indignarmi, partecipare alla sofferenza, ma come posso esprimere la mia carità? Un modo può essere quello di imboccare la strada della partecipazione che non si accontenta del like o della condivisione della notizia ma di creare occasioni di prossimità verso i fratelli bisognosi.

don Alessandro Palermo

elementidipastoraledigitale.wordpress.com

Riferimenti al testo di P. C. Rivoltella, Le virtù del digitale. Per un’etica dei media, Morcelliana, Brescia 2015.

 

Imprevisti e progetti

IFLa vita è un tessuto nel quale si intrecciano i fili che possiamo chiamare « il filo dei progetti» e « il filo degli imprevisti ». Con il filo dei progetti (dei piani, delle previsioni…), gestito dalla spola della nostra mente indagatrice, immaginiamo il futuro, elaboriamo programmi, cerchiamo di modificare volontariamente i nostri comportamenti e le nostre reazioni…; ed è bene che sia così, perché « da principio Dio creò l’uomo e lo lasciò in balìa del suo proprio volere » (Sir 15,14). Quando davanti a noi si impone l’orizzonte dell’invecchiamento, abbiamo bisogno di esercitare la nostra capacità di affrontare questa tappa e di progettare come vogliamo viverla.

La nuova condizione è un « ignoto esistenziale » per il quale non ci vengono imposte regole rigide né modelli obbligatori: disponiamo della capacità di fare progetti su di essa, percependola come il possibile scenario per la creazione di una storia che sarà nuova, sebbene coerente con quanto abbiamo vissuto in passato. Siamo i padroni della nostra storia, non è lei a guidarci e a possederci. Nessuno può decidere da fuori come sarà la nostra vecchiaia, ed è un errore paragonarsi ad altri: nessuno può vivere vite altrui, possiamo solo vivere la nostra con le risorse e le capacità di cui disponiamo. Si tratta di giocare nel miglior modo possibile le carte che Dio ci ha dato in questa partita che è la vita. Ce lo testimoniano molte persone sagge:

«Non esiste un unico modo di invecchiare, ma dipende da come la persona interpreta e sperimenta i fatti relativamente casuali che accadono lungo il suo percorso vitale e dal tipo di approccio con il quale li affronta. (…) Niente ci esime dalla nostra responsabilità di fronte alla vecchiaia: da ciascuno dipende in buona misura come sarà la sua vecchiaia».

« L’invecchiamento è un fenomeno fluido e mutevole: le sabbie dell’età si muovono sotto i nostri piedi, adattandosi al nostro modo di vivere e di essere ».

« L’esperienza non è ciò che ti accade: è ciò che fai

con ciò che accade », dice giustamente Aldous Huxley.

Tuttavia, accanto a questo sforzo necessario e salutare,

la sapienza biblica ci raccomanda di non dimenticare

« il filo degli imprevisti »:

« Il cuore dell’uomo elabora progetti, ma è il Signore che rende saldi i suoi passi » (Prv 16,9).

«Molti sono i progetti nel cuore dell’uomo, ma solo i disegni del Signore si compiono » (Prv 19,21).

« I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore.

Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie » (Is 55,8-9).

Questa « distanza » tra progetti in realtà appare chiaramente nel tessuto vitale dei personaggi del Vangelo, e in particolare nei protagonisti delle parabole: in alcuni predomina il filo del « progetto » (il costruttore giudizioso che, prima di costruire una torre, calcola se ha abbastanza denaro per portarla a compimento; l’amministratore sagace che riuscì a evitare il proprio licenziamento guadagnandosi la fiducia dei creditori del proprio padrone…). Di altri, invece, vengono lodate le reazioni davanti all’« impre visto »: vendere tutto per comprare il campo nel quale si è trovato un tesoro; assistere un uomo ferito, anche a rischio di interrompere l’itinerario programmato (non così il sacerdote e il levita, non così…). Il figlio minore, al suo ritorno a casa, aveva preparato un discorso per l’incontro con il padre (« Trattami come uno dei tuoi salariati… »), ma fu colto di sorpresa dalla smisurata tenerezza del padre, che lo riempiva di baci e organizzava per lui un banchetto di benvenuto.

Coloro che avevano lavorato nella vigna sin dal mattino avevano la loro aspettativa di retribuzione e non seppero aprirsi alla generosità imprevedibile del padrone verso coloro che erano arrivati all’undicesima ora; e i mendicanti che dormivano fuori dalla città, ai crocicchi delle strade, non riuscivano a credere che qualcuno venisse a cercarli per essere commensali del banchetto del re.

Pietro e gli altri pescatori galilei avevano progettato una vita di lavoro attorno al lago, con le barche e i pesci, ma arrivò l’imprevedibile Gesù e li invitò a essere pescatori di uomini. E la tomba di Pietro non si trova nel modesto cimitero di Cafarnao, come forse lui sognava, bensì fu sepolto a Roma, la capitale dell’Impero, dopo il suo martirio. Anche lo stesso Gesù si muove tra progetti e imprevisti: al suo arrivo in una città pagana, aveva il fermo proposito di passare inosservato; ma la donna siro-fenicia, che sconvolse il suo proposito di passare in incognito, riuscì a cambiare le sue idee sulla priorità dovuta ai giudei, e gli strappò la guarigione della figlia. Forse credeva che avrebbe avuto più tempo per annunciare il Regno, ma la cospirazione contro di lui, la detenzione, la condanna e l’esecuzione lo sorpresero prima di quanto immaginasse.

La tappa dell’« invecchiamento » ci sarà davvero utile per renderci esperti nella gestione di questi due fili. Esiste tuttavia qualcosa di ancora più importante: porre nelle mani del Maestro Tessitore quell’arazzo che è la nostra vita, affinché sia lui a disegnarne la forma, l’ordito e i color

Dolores Aleixandre

La bellezza della sera, Vivere bene il passare degli anni, Paoline

Per gentile concessione dell’Editore

L’unità della Chiesa parla in tutte le lingue

IF_13Gli apostoli hanno parlato in tutte le lingue. Così certamente Dio volle allora manifestare la presenza dello Spirito Santo, in modo che colui che l’avesse ricevuto, potesse parlare in tutte le lingue. Bisogna infatti comprendere bene, fratelli carissimi, che è proprio grazie allo Spirito Santo che la carità di Dio si trova nei nostri cuori. E poiché la carità doveva radunare la Chiesa di Dio da ogni parte del mondo, un solo uomo, ricevendo lo Spirito Santo, poté allora parlare tutte le lingue. Così ora la Chiesa, radunata per opera dello Spirito Santo, esprime la sua unità in tutte le lingue. Perciò se qualcuno dirà a uno di noi: Hai ricevuto lo Spirito Santo, per quale motivo non parli in tutte le lingue? Devi rispondere: Certo che parlo in tutte le lingue, infatti sono inserito in quel corpo di Cristo cioè nella Chiesa, che parla tutte le lingue. Che cosa altro in realtà volle significare Dio per mezzo della presenza dello Spirito Santo, se non che la sua Chiesa avrebbe parlato in tutte le lingue?

Si compì in questo modo ciò che il Signore aveva promesso: Nessuno mette vino nuovo in otri vecchi, ma si mette vino nuovo in otri nuovi e così ambedue si conservano (cfr. Lc 5, 37-38). Perciò quando si udì parlare in tutte le lingue, alcuni a ragione andavano dicendo: «Costoro si sono ubriacati di mosto» (At 2, 13). Infatti erano diventati otri nuovi rinnovati dalla grazia della santità, in modo che ripieni di vino nuovo, cioè dello Spirito Santo, parlando tutte le lingue, erano ferventi, e rappresentavano con quel miracolo evidentissimo che la Chiesa sarebbe diventata cattolica per mezzo delle lingue di tutti i popoli.

Celebrate quindi questo giorno, come membra dell’unico corpo di Cristo. Infatti non lo celebrerete inutilmente se voi sarete quello che celebrate. Se cioè sarete incorporati a quella Chiesa, che il Signore colma di Spirito Santo, estende con la sua forza in tutto il mondo, riconosce come sua, venendo da essa riconosciuto.

Lo Sposo non ha abbandonato la sua Sposa, perciò nessuno gliene può dare un’altra diversa. Solo a voi, infatti, che siete formati dall’unione di tutti i popoli, cioè a voi, Chiesa di Cristo, corpo di Cristo, sposa di Cristo, l’Apostolo dice: Sopportatevi a vicenda con amore e cercate di conservare l’unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace (cfr. Ef 4, 2). Vedete che dove comandò di sopportarci vicendevolmente, là pose l’amore. Dove constatò la speranza dell’unità, là mostrò il vincolo della pace.

Questa è la casa di Dio, edificata con pietre vive, nella quale, egli si compiace di abitare e dove i suoi occhi non debbano essere offesi da nessuna sciagurata divisione.

Dai «Discorsi» di un autore africano del sec. VI

Misericordia ed economia

IF_economiaVorrei condividere con voi alcune riflessioni che, alla luce dell’Anno della Misericordia e in stretto legame con l’ambito economico, toccano da vicino il nostro vissuto personale e pastorale.

Ognuna di noi è consapevole dei rapidi mutamenti a livello economico, politico e sociale che stanno vivendo i nostri popoli. L’invito ripetuto di Papa Francesco a considerare come un grande male “la globalizzazione dell’indifferenza”, forse è per noi un invito a riflettere su ciò che possiamo vivere e proporre ai nostri contemporanei perché avvenga la “globalizzazione della solidarietà” e quindi vinca la misericordia.

Ci toccano da vicino le sofferenze di tanti migranti che si rivolgono all’Europa per trovare riparo dalle guerre e povertà e le reali difficoltà che affronta l’Europa per trovare la strada migliore per l’accoglienza e anche per la lotta al terrorismo. Se volgiamo lo sguardo all’Oriente, costatiamo anche lì tensioni politiche e grande diversità nel modo con cui gli Stati assicurano una politica sociale di pari opportunità, d’accoglienza e di lotta alla povertà. E in questi ultimi giorni seguiamo con preoccupazione nell’America Latina il clima teso, che scaturisce da realtà nazionali in reale difficoltà e in particolare nel Brasile che si trova in una profonda crisi politica che da qualche tempo grava sull’economia, già in difficoltà; ugualmente seguiamo la realtà del Venezuela che da anni lotta per far riemergere la democrazia e uscire da ciò che oggi si definisce come una crisi umanitaria per carenza di medicine e anche di cibo.

Ognuna di voi nel contatto quotidiano con tante realtà, avrà una visione senz’altro realista su ciò che si sta vivendo e senza dubbio si sente spronata personalmente e come comunità a dare il proprio contributo per lenire le ferite del nostro popolo e accogliere l’invito di Papa Francesco:

«In questo Giubileo ancora di più la Chiesa sarà chiamata a curare queste ferite, a lenirle con l’olio della consolazione, fasciarle con la misericordia e curarle con la solidarietà e l’attenzione dovuta. Non cadiamo nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge. Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani, e tiriamoli a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità. Che il loro grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la barriera di indifferenza che spesso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo»[1].

del suo servizio al bene comune. Come tale, essa ha la responsabilità di aiutare a superare la complessa crisi sociale ed ambientale e di combattere la povertà”. Dunque, la Misericordia è componente imprescindibile di un’economia che sappia salvare se stessa tutelando la dignità dell’uomo e salvaguardando la casa comune facendosi carico delle due dimensioni inestricabilmente congiunte della sostenibilità sociale e di quella ambientale»[2].

Il 2 marzo c.a., nella Cattedrale di San Giusto martire – Diocesi di Trieste, ha avuto luogo un incontro significativo tenuto dal prof. Stefano Zamagni, ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna, sul tema “Misericordia e affari: due mondi separati. La proposta cristiana”. In quella sede il prof. Zamagni disse:

Ma cosa dice a noi oggi il mettere a confronto la Misericordia e l’economia? Possono andare insieme? Una risposta la troviamo in un dossier pubblicato dall’Associazione Nazionale dei Commercialisti Italiani, intitolato: ”Misericordia ed Economia: utopia o binomio indispensabile?”. In questo documento essi fanno un’accurata analisi storica delle diverse teorie economiche, le ricadute in diverse Nazioni e fanno anche un’analisi fondata su statistiche. Alla fine però approdano a questa conclusione:

«Per chiudere con le parole che lo stesso Papa Francesco ha rivolto allo World Economic Forum 2016 di Davos, la visione di un capitalismo veramente fruttuoso per l’uomo è quella in cui “l’attività imprenditoriale è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti, soprattutto se comprende che la creazione di posti di lavoro è parte imprescindibile e mondi separati. La proposta cristiana”. In quella sede il prof. Zamagni disse:

«E’ possibile coniugare i due aspetti. Il cristiano deve poter credere ad una tale declinazione perché in caso contrario si troverebbe al cospetto di un dilemma etico» Ma come si coniugano in pratica i due mondi separati? «Mirando intanto ad una nozione di giustizia finalizzata al bene, evitando la trappola del facile giustizialismo e stabilendo all’interno della sfera economica e imprenditoriale forme di relazioni interpersonali, in modo più attivo e umano»[3]

Concludo con le parole di Mons. Enzo Gerardi che, a mio avviso, sono una provocazione per il nostro vivere e propone la povertà evangelica nei diversi ambiti pastorali:

«La beatitudine della povertà si ottiene quando la vita si lascia plasmare dal dono, quando le cose non sono più tiranne, quando il cuore si è liberato dalla passione dell’avarizia e della cupidigia. Il passaggio dalla logica del possesso alla logica del dono ottiene ciò che l’uomo desidera dalla vita, vale a dire la beatitudine»[4]

sr Aminta Sarmiento Puentes, sjbp

[1] Misericordiæ Vultus, Bolla Pontificia di Papa Francesco, Roma 2015, n. 15

[2] Giovanni Castellani e Giovanni Ferri, «Misericordia ed economia: utopia o binomio indispensabile?» in Fondazione Nazionale Commercialisti, Roma 2016.

[3] Cardella Francesco, Il “matrimonio cristiano” tra gli affari e la misericordia, in Quotidiano il piccolo, Trieste, 4 marzo 2016.

[4] Gerardi Enzo, Le malattie dell’anima, EDB, Bologna 2013,133

 

La vita come un castello

IF1_castelloLa vita è come un castello, un castello di nostra proprietà, al cui interno è la camera da letto dove il Signore, padrone del castello e nostro amante, ci attende. Perché quella camera è anche la nostra camera, la camera d’amore che ci appartiene. Ma noi siamo fuori del castello, alle sue porte, a chiedere l’elemosina, senza comprendere che quel castello è nostro e vi possiamo entrare come e quando vogliamo. Viviamo di carrube fuori del castello eppure ne siamo i proprietari.

Ecco la potente metafora del Castello interiore di Teresa d’Avila. Quante volte ci sentiamo come fuori dalla nostra stessa vita, spettatori di un film che scorre e che non è il nostro. Quante volte ci sembra di essere fuori dal cuore della nostra stessa vita, persi dietro desideri secondari, poiché non sappiamo ancora dove mettere radici, poiché non sappiamo cosa realmente desideriamo.

Ecco come Teresa inizia a tratteggiare l’immagine del castello:

«Oggi stavo supplicando il Signore di parlare in luogo mio, perché non sapevo cosa dire, né come cominciare ad obbedire al comando che mi è stato imposto, ed ecco quello che mi venne in mente. Mi servirà di fondamento a quanto dirò. Possiamo considerare la nostra anima come un castello fatto di un sol diamante o di un tersissimo cristallo, nel quale vi siano molte mansioni [stanze in successione sempre più interne], come molte ve ne sono in cielo.
Del resto, sorelle, se ci pensiamo bene, che cos’è l’anima del giusto se non un paradiso, dove il Signore dice di prendere le sue delizie? E allora come sarà la stanza in cui si diletta un Re così potente, così saggio, così puro, così pieno di ricchezze? No, non vi è nulla che possa paragonarsi alla grande bellezza di un’anima e alla sua immensa capacità!»

Al cuore della nostra stessa vita, così come essa è, c’è una stanza dove abita Dio. Questo rende la nostra vita la più alta delle realtà create. Vivere non è un assurdo:

«Il nostro intelletto, per acuto che sia, non arriverà mai a comprenderla, come non potrà mai comprendere Iddio, alla cui immagine e somiglianza noi siamo stati creati. Se ciò è vero – e non se ne può dubitare – è inutile che ci stanchiamo nel voler comprendere la bellezza del castello. Tuttavia, per avere un’idea della sua eccellenza e dignità, basta pensare che Dio dice di averlo fatto a sua immagine, benché tra il castello e Dio vi sia sempre la differenza di Creatore e creatura, essendo anche l’anima una creatura».

L’assurdo della condizione umana sta nel fatto che l’uomo non si cura della bellezza della propria vita, non si cura della bellezza della propria anima. Ed è come se uno non sapesse come si chiama o chi è!

«Non sarebbe grande ignoranza, figliuole mie, se uno, interrogato chi fosse, non sapesse rispondere, né dare indicazioni di suo padre, di sua madre, né del suo paese di origine?

Se ciò è indizio di grande ottusità, assai più grande è senza dubbio la nostra se non procuriamo di sapere chi siamo, per fermarci solo ai nostri corpi.

Sì, sappiamo di avere un’anima, perché l’abbiamo sentito e perché ce l’insegna la fede, ma così all’ingrosso, tanto vero che ben poche volte pensiamo alle ricchezze che sono in lei, alla sua grande eccellenza e a Colui che in essa abita.

E ciò spiega la nostra grande negligenza nel procurare di conservarne la bellezza. Le nostre preoccupazioni si fermano tutte alla rozzezza del castone, alle mura del castello, ossia a questi nostri corpi.

Come ho detto, questo castello risulta di molte stanze, alcune poste in alto, altre in basso ed altre ai lati. Al centro, in mezzo a tutte, vi è la stanza principale, quella dove si svolgono le cose di grande segretezza tra Dio e l’anima».

Il paradosso della vita è che Dio è nel nostro cuore, ma noi siamo fuori dal nostro stesso cuore. Noi non entriamo abitualmente in noi stessi e viviamo come mendicanti alle porte del castello ed, allo stesso tempo, siamo dentro il castello e ne siamo i proprietari: è la nostra anima, dove possiamo parlare con Dio:

«Tornando al nostro incantevole e splendido castello, dobbiamo ora vedere il modo di potervi entrare. Sembra che dica uno sproposito, perché se il castello è la stessa anima, non si ha certo bisogno di entrarvi, perché si è già dentro. Non è forse una sciocchezza dire a uno di entrare in una stanza quando già vi sia? Però dovete sapere che vi è una grande differenza tra un modo di essere e un altro, perché molte anime stanno soltanto nei dintorni, là dove sostano le guardie, senza curarsi di andare più innanzi, né sapere cosa si racchiuda in quella splendida dimora, né chi l’abiti, né quali appartamenti contenga. Se avete letto in qualche libro di orazione consigliare l’anima ad entrare in se stessa, è proprio quello che intendo io».

La via della preghiera ci permette di cominciare ad addentrarci nel castello. Se l’uomo smette di essere attento solo al possesso delle cose e rientra in se stesso, ecco che pian piano si addentra nei primi appartamenti, nelle prime mansioni del castello. Entra cioè in se stesso, nella propria bellezza, inizia a scoprire la propria vocazione:

«Mi diceva ultimamente un gran teologo che le anime senza orazione sono come un corpo storpiato o paralitico che ha mani e piedi, ma non li può muovere. Ve ne sono di così ammalate e talmente avvezze a vivere fra le cose esteriori, da esser refrattarie a qualsiasi cura, quasi impotenti a rientrare in se stesse. […] Per quanto io ne capisca, la porta per entrare in questo castello è l’orazione e la meditazione».

Chi non prega, non incontra il padrone del castello, Dio, e non scopre di essere l’amante di quel Signore, che l’attende per regnare con lei nel castello.

Già aver deciso di entrare nel castello, anche se è solo il primo passo, è decisivo. L’uomo smette di vivere di espedienti ed inizia ad avvicinarsi a Dio, iniziando al contempo ad avvicinarsi al cuore della propria anima, poiché l’una e l’altra realtà non si possono mai separare:

«Parliamo […] di quelle che […] finiscono con entrare nel castello. Benché ingolfate nel mondo, non mancano di buoni desideri: di tanto in tanto si raccomandano a Dio, e, sia pure in fretta, rientrano in se stesse con qualche considerazione. Pregano qualche volta al mese, benché distrattamente, dato che il loro pensiero è quasi sempre tra gli affari, a cui sono molto attaccate, secondo il detto: Dov’è il tuo tesoro ivi è il tuo cuore. Però, di tanto in tanto decidono di liberarsene perché, grazie al proprio conoscimento – che è sempre una gran cosa – riconoscono che la strada per cui camminano non è quella che conduce al castello. Finalmente entrano nelle prime stanze del pianterreno, ma vi portano con sé un’infinità di animaletti, i quali non solo impediscono di veder le bellezze del castello, ma neppur permettono di rimanervi in pace. Tuttavia han già fatto molto con l’entrarvi».

Parlando di questi primi appartamenti, di queste prime mansioni, in cui l’anima si addentra, Teresa fa notare che all’inizio tutto appare buio, nel fondo del nostro cuore, a motivo del peccato. Ma non appena l’anima comincia ad allontanarsi dal peccato e a rivolgersi al bene, ecco che si accorge che in realtà il castello all’interno è luminoso. Il castello, la nostra vita, si trasfigura se viviamo nel bene, se ci avviciniamo al bene. Tutto cambia nell’anima se vive nel peccato o se comincia a cercare la verità:

«Prima di andare innanzi, vi prego di considerare come si trasformi questo castello meraviglioso e risplendente, questa perla orientale, quest’albero di vita piantato nelle stesse acque vive della vita che è Dio, quando s’imbratti di peccato mortale. Non vi sono tenebre così dense, né cose tanto tetre e buie, che non ne siano superate e di molto. Il Sole che gli compartiva tanta bellezza e splendore è come se più non vi sia, perché, pur rimanendo ancora nel suo centro, l’anima tuttavia non ne partecipa più. Conserva sempre la capacità di goderlo, come il cristallo di riflettere i raggi, ma intanto non vi è più nulla che le sia di merito; e finché dura in quello stato, non le giovano a nulla per l’acquisto della gloria neppure le sue buone opere, perché, non procedendo esse da quel principio per cui la nostra virtù è virtù – voglio dire da Dio, da cui, anzi, si allontanano – non gli possono essere accette. Infatti, chi commette un peccato mortale intende di contentare, non Dio, ma il demonio; e siccome il demonio non è che tenebra, la povera anima si fa tenebra con lui. So di una persona [Parla di se stessa, ndr] a cui il Signore volle far vedere lo stato di un’anima in peccato mortale».

Ma se anche noi siamo nel peccato, la stanza dove Dio abita e ci ama e ci attende, resta intatta al centro del castello! Il cuore della nostra anima risplende e noi non lo sappiamo:

«Si deve intanto considerare che la fonte, o, a meglio dire, il Sole splendente che sta nel centro dell’anima, non perde per questo il suo splendore né la sua bellezza. Continua a star nell’anima, e non vi è nulla che lo possa scolorire. Supponete un cristallo esposto ai raggi del sole, ravvolto in un panno molto nero: il sole dardeggerà sulla stoffa, ma il cristallo non ne verrà illuminato».

C’è un cuore del castello che è abitato. C’è un cuore del castello dove abita Dio. C’è un cuore del castello dove Dio vuole parlare e intrattenersi con noi. Noi possiamo esserne fuori, ma Egli è là, al cuore del nostro cuore.

Teresa aggiunge qui un secondo esempio, quello del cuore della palma che si trova in Andalusia:

«Ritorniamo dunque al nostro castello e alle sue molte mansioni. Non dovete figurarvi queste mansioni le une dopo le altre, come una fuga di stanze. Portate il vostro sguardo al centro, dove è situato l’appartamento o il palazzo del Re. Egli vi abita come in una palmista [palma tipica dell’Andalusia, ndr] di cui non si può prendere il buono se non togliendo le molte foglie che lo coprono. Così qui: intorno e al di sopra della stanza centrale, ve ne sono molte altre, illuminate in ogni parte dal Sole che risiede nel mezzo. Le cose dell’anima si devono sempre considerare con ampiezza, estensione e magnificenza, senza paura di esagerare, perché la capacità dell’anima sorpassa ogni umana immaginazione. Importa molto che un’anima di orazione, a qualunque grado sia giunta, sia lasciata libera di circolare come vuole, in alto, in basso, e ai lati, senza incantucciarla e restringerla in una sola stanza».

Antonio Maria Sicari, carmelitano e grande studioso della spiritualità carmelitana, ha voluto paragonare il castello di Teresa al Castello di F. Kafka. Il grande romanziere ha utilizzato come Teresa l’immagine del castello per dire, però, il definitivo spaesamento dell’uomo, destinato a non capire nulla della vita. Nel Castello di Kafka l’uomo non riesce a comprendere nulla di quella struttura immensa che è solo un’assurdità che rivela come la vita stessa sia assurda e l’uomo destinato a non poterne mai raggiungere i senso.

Ne Il processo F. Kafka inserisce un racconto, che sarà poi pubblicato separatamente, che dice molto della sua esperienza di vita. Si intitola Davanti alla legge.

Davanti alla legge sta un guardiano. Un uomo di campagna viene da questo guardiano e gli chiede il permesso di accedere alla legge. Ma il guardiano gli risponde che per il momento non glielo può consentire. L’uomo dopo aver riflettuto chiede se più tardi gli sarà possibile. «Può darsi,» dice il guardiano, «ma adesso no.» Poiché la porta di ingresso alla legge è aperta come sempre e il guardiano si scosta un po’, l’uomo si china per dare, dalla porta, un’occhiata nell’interno.

Il guardiano, vedendolo, si mette a ridere, poi dice: «Se ti attira tanto, prova a entrare ad onta del mio divieto. Ma bada: io sono potente. E sono solo l’ultimo dei guardiani. All’ingresso di ogni sala stanno dei guardiani, uno più potente dell’altro. Già la vista del terzo riesce insopportabile anche a me.»

L’uomo di campagna non si aspettava tali difficoltà; la legge, nel suo pensiero, dovrebbe esser sempre accessibile a tutti; ma ora, osservando più attentamente il guardiano chiuso nella sua pelliccia, il suo gran naso a becco, la lunga e sottile barba nera all’uso tartaro decide che gli conviene attendere finché otterrà il permesso. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere a lato della porta.

Giorni e anni rimane seduto lì. Diverse volte tenta di ricevere il permesso di entrare, e stanca il guardiano con le sue preghiere. Il guardiano sovente lo sottopone a brevi interrogatori, gli chiede della sua patria e di molte altre cose, ma sono domande fatte con distacco, alla maniera dei gran signori, e alla fine conclude sempre dicendogli che non può consentirgli l’ingresso. L’uomo, che si è messo in viaggio ben equipaggiato, dà fondo ad ogni suo avere, per quanto prezioso possa essere, pur di corrompere il guardiano, e questi accetta sì ogni cosa, pero gli dice: «Lo accetto solo perché tu non creda di aver trascurato qualcosa.»

Durante tutti quegli anni l’uomo osserva il guardiano quasi incessantemente; dimentica che ve ne sono degli altri, quel primo gli appare l’unico ostacolo al suo accesso alla legge. Impreca alla propria sfortuna, nei primi anni senza riguardi e a voce alta, poi, man mano che invecchia, limitandosi a borbottare tra sé. Rimbambisce, e poiché, studiando per tanti anni il guardiano, ha individuato anche una pulce nel collo della sua pelliccia, prega anche la pulce di intercedere presso il guardiano perché cambi idea.

Alla fine gli s’affievolisce il lume degli occhi, e non sa se è perché tutto gli si fa buio intorno, o se siano i suoi occhi a tradirlo. Ma ora, nella tenebra, avverte un bagliore che scaturisce inestinguibile dalla porta della legge. Non gli rimane più molto da vivere.

Prima della morte tutte le nozioni raccolte in quel lungo tempo gli si concentrano nel capo in una domanda che non ha mai posta al guardiano; e gli fa cenno, poiché la rigidità che vince il suo corpo non gli permette più di alzarsi. Il guardiano deve abbassarsi grandemente fino a lui, dato che la differenza delle stature si è modificata a svantaggio dell’uomo. «Che cosa vuoi sapere ancora?» domanda il guardiano, «sei proprio insaziabile.»

«Tutti si sforzano di arrivare alla legge,» dice l’uomo, «e come mai allora nessuno in tanti anni, all’infuori di me, ha chiesto di entrare?»

Il guardiano si accorge che l’uomo è agli estremi e, per raggiungere il suo udito che già si spegne, gli urla: «Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato l’ingresso. E adesso vado e la chiudo».

Nella visione kafkiana l’uomo è come un alienato che attende invano. Esiste un castello, un complicato labirinto inaccessibile, pensato per ogni singolo uomo, ma solo perché ognuno vi sprechi ogni energia inutilmente per entrarvi, per trovare un senso alle cose.

Per Teresa, invece, l’uomo può entrare nel castello se solo lo vuole. Perché la vita non è un assurdo. Perché l’uomo, nella sua visione, non desidera tanto comprendere la Legge, bensì intuisce di avere un cuore, la propria anima, in cui abita Dio. Anche per Teresa chi non entra nel castello resta un alienato, ma ella scrive perché ognuno trovi la fiducia di non restare ai margini della vita, bensì diventi credente, scoprendo che è possibile entrare nel cuore della propria vita, per scoprire che ci appartiene e che Dio ci attira a sé.

Questa la potente immagine teresiana. Il castello interiore descrive poi le sette dimore. Dopo la prima che insiste sul conoscere se stessi, segue la seconda nella quale l’anima scopre la fatica di pregare e che la fatica stessa è preghiera. Viene poi la terza nella quale l’anima è tentata di prendere se stessa a misura della vita spirituale ed è ossessionata dal guardarsi. segue la quarta nella quale l’anima impara a raccogliersi per lasciarsi accogliere da Dio come un bambino che si raccoglie per gettarsi in braccio a suo padre. Viene poi la quinta, con la famosa immagine del bozzolo, nella quale l’anima impara a morire per ritrovare in Dio la vita. Segue poi la sesta  con il fidanzamento spirituale e la notte dello spirito nella quale l’anima impara  che Dio è veramente tutto e che è bene lasciare ogni cosa per essere con Lui come avviene con l’avanzare del fidanzamento quando si rinuncia a tutto per l’amato. L’opera culmina poi con la settima, l’unione con Dio, l’ingresso nella stanza della comunione mistica con il Signore. Ma per capirne anche solo qualcosa non basta leggere l’intero volume di Teresa, serve una vita intera, serve l’esperienza viva di un cammino di fede.

A noi bastava in questa presentazione introdurre al castello della nostra vita perché ognuno possa incamminarsi sapendo che quel castello gli appartiene e che quel castello non è disabitato, come sembrerebbe a chi non conosce la vita: la nostra vita è, invece, già abitata da Dio.

Don Andrea Lonardo

 

Che fare?

IS_che fareCamminando attraverso i giorni luminosi e oscuri di questo nostro tempo …

… e sapendo che non si può indagare il nuovo con strumenti vecchi, come coprire la distanza tra noi e l’uomo contemporaneo, ferito come noi, dolente come noi, provato come noi?

In concreto che fare? Certamente occorre partire da una sana e realistica conoscenza del contesto in cui si opera, guidati dalla certezza che nessun ambiente, mai, può essere totalmente privo di “valori e principi”. Nello stesso tempo è necessario permettere ai propri comportamenti e sentimenti di interrogarci. E, osservando con sincerità e comprensione le risposte che diamo, lasciarci dire chi siamo veramente.

Quasi tutta l’umanità – scriveva Umberto Eco – sembra essere presa dalla stessa sindrome del telefonino e non ha più rapporti faccia a faccia, non guarda il paesaggio, non riflette sulla vita e sulla morte. Comune, invece, nelle nostre vite sempre più frenetiche, è diventato il lamentarsi: praticamente un automatismo. Forse è vero che si parla ossessivamente, consumando la propria vita in un dialogo tra non… vedenti. Certo è che fino a ieri una comunità di valori permetteva al singolo di sentirsi parte di ‘qualcosa’ che ne interpretava i bisogni. Ed era una sicurezza per la persona. Oggi invece un individualismo sfrenato ha contagiato un po’ tutti.

Per essere capita e forse superata, questa nostra società liquida richiede di svegliarsi dal torpore; di impegnarsi ogni giorno per ri-acquisire la giusta consapevolezza sulla funzione della società: l’elemento capace di unire le coscienze e mettere insieme il buonsenso. Il mistero della gioia pasquale lo esige. Camminare per un po’ nelle scarpe di un altro aiuta molto (anche se non è semplice!) a muoversi in tale direzione. Aiuta a farsi liberi dal sospetto reciproco, dallo spirito di dominio, dal desiderio di imporre la ‘propria’ verità piuttosto che cercarla assieme… Soprattutto aiuta a svegliare in sé quell’intelligenza emotiva che permette di sintonizzarsi sul prossimo per agire insieme e creare spazi più umani. E crescere, quindi, nella disponibilità quotidiana a sentire le domande che la vita pone attraverso fatti e persone che hanno a che fare con la propria coscienza…

L’anziano della ‘stanza’ accanto, per esempio, al quale il vortice della vita passa solo accanto, mentre nessuno più si ferma per chiedergli come va… come si sente? E l’altro, che è quasi sempre malato, che cosa prova a portare il dolore di notte con sé nel letto e a svegliarsi in sua compagnia al mattino? E cosa vuol dire essere vecchio, quando ci si sta preparando al grande riposo della morte?…

Cristo ha salvato l’uomo e la sua storia non respingendola, né criticandola dall’esterno; l’ha salvata assumendola fino in fondo, vivendola pienamente, condividendola… E per un’autentica fedeltà all’uomo di oggi, chiama ognuno, con Lui, a scoprire quanto calore si genera anche là dove il gelo sembra prevalere.

Luciagnese Cedrone ismc

lucia.agnese@tiscali.it

 

Il Mistero Pasquale

IF_mistero pasquale1Misericordia rivelata nella croce e nella resurrezione

Il messaggio messianico di Cristo e la sua attività fra gli uomini terminano con la croce e la risurrezione. Dobbiamo penetrare profondamente in questo evento finale che, specialmente nel linguaggio conciliare, viene definito mistero pasquale, se vogliamo esprimere sino in fondo la verità sulla misericordia, così come essa è stata sino in fondo rivelata nella storia della nostra salvezza. A questo punto delle nostre considerazioni, occorrerà avvicinarci ancora di più al contenuto dell’enciclica Redemptor hominis. Se infatti la realtà della redenzione, nella sua dimensione umana, svela la grandezza inaudita dell’uomo, che meritò di avere un così grande Redentore, al tempo stesso la dimensione divina della redenzione ci consente, direi, nel modo più empirico e «storico», di svelare la profondità di quell’amore che non indietreggia davanti allo straordinario sacrificio del Figlio, per appagare la fedeltà del Creatore e Padre nei riguardi degli uomini creati a sua immagine e fìn dal «principio» scelti, in questo Figlio, per la grazia e per la gloria.

Gli eventi del Venerdì santo e, prima ancora, la preghiera nel Getsemani introducono, in tutto il corso della rivelazione dell’amore e della misericordia, nella missione messianica di Cristo, un cambiamento fondamentale. Colui che «passò beneficando e risanando» e «curando ogni malattia e infermità» sembra ora egli stesso meritare la più grande misericordia e richiamarsi alla misericordia, quando viene arrestato, oltraggiato, condannato, flagellato, coronato di spine, quando viene inchiodato alla croce e spira fra tormenti strazianti. È allora che merita particolarmente la misericordia dagli uomini che ha beneficato, e non la riceve. Perfino coloro che gli sono più vicini non sanno proteggerlo e strapparlo dalle mani degli oppressori. In questa tappa finale della missione messianica si adempiono in Cristo le parole dei profeti e soprattutto di Isaia, pronunciate riguardo al Servo di Jahvè: «Per le sue piaghe noi siamo stati guariti».

Cristo, come uomo che soffre realmente e in modo terribile nell’orto degli ulivi e sul Calvario, si rivolge al Padre, a quel Padre il cui amore egli ha predicato agli uomini, la cui misericordia ha testimoniato con tutto il suo agire. Ma non gli viene risparmiata – proprio a lui – la tremenda sofferenza della morte in croce: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore», scriverà san Paolo, riassumendo in poche parole tutta la profondità del mistero della croce ed insieme la dimensione divina della realtà della redenzione. Proprio questa redenzione è l’ultima e definitiva rivelazione della santità di Dio, che è la pienezza assoluta della perfezione: pienezza della giustizia e dell’amore, poiché la giustizia si fonda sull’amore, da esso promana e ad esso tende. Nella passione e morte di Cristo – nel fatto che il Padre non risparmiò il suo Figlio, ma «lo trattò da peccato in nostro favore» – si esprime la giustizia assoluta, perché Cristo subisce la passione e la croce a causa dei peccati dell’umanità. Ciò è addirittura una «sovrabbondanza» della giustizia, perché i peccati dell’uomo vengono «compensati» dal sacrificio dell’Uomo-Dio. Tuttavia, tale giustizia, che è propriamente giustizia «su misura» di Dio, nasce tutta dall’amore: dall’amore del Padre e del Figlio, e fruttifica tutta nell’amore. Proprio per questo la giustizia divina rivelata nella croce di Cristo è «su misura» di Dio, perché nasce dall’amore e nell’amore si compie, generando frutti di salvezza. La dimensione divina della redenzione non si attua soltanto nel far giustizia del peccato, ma nel restituire all’amore quella forza creativa nell’uomo, grazie alla quale egli ha nuovamente accesso alla pienezza di vita e di santità che proviene da Dio. In tal modo, la redenzione porta in sé la rivelazione della misericordia nella sua pienezza.

Il mistero pasquale è il vertice di questa rivelazione ed attuazione della misericordia, che è capace di giustificare l’uomo, di ristabilire la giustizia nel senso di quell’ordine salvifico che Dio dal principio aveva voluto nell’uomo e, mediante l’uomo, nel mondo. Cristo sofferente parla in modo particolare all’uomo, e non soltanto al credente. Anche l’uomo non credente saprà scoprire in lui l’eloquenza della solidarietà con la sorte umana, come pure l’armoniosa pienezza di una disinteressata dedizione alla causa dell’uomo, alla verità e all’amore. La dimensione divina del mistero pasquale giunge, tuttavia, ancor più in profondità. La croce collocata sul Calvario, su cui Cristo svolge il suo ultimo dialogo col Padre, emerge dal nucleo stesso di quell’amore di cui l’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, è stato ratificato secondo l’eterno disegno divino. Dio, quale Cristo ha rivelato, non rimane soltanto in stretto collegamento col mondo, come creatore e ultima fonte dell’esistenza. Egli è anche Padre: con l’uomo, da lui chiamato all’esistenza nel mondo visibile, è unito da un vincolo ancor più profondo di quello creativo. È l’amore che non soltanto crea il bene, ma fa partecipare alla vita stessa di Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo. Infatti, colui che ama desidera donare se stesso. La croce di Cristo sul Calvario sorge sulla via di quel meraviglioso scambio, di quel mirabile comunicarsi di Dio all’uomo, in cui è al tempo stesso contenuta la chiamata rivolta all’uomo, affinché, donando se stesso a Dio e con sé tutto il mondo visibile, partecipi alla vita divina, – e affinché come figlio adottivo divenga partecipe della verità e dell’amore che è in Dio e che proviene da Dio. Proprio sulla via dell’eterna elezione dell’uomo alla dignità di figlio adottivo di Dio, sorge nella storia la croce di Cristo, Figlio unigenito, che, come «luce da luce, Dio vero da Dio vero» (Credo), è venuto a dare l’ultima testimonianza della mirabile alleanza di Dio con l’umanità, di Dio con l’uomo – con ogni uomo. Questa alleanza, antica come l’uomo – risale al mistero stesso della creazione – e ristabilita poi più volte con un unico popolo eletto, è ugualmente l’alleanza nuova e definitiva, stabilita là, sul Calvario, e non limitata ad un unico popolo, ad Israele, ma aperta a tutti e a ciascuno.

Che cosa dunque ci dice la croce di Cristo, che è, in un certo senso, l’ultima parola del suo messaggio e della sua missione messianica? – Eppure, questa non è ancora l’ultima parola del Dio dell’alleanza: essa sarà pronunciata in quell’alba, quando prima le donne e poi gli apostoli, venuti al sepolcro di Cristo crocifisso, vedranno la tomba vuota e sentiranno per la prima volta l’annuncio: «È risorto». Essi lo ripeteranno agli altri e saranno testimoni del Cristo risorto. Tuttavia, anche in questa glorificazione del Figlio di Dio continua ad esser presente la croce, la quale – attraverso tutta la testimonianza messianica dell’Uomo-Figlio, che su di essa ha subito la morte – parla e non cessa mai di parlare di Dio-Padre, che è assolutamente fedele al suo eterno amore verso l’uomo, poiché «ha tanto amato il mondo – quindi l’uomo nel mondo – da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna». Credere nel Figlio crocifisso significa «vedere il Padre», significa credere che l’amore è presente nel mondo e che questo amore è più potente di ogni genere di male in cui l’uomo, L’umanità, il mondo sono coinvolti. Credere in tale amore significa credere nella misericordia. Questa infatti è la dimensione indispensabile dell’amore, è come il suo secondo nome e, al tempo stesso, è il modo specifico della sua rivelazione ed attuazione nei confronti della realtà del male che è nel mondo, che tocca e assedia l’uomo, che si insinua anche nel suo cuore e può farlo «perire nella Geenna». 

Amore più potente della morte, più potente del peccato

La croce di Cristo sul Calvario è anche testimonianza della forza del male verso lo stesso Figlio di Dio, verso colui che, unico fra tutti i figli degli uomini, era per sua natura assolutamente innocente e libero dal peccato, e la cui venuta nel mondo fu esente dalla disobbedienza di Adamo e dall’eredità del peccato originale. Ed ecco, proprio in lui, in Cristo, viene fatta giustizia del peccato a prezzo del suo sacrificio, della sua obbedienza «fino alla morte». Colui che era senza peccato, «Dio lo trattò da peccato in nostro favore». Viene anche fatta giustizia della morte che, dagli inizi della storia dell’uomo, si era alleata col peccato. Questo far giustizia della morte avviene a prezzo della morte di colui che era senza peccato e che unico poteva – mediante la propria morte – infliggere morte alla morte. In tal modo la croce di Cristo, sulla quale il Figlio consostanziale al Padre rende piena giustizia a Dio, è anche una rivelazione radicale della misericordia, ossia dell’amore che va contro a ciò che costituisce la radice stessa del male nella storia dell’uomo: contro al peccato e alla morte. La croce è il più profondo chinarsi della Divinità sull’uomo e su ciò che l’uomo – specialmente nei momenti difficili e dolorosi – chiama il suo infelice destino. La croce è come un tocco dell’eterno amore sulle ferite più dolorose dell’esistenza terrena dell’uomo, è il compimento sino alla fine del programma messianico, che Cristo formulò una volta nella sinagoga di Nazaret e ripeté poi dinanzi agli inviati di Giovanni Battista. Secondo le parole scritte già nella profezia di Isaia, tale programma consisteva nella rivelazione dell’amore misericordioso verso i poveri, i sofferenti e i prigionieri, verso i non vedenti, gli oppressi e i peccatori. Nel mistero pasquale viene oltrepassato il limite del molteplice male di cui l’uomo diventa partecipe nell’esistenza terrena: la croce di Cristo infatti ci fa comprendere le più profonde radici del male che affondano nel peccato e nella morte, e cosi diventa un segno escatologico. Soltanto nel compimento escatologico e nel definitivo rinnovamento del mondo, l’amore in tutti gli eletti vincerà le sorgenti più profonde del male, portando quale frutto pienamente maturo il Regno della vita e della santità e dell’immortalità gloriosa. Il fondamento di tale compimento escatologico è già racchiuso nella croce di Cristo e nella sua morte. Il fatto che Cristo «è risuscitato il terzo giorno» costituisce il segno finale della missione messianica, segno che corona l’intera rivelazione dell’amore misericordioso nel mondo soggetto al male. Ciò costituisce al tempo stesso il segno che preannuncia «un nuovo cielo e una nuova terra», quando Dio «tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate».

Nel compimento escatologico la misericordia si rivelerà come amore, mentre nella temporaneità, nella storia umana, che è insieme storia di peccato e di morte, l’amore deve rivelarsi soprattutto come misericordia ed anche attuarsi come tale. Il programma messianico di Cristo – programma di misericordia – diviene il programma del suo popolo, il programma della Chiesa. Al centro di questo sta sempre la croce, poiché in essa la rivelazione dell’amore misericordioso raggiunge il suo culmine. Fino a che «le cose di prima» non passeranno, la croce rimarrà quel «luogo» al quale potrebbero riferirsi ancora altre parole dell’Apocalisse di Giovanni: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. In modo particolare, Dio rivela anche la sua misericordia quando sollecita l’uomo alla «misericordia» verso il suo proprio Figlio, verso il crocifisso. Cristo, appunto come crocifisso, è il Verbo che non passa, è colui che sta alla porta e bussa al cuore di ogni uomo, senza coartarne la libertà, ma cercando di trarre da questa stessa libertà l’amore, che è non soltanto atto di solidarietà con il sofferente Figlio dell’uomo, ma anche in certo modo «misericordia» manifestata da ognuno di noi al Figlio dell’eterno Padre. In tutto questo programma messianico di Cristo, in tutta la rivelazione della misericordia mediante la croce, potrebbe forse essere maggiormente rispettata ed elevata la dignità dell’uomo, dato che egli, trovando misericordia, è anche, in un certo senso, colui che contemporaneamente «manifesta la misericordia»?

In definitiva, Cristo non prende forse tale posizione nei riguardi dell’uomo quando dice: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi…, l’avete fatto a me»? Le parole del discorso della montagna: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia», non costituiscono in un certo senso una sintesi di tutta la Buona Novella, di tutto il «mirabile scambio» (admirabile commercium) ivi racchiuso, che è una legge semplice, forte ed insieme «dolce» dell’economia stessa della salvezza? Queste parole del discorso della montagna, facendo vedere nel punto di partenza le possibilità del «cuore umano» («essere misericordiosi»), non rivelano forse secondo la medesima prospettiva il profondo mistero di Dio: quella inscrutabile unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in cui l’amore, contenendo la giustizia, dà l’avvio alla misericordia, che a sua volta rivela la perfezione della giustizia?

Il mistero pasquale è Cristo al vertice della rivelazione dell’inscrutabile mistero di Dio. Proprio allora si adempiono sino in fondo le parole pronunciate nel cenacolo: «Chi ha visto me, ha visto il Padre». Infatti Cristo, che il Padre «non ha risparmiato» in favore dell’uomo -e che nella sua passione e nel supplizio della croce non ha trovato misericordia umana, nella sua risurrezione ha rivelato la pienezza di quell’amore che il Padre nutre verso di lui e, in lui, verso tutti gli uomini. «Non è un Dio dei morti, ma dei viventi». Nella sua risurrezione Cristo ha rivelato il Dio dell’amore misericordioso, proprio perché ha accettato la croce come via alla risurrezione. Ed è per questo che – quando ricordiamo la croce di Cristo, la sua passione e morte – la nostra fede e la nostra speranza s’incentrano sul Risorto: su quel Cristo che «la sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato… si fermò in mezzo a loro» nel cenacolo «dove si trovavano i discepoli, …alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi, e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi». Ecco il Figlio di Dio, che nella sua risurrezione ha sperimentato in modo radicale su di sé la misericordia, cioè l’amore del Padre che è più potente della morte. Ed è anche lo stesso Cristo, Figlio di Dio, che al termine – e in certo senso già oltre il termine – della sua missione messianica, rivela se stesso come fonte inesauribile della misericordia, del medesimo amore che, nella prospettiva ulteriore della storia della salvezza nella Chiesa, deve perennemente confermarsi più potente del peccato.

Dalla Lettera Enciclica, Dives in Misericordia

di San Giovanni Paolo II, 1980

 

Il Nome di Dio è il Misericordioso

manoNella Sacra Scrittura, il Signore è presentato come “Dio misericordioso”. È questo il suo nome, attraverso cui Egli ci rivela, per così dire, il suo volto e il suo cuore. Egli stesso, come narra il Libro dell’Esodo, rivelandosi a Mosè si autodefinisce così: «Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (34,6). Anche in altri testi ritroviamo questa formula, con qualche variante, ma sempre l’insistenza è posta sulla misericordia e sull’amore di Dio che non si stanca mai di perdonare (cfr Gn 4,2; Gl 2,13; Sal 86,15; 103,8; 145,8; Ne 9,17). Vediamo insieme, una per una, queste parole della Sacra Scrittura che ci parlano di Dio.

Il Signore è “misericordioso”: questa parola evoca un atteggiamento di tenerezza come quello di una madre nei confronti del figlio. Infatti, il termine ebraico usato dalla Bibbia fa pensare alle viscere o anche al grembo materno. Perciò, l’immagine che suggerisce è quella di un Dio che si commuove e si intenerisce per noi come una madre quando prende in braccio il suo bambino, desiderosa solo di amare, proteggere, aiutare, pronta a donare tutto, anche sé stessa. Questa è l’immagine che suggerisce questo termine. Un amore, dunque, che si può definire in senso buono “viscerale”.

Poi è scritto che il Signore è “pietoso”, nel senso che fa grazia, ha compassione e, nella sua grandezza, si china su chi è debole e povero, sempre pronto ad accogliere, a comprendere, a perdonare. È come il padre della parabola riportata dal Vangelo di Luca (cfr Lc 15,11-32): un padre che non si chiude nel risentimento per l’abbandono del figlio minore, ma al contrario continua ad aspettarlo – lo ha generato – , e poi gli corre incontro e lo abbraccia, non gli lascia neppure finire la sua confessione – come se gli coprisse la bocca -, tanto è grande l’amore e la gioia per averlo ritrovato; e poi va anche a chiamare il figlio maggiore, che è sdegnato e non vuole far festa, il figlio che è rimasto sempre a casa ma vivendo come un servo più che come un figlio, e pure su di lui il padre si china, lo invita ad entrare, cerca di aprire il suo cuore all’amore, perché nessuno rimanga escluso dalla festa della misericordia. La misericordia è una festa!

Di questo Dio misericordioso è detto anche che è “lento all’ira”, letteralmente, “lungo di respiro”, cioè con il respiro ampio della longanimità e della capacità di sopportare. Dio sa attendere, i suoi tempi non sono quelli impazienti degli uomini; Egli è come il saggio agricoltore che sa aspettare, lascia tempo al buon seme di crescere, malgrado la zizzania (cfr Mt 13,24-30).

E infine, il Signore si proclama “grande nell’amore e nella fedeltà”. Com’è bella questa definizione di Dio! Qui c’è tutto. Perché Dio è grande e potente, ma questa grandezza e potenza si dispiegano nell’amarci, noi così piccoli, così incapaci. La parola “amore”, qui utilizzata, indica l’affetto, la grazia, la bontà. Non è l’amore da telenovela… È l’amore che fa il primo passo, che non dipende dai meriti umani ma da un’immensa gratuità. È la sollecitudine divina che niente può fermare, neppure il peccato, perché sa andare al di là del peccato, vincere il male e perdonarlo.

Una “fedeltà” senza limiti: ecco l’ultima parola della rivelazione di Dio a Mosè. La fedeltà di Dio non viene mai meno, perché il Signore è il Custode che, come dice il Salmo, non si addormenta ma vigila continuamente su di noi per portarci alla vita:
«Non lascerà vacillare il tuo piede, non si addormenterà il tuo custode.
Non si addormenterà, non prenderà sonno il custode d’Israele.[…]
Il Signore ti custodirà da ogni male: egli custodirà la tua vita.
Il Signore ti custodirà quando esci e quando entri, da ora e per sempre» (121,3-4.7-8).

E questo Dio misericordioso è fedele nella sua misericordia e San Paolo dice una cosa bella: se tu non Gli sei fedele, Lui rimarrà fedele perché non può rinnegare se stesso. La fedeltà nella misericordia è proprio l’essere di Dio. E per questo Dio è totalmente e sempre affidabile. Una presenza solida e stabile. È questa la certezza della nostra fede. E allora, in questo Giubileo della Misericordia, affidiamoci totalmente a Lui, e sperimentiamo la gioia di essere amati da questo “Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore e nella fedeltà”.

Fonte: www.vatican.va
Udienza di Papa Francesco, 13 gennaio 2016