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Per crescere

La misericordia

Misericordia1. Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre. Il mistero della fede cristiana sembra trovare in questa parola la sua sintesi. Essa è divenuta viva, visibile e ha raggiunto il suo culmine in Gesù di Nazareth. Il Padre, « ricco di misericordia » (Ef 2,4), dopo aver rivelato il suo nome a Mosè come « Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà » (Es 34,6), non ha cessato di far conoscere in vari modi e in tanti momenti della storia la sua natura divina. Nella « pienezza del tempo » (Gal 4,4), quando tutto era disposto secondo il suo piano di salvezza, Egli mandò suo Figlio nato dalla Vergine Maria per rivelare a noi in modo definitivo il suo amore. Chi vede Lui vede il Padre (cfrGv 14,9). Gesù di Nazareth con la sua parola, con i suoi gesti e con tutta la sua persona rivela la misericordia di Dio.

2. Abbiamo sempre bisogno di contemplare il mistero della misericordia. È fonte di gioia, di serenità e di pace. È condizione della nostra salvezza. Misericordia: è la parola che rivela il mistero della SS. Trinità. Misericordia: è l’atto ultimo e supremo con il quale Dio ci viene incontro. Misericordia: è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita. Misericordia: è la via che unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato.

3. Ci sono momenti nei quali in modo ancora più forte siamo chiamati a tenere fisso lo sguardo sulla misericordia per diventare noi stessi segno efficace dell’agire del Padre. È per questo che ho indetto un Giubileo Straordinario della Misericordia come tempo favorevole per la Chiesa, perché renda più forte ed efficace la testimonianza dei credenti.

10. L’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia. Tutto della sua azione pastorale dovrebbe essere avvolto dalla tenerezza con cui si indirizza ai credenti; nulla del suo annuncio e della sua testimonianza verso il mondo può essere privo di misericordia.

La credibilità della Chiesa passa attraverso la strada dell’amore misericordioso e compassionevole. La Chiesa « vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia ». Forse per tanto tempo abbiamo dimenticato di indicare e di vivere la via della misericordia. La tentazione, da una parte, di pretendere sempre e solo la giustizia ha fatto dimenticare che questa è il primo passo, necessario e indispensabile, ma la Chiesa ha bisogno di andare oltre per raggiungere una meta più alta e più significativa. Dall’altra parte, è triste dover vedere come l’esperienza del perdono nella nostra cultura si faccia sempre più diradata. Perfino la parola stessa in alcuni momenti sembra svanire. Senza la testimonianza del perdono, tuttavia, rimane solo una vita infeconda e sterile, come se si vivesse in un deserto desolato. È giunto di nuovo per la Chiesa il tempo di farsi carico dell’annuncio gioioso del perdono. È il tempo del ritorno all’essenziale per farci carico delle debolezze e delle difficoltà dei nostri fratelli. Il perdono è una forza che risuscita a vita nuova e infonde il coraggio per guardare al futuro con speranza.

13. Vogliamo vivere questo Anno Giubilare alla luce della parola del Signore: Misericordiosi come il Padre. L’evangelista riporta l’insegnamento di Gesù che dice: « Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso » (Lc 6,36). È un programma di vita tanto impegnativo quanto ricco di gioia e di pace. L’imperativo di Gesù è rivolto a quanti ascoltano la sua voce (cfrLc 6,27).

Per essere capaci di misericordia, quindi, dobbiamo in primo luogo porci in ascolto della Parola di Dio. Ciò significa recuperare il valore del silenzio per meditare la Parola che ci viene rivolta. In questo modo è possibile contemplare la misericordia di Dio e assumerlo come proprio stile di vita.

24. Il pensiero ora si volge alla Madre della Misericordia. La dolcezza del suo sguardo ci accompagni in questo Anno Santo, perché tutti possiamo riscoprire la gioia della tenerezza di Dio. Nessuno come Maria ha conosciuto la profondità del mistero di Dio fatto uomo. Tutto nella sua vita è stato plasmato dalla presenza della misericordia fatta carne. La Madre del Crocifisso Risorto è entrata nel santuario della misericordia divina perché ha partecipato intimamente al mistero del suo amore. Scelta per essere la Madre del Figlio di Dio, Maria è stata da sempre preparata dall’amore del Padre per essere Arca dell’Alleanza tra Dio e gli uomini. Ha custodito nel suo cuore la divina misericordia in perfetta sintonia con il suo Figlio Gesù. Il suo canto di lode, sulla soglia della casa di Elisabetta, fu dedicato alla misericordia che si estende « di generazione in generazione » (Lc 1,50). Anche noi eravamo presenti in quelle parole profetiche della Vergine Maria. Questo ci sarà di conforto e di sostegno mentre attraverseremo la Porta Santa per sperimentare i frutti della misericordia divina.

Presso la croce, Maria insieme a Giovanni, il discepolo dell’amore, è testimone delle parole di perdono che escono dalle labbra di Gesù. Il perdono supremo offerto a chi lo ha crocifisso ci mostra fin dove può arrivare la misericordia di Dio. Maria attesta che la misericordia del Figlio di Dio non conosce confini e raggiunge tutti senza escludere nessuno. Rivolgiamo a lei la preghiera antica e sempre nuova della Salve Regina, perché non si stanchi mai di rivolgere a noi i suoi occhi misericordiosi e ci renda degni di contemplare il volto della misericordia, suo Figlio Gesù.

Brani scelti dalla Bolla Misericordiaevultus

L’indulgenza giubilare, segno di misericordia

“Il perdono di Dio non conosce confini”: così Papa Francesco scrive nella Bolla di indizione del Giubileo (MV, 22). Il Catechismo della Chiesa Cattolica spiega che “l’indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa (grazie alla confessione sacramentale e all’assoluzione), remissione che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per intervento della Chiesa, la quale, come ministra della redenzione… dispensa e applica il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi. L’indulgenza… plenaria libera… dalla pena temporale dovuta per i peccati” (n. 1471).
Che cos’è la «pena temporale»? Il peccato, cioè l’atto con cui l’uomo decide volontariamente e consapevolmente di rompere la sua amicizia con Dio, ha due conseguenze: la prima è il distacco da Dio, che grazie al sacramento della confessione, con il quale ritorniamo in comunione con Dio, viene cancellato. In realtà però ogni peccato, anche quello veniale, provoca «un attaccamento malsano alle creature» che ha bisogno di purificazione e merita una pena temporale, a cui si può (da sottolineare «si può», perché noi non siamo in grado di saperlo) essere ancora obbligati, nonostante il perdono delle colpe ottenuto nella confessione. Le preghiere che eleviamo a Dio, gli atti di penitenza che compiamo, le opere di bene che realizziamo e le sofferenze e le prove della vita, sofferte con pazienza e nella fede, contribuiscono alla purificazione che, se non pienamente compiuta su questa terra, verrà completata nell’aldilà nel Purgatorio.
La Chiesa dispensa le indulgenze attingendo al tesoro dei meriti di Cristo, della Madonna e dei Santi. Nella comunione dei santi, che lega le anime di coloro che hanno raggiunto la patria celeste o che sono ancora pellegrini sulla terra, esiste un vincolo perenne di carità e uno scambio di beni: la santità di uno aiuta gli altri. Così il peccatore è purificato efficacemente dalle pene del peccato. La Chiesa dispensa le indulgenze in virtù del potere conferito da Cristo a Pietro di legare e sciogliere. L’indulgenza plenaria consiste nella remissione di tutta la pena temporale dei peccati già perdonati in confessione.
Che cosa si richiede per ottenere l’indulgenza giubilare?
Papa Francesco ha stabilito che è necessario compiere “un breve pellegrinaggio verso la Porta Santa, aperta in ogni Cattedrale o nelle chiese stabilite dal Vescovo diocesano, e nelle quattro Basiliche Papali a Roma, come segno del desiderio profondo di vera conversione. […]
E’ importante che questo momento sia unito, anzitutto, al sacramento della Riconciliazione e alla celebrazione della santa Eucarestia con una riflessione sulla misericordia.
Sarà necessario accompagnare queste celebrazioni con la professione di fede e con la preghiera per me e per le intenzioni che porto nel cuore per il bene della Chiesa e del mondo intero”. Infine, l’indulgenza giubilare può essere ottenuta anche per le persone defunte. “A loro siamo legati per la testimonianza di fede e di carità che ci hanno lasciato. Come li ricordiamo nella celebrazione eucaristica, così possiamo, nel grande mistero della comunione dei Santi, pregare per loro, perché il volto misericordioso del Padre li liberi da ogni residuo di colpa e possa stringerli a sé nella beatitudine che non ha fine”.

Beati i misericordiosi

Un racconto dei Padri del deserto ci aiuta a comprendere meglio la beatitudine dei misericordiosi: «Un giovane discepolo fu inviato dal suo abba a far visita a un altro fratello che possedeva un orto sul Sinai. Il giovane discepolo, quando arrivò, domandò al proprietario dell’orto: “Padre, hai qualche frutto da portare al mio maestro?”. “Certamente, figlio mio; prendi tutto ciò che desideri”. Il giovane discepolo aggiunse: “Ci sarà anche qualche frutto di misericordia, padre?”. “Cosa stai dicendo, figlio mio?”.
Il giovane ripeté: “Domandavo se c’è qualche frutto di misericordia, padre…”. Per tre volte il giovane fece la stessa domanda senza che il proprietario dell’orto sapesse che cosa rispondergli. Infine, mormorò: “Che Dio ci aiuti, figlio mio!”.
E prendendo il suo fardello, abbandonò l’orto e si avviò nel deserto dicendo: “Andiamo in cerca della misericordia di Dio. Se non ho potuto dare una risposta a un giovane fratello, cosa farò quando sarà Dio stesso a interrogarmi?”». «Qualche frutto di misericordia »: questa è la dracma che Dio, come quella donna che puliva la propria casa, cercherà nei nostri angoli (cfr. Lc 15,8-10); e il talento che dobbiamo affrettarci a far fruttificare, del quale il padrone ci chiederà conto al suo ritorno; il nostro unico investimento sensato, come quello dell’amministratore che seppe farsi amici coloro che lo avrebbero accolto e fu lodato dal suo padrone… « Il regno dei cieli », avrebbe potuto dire Gesù, « è simile a un uomo che prima di tornare al suo paese, dopo un lungo viaggio in terra straniera, cambiò tutte le sue monete con le uniche che, da quel momento in poi, sarebbero state valide ».
Paolo non ha dubbi su quali siano queste monete: « Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità! » (1Cor 13,13).
Una proposta
«Nasciamo con occhi, ma non con uno sguardo. Per vedere è sufficiente volgere gli occhi verso lo stimolo in questione. Per guardare bisogna mettere in moto anche il cuore » (J.M. Fernández-Martos).
Cosa accadrebbe se iniziassimo a osservare i volti della gente, le loro occhiaie, i volti del freddo o dell’angoscia, la paura o la tristezza che si riflette nei gesti contratti, nei piedi affaticati, nelle schiene curve sotto il peso dalla stanchezza o del dolore, nel camminare deciso, fragile o tremolante delle persone con le quali viaggiamo sul metrò o che incontriamo per la strada…?
Liberamente tratto da Dolores Aleixandre,
La bellezza della sera, vivere bene il passare degli anni, Paoline

Nessuno conosce il Padre se non il Figlio

Nella lunga vicenda storica della riflessione sul Gesù reale, sul Gesù storico, l’evangelista Giovanni è stato talvolta additato come l’annunciatore della figliolanza divina di Gesù, a motivo del suo straordinario prologo, quasi distaccandolo dalla testimonianza del resto degli scritti neotestamentari.

In ciò ha pesato certamente la datazione tardiva, verso la fine del I secolo, della redazione finale del quarto evangelo rispetto ai sinottici ed alle lettere – come è noto, il più antico scritto neotestamentario è la prima lettera ai Tessalonicesi, che viene datata con sicurezza negli anni 51/52 d.C. a motivo dei sincronismi con il proconsolato di Gallione in Acaia in At 18, 12.

Tutto il Nuovo Testamento, invece, invita a vedere come Giovanni sia da situare pienamente dentro la concorde voce degli altri scritti. Nell’epistolario paolino, fra le lettere autentiche dell’apostolo, risalta l’inno cristologico della lettera ai Filippesi (Fil 2, 6-11), scritta probabilmente fra il 53 ed il 58 d.C. (e, secondo alcuni studiosi, l’inno sarebbe anteriore a Paolo stesso) che afferma: «Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio» (Fil 2, 6).

La lettera agli Ebrei, scritta probabilmente prima del 70, anno della distruzione del Tempio di Gerusalemme -poiché descrive l’attività cultuale come ancora in funzione- si apre con il breve prologo che afferma che «in questi tempi, che sono gli ultimi, Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo» (Eb 1, 2).

Non solo le lettere, ma gli stessi vangeli sinottici ci testimoniano nell’importantissimo “inno di giubilo” il rapporto unico fra il Padre ed il Figlio: «Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così a te è piaciuto. Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Lc 10, 21-22). Si noti che il parallelo è in Matteo, il vangelo che si vuole più vicino alle radici ebraiche del cristianesimo, e che la presenza di questo testo nei due sinottici Matteo e Luca indica la sua provenienza dalla cosiddetta fonte Q (dal tedesco Quelle, che vuol dire fonte; il termine sta ad indicare una raccolta di detti di Gesù che potrebbe essere stata utilizzata dai due evangelisti e che sarebbe, pertanto, anteriore alla loro stesura e di una antichità ancora maggiore). Il disagio di storici ipercritici dinanzi a questo brano ha fatto sì che venisse etichettato come un “meteorite giovanneo” nei sinottici!

Lo stesso vangelo di Marco, il più antico dei vangeli, anteriore all’anno 70, conduce il suo lettore verso la grande domanda di Gesù: «Ma voi chi dite che io sia?» (Mc 8, 29). La domanda stessa manifesta che tutte le risposte proposte dalla gente sono fin lì inadeguate: Gesù non è uno dei profeti (Mc 8, 28). Si noti che la profezia si era misteriosamente interrotta in Israele da alcuni secoli e che l’attributo di profeta era il sommo riconoscimento degli inviati di Dio. Gesù non è uno dei profeti, perché è molto più di loro.

Proprio il suo insegnamento nel Tempio stesso, il luogo supremo veterotestamentario nel quale Gesù predica come Signore nella sua propria casa, esplicita ulteriormente questa superiorità sui profeti, nella parabola del vignaioli omicidi. Al padrone della vigna è rimasto ancora uno solo, il figlio prediletto, dopo l’invio di tutti i suoi messaggeri e profeti: «Lo inviò per ultimo dicendo: Avranno rispetto per mio figlio». Qui si manifesta il valore profondo delle parabole di Gesù che non sono semplici immagini per istruire persone di bassa cultura, ma sono auto-rivelazioni cristologiche. Nella parabola dei vignaioli appare l’intimo mistero dell’identità di Gesù. Egli stesso è non solo l’annunciatore del regno, ma, molto di più, colui attraverso il quale il regno del Padre è finalmente presente ed ogni uomo vi può entrare. Non un regno, quindi, che è altra cosa dall’identità del Figlio di Dio, ma quel regno che si identifica con la sua stessa presenza.

Si comprende qui la prospettiva di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI che, nel suo Gesù di Nazaret, spiega: «La famosa affermazione di Adolf von Harnack secondo la quale l’annuncio di Gesù sarebbe un annuncio sul Padre, di cui il Figlio non farebbe parte – e dunque la cristologia non apparterrebbe all’annuncio di Gesù – è una tesi che si smentisce da sola. Gesù può parlare del Padre, così come fa, solo perché è il Figlio e vive in comunione filiale con il Padre. La dimensione cristologica, cioè il mistero del Figlio come rivelatore del Padre, la «cristologia», è presente in tutti i discorsi e in tutte le azioni di Gesù».

L’attestazione concorde di tutto il Nuovo Testamento, e non solo dell’evangelista Giovanni, ci pone dinanzi al mistero dell’identità personale di Gesù ed alla sua autoconsapevolezza che traspare in ogni sua parola ed in ogni suo gesto, dall’annuncio del regno alla nuova legge, dalla chiamata dei dodici al significato cristologico delle parabole, dai miracoli ai cosiddetti “titoli” cristologici.

Giovanni della Croce, nella Salita al monte Carmelo, rispondeva a chi gli domandava se fenomeni estatici o locuzioni o visioni fossero i segni distintivi della pienezza del cammino spirituale annunciando la completezza della Parola divina donataci in Cristo: «Chi volesse ancora interrogare il Signore e chiedergli visioni o rivelazioni, non solo commetterebbe una stoltezza, ma offenderebbe Dio, perché non fissa lo sguardo unicamente in Cristo e va cercando cose diverse e novità. Dio infatti potrebbe rispondergli: “Questi è il mio Figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo!” (Mt 17,5). Se ti ho già detto tutto nella mia Parola che è il mio Figlio e non ho altro da rivelare, come posso risponderti o rivelarti qualche altra cosa? Fissa lo sguardo in Lui solo e vi troverai anche più di quanto chiedi e desideri: in Lui ti ho detto e rivelato tutto».

Perché nessuno sa chi è il Padre se non il Figlio.

Don Andrea Lonardo

Un bambino è nato per noi (Is 9,5)

A Natale nasce un bambino-Dio, Redentore dell’umanità e «punto focale» della storia.1 Il Dio della tenerezza infinita che si era manifestato «molte volte e in diversi modi nei tempi antichi» e aveva «parlato ai padri per mezzo dei profeti», si rivela ora nel suo Unigenito, «irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza» (Eb 1,1-3). Colui che aveva agito «con mano potente e braccio disteso»,2 appare adesso nelle vesti di un fragile neonato. E tale è il paradosso del Natale: l’onnipotenza della tenerezza di Dio si fa impotenza in un bambino. Questa la pedagogia di Dio: abbassare i «superbi» e «i potenti dai troni» e «innalzare gli umili» (Lc 1,51-52), scegliere ciò che è debole per confondere i forti (1Cor 1,27; 2Cor 12,10); una pedagogia che si rivelerà pienamente nella debolezza della croce. Niente rivela tanto il cuore amante di Dio-Trinità quanto quella culla, perché se è vero che la nascita di ogni bambino tocca il cuore di ognuno di noi e costituisce un dono per il mondo, a Betlemme nasce un bambino che è Dio; una nascita che trasforma la storia impigliata nel peccato in un inizio assolutamente nuovo. In quel neonato è racchiuso il senso totale dell’universo: è compendiato il passato ed è inaugurato il futuro. Quanto Is 7,14 aveva profetizzato circa una vergine che doveva dare alla luce un figlio viene ripreso da Mt 1,22-23 e riferito al concepimento e alla nascita di Gesù da Maria. Lo stesso Isaia in 9,5-6 aveva fatto cenno a un bambino-Messia, proclamato «figlio» e compimento escatologico del regno: «Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio».3

Ora, se è vero, come afferma il poeta indiano R. Tagore, che «ogni bambino che nasce dice al mondo che Dio non è stanco degli uomini», ciò è eminentemente vero per la nascita dell’Unigenito dalla Vergine Maria, prototipo di ogni nascita e di ogni figlio di Dio, «lieta notizia» per l’intera umanità (Lc 2,10-11). Gesù rappresenta il Logos, la Parola decisiva detta da Dio al mondo. Betlemme, «casa del pane», diventa «casa della Parola», una Parola insuperabile. Tutto quanto Dio doveva dire al mondo l’ha detto, in forma definitiva, nel suo Unigenito (Gv 1,17-18). Cristo rappresenta infatti «la chiave, il centro e il fine di tutta la storia» (GS 10); e non si tratta di qualcosa di astratto, ma di un accadimento di una nascita che tocca l’intera umanità, come afferma il Concilio Vaticano II: «Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo» (GS 22). Chi crede in Gesù è posto in grado di partecipare alla grazia della sua nascita e riconoscere la propria identità come figlio infinitamente amato da Dio.

È questa la tenerezza rivelata con il Natale. Ha ragione papa Francesco quando afferma che «il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza».4 Un bambino è stato donato al mondo, in quel bambino è racchiusa tutta la tenerezza immensa di Dio. L’Onnipotente si china sull’umanità. Il Creatore si trasforma nell’Emmanuele, il «Dio-con-noi». Nel neonato-Gesù, Dio si lascia allattare da Maria e accarezzare dalle sue mani, senza la paura che il suo mistero trascendente sia profanato. «La semplicità e la vicinanza dell’amore di Dio fatto Uomo è ciò che commuove pastori e angeli».5 Grazie a questo evento, Dio sarà per sempre il Dio-con-noi, il Dio vicino, che non dobbiamo andare a cercare nelle sfere celesti, ma che si è posto al nostro fianco e cammina con noi. Col Natale, Dio si è fatto tenerezza in persona, un Dio che accoglie la nostra miseria, un Dio innamorato della nostra piccolezza, che vuole solo salvarci da ogni condizione di schiavitù. La rivoluzione della tenerezza iniziata col Natale introduce una novità assoluta nel tempo, al punto da poter dire che niente, assolutamente niente, nessuna evoluzione, nessuna scoperta scientifica, nessuna rivoluzione epocale, avranno mai tanta importanza per l’umanità e il cosmo quanto l’incarnazione del Figlio di Dio.

Non è senza significato infatti che in Occidente la storia sia suddivisa in due tempi: prima della nascita di Cristo e dopo la nascita di Cristo. Come osserva acutamente O. Cullmann:

Il nostro sistema cronologico non conta gli anni partendo da un certo punto iniziale e seguendo una numerazione che progredisce unicamente verso il futuro; esso non parte da un punto iniziale, ma da un accadimento centrale. Questo centro è un evento accessibile alla ricerca storica e può venir fissato cronologicamente, se non con estrema precisione, almeno con uno scarto di qualche anno: la nascita di Gesù Cristo di Nazaret. Da questo punto si dipartono in direzioni opposte due numerazioni, l’una che si spinge verso il futuro, l’altra che risale verso il passato: «dopo Cristo» e «prima di Cristo».6

E se è vero che questa suddivisione si è definitivamente imposta solo col medioevo, è altrettanto vero che essa riveste – per i cristiani – un significato teologico fondamentale, in quanto attesta come la storia totale debba essere compresa a partire dall’éphapax decisivo della venuta del Figlio di Dio nella carne umana. E tale è la novità assoluta della fede evangelica: che l’Infinito Amore si sia donato all’umanità in Gesù, che l’universale si sia voluto iscrivere nel particolare, che il «tutto» sia dato nel «frammento».7

(tratto da C. ROCCHETTA – R. MANES, La tenerezza grembo di Dio amore, EDB, Bologna 2015, 114-116)


1 Cf. i cantici neotestamentari di Fil 2,6-11; Ef 1, 3-14.20-23; Col 1,3.4.13-20; 1Tm 3,16.

2 Cf. Sal 89,11;98,11;136,12; Is 40,10.

3 La medesima prospettiva è sottesa a Is 11,1-9 e 49,1-6 con il simbolo del virgulto che spunta dal tronco di Iesse, un eletto fin dal grembo della madre e destinato a diventare segno di grazia per tutti.

4 FRANCESCO, Evangelii gaudium, Città del Vaticano 2013, n. 88.

5 FRANCESCO, Dacci la grazia della tenerezza. Sullo spirito del Natale, Novara 2013,32. Il libretto raccoglie molte omelie del card. José Mario Bergoglio sul Natale.

6 O. CULLMANN, Cristo e il tempo, Bologna 1967, 39-40.

7 Cf. H.U. VON BALTHASAR, Teologia della storia, Brescia 1969; ID., Il tutto nel frammento, Milano 1970.

Giubileo Straordinario della Misericordia: Un tempo per curare le ferite dell’uomo

L’annuncio di quello che sarà il 29mo Giubileo da quando, nel 1300 il primo fu proclamato da Bonifacio VIII, “è stato fatto – evidenzia una nota della Sala stampa della Santa Sede – nel secondo anniversario dell’elezione di Papa Francesco” e “l’apertura del prossimo Giubileo avverrà nel cinquantesimo anniversario della chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II, nel 1965, e acquista per questo un significato particolare spingendo la Chiesa a continuare l’opera iniziata con il Vaticano II”.

Una domanda è presente nel cuore di tanti: perché oggi un Giubileo della Misericordia? Semplicemente perché la Chiesa, in questo momento di grandi cambiamenti epocali, è chiamata ad offrire più fortemente i segni della presenza e della vicinanza di Dio. Questo non è il tempo per la distrazione, ma al contrario per rimanere vigili e risvegliare in noi la capacità di guardare all’essenziale. E’ il tempo per la Chiesa di ritrovare il senso della missione che il Signore le ha affidato il giorno di Pasqua: essere segno e strumento della misericordia del Padre (cfr Gv 20,21-23). E’ per questo che l’Anno Santo dovrà mantenere vivo il desiderio di saper cogliere i tanti segni della tenerezza che Dio offre al mondo intero e soprattutto a quanti sono nella sofferenza, sono soli e abbandonati, e anche senza speranza di essere perdonati e di sentirsi amati dal Padre. Un Anno Santo per sentire forte in noi la gioia di essere stati ritrovati da Gesù, che come Buon Pastore è venuto a cercarci perché ci eravamo smarriti. Un Giubileo per percepire il calore del suo amore quando ci carica sulle sue spalle per riportarci alla casa del Padre. Un Anno in cui essere toccati dal Signore Gesù e trasformati dalla sua misericordia, per diventare noi pure testimoni di misericordia. Ecco perché il Giubileo: perché questo è il tempo della misericordia. E’ il tempo favorevole per curare le ferite, per non stancarci di incontrare quanti sono in attesa di vedere e toccare con mano i segni della vicinanza di Dio, per offrire a tutti, a tutti, la via del perdono e della riconciliazione.

“La misericordia è un tema molto caro a Papa Francesco che già da vescovo aveva scelto come suo motto ‘miserando atque eligendo’. Si tratta di una citazione presa dalle Omelie di San Beda il Venerabile, il quale, commentando l’episodio evangelico della vocazione di San Matteo, scrive: ‘Vidit ergo Iesus publicanum et quia miserando atque eligendo vidit, ait illi Sequere me’ (Vide Gesù un pubblicano e siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: Seguimi). Questa omelia è un omaggio alla misericordia divina. Una traduzione del motto potrebbe essere ‘Con occhi di misericordia’.

Nel primo Angelus dopo la sua elezione, il Santo Padre diceva: ‘Sentire misericordia, questa parola cambia tutto. È il meglio che noi possiamo sentire: cambia il mondo. Un po’ di misericordia rende il mondo meno freddo e più giusto. Abbiamo bisogno di capire bene questa misericordia di Dio, questo Padre misericordioso che ha tanta pazienza’ (Angelus 17 marzo 2013). Nell’Angelus dell’11 gennaio 2015 ha affermato: ‘C’è tanto bisogno oggi di misericordia, ed è importante che i fedeli laici la vivano e la portino nei diversi ambienti sociali. Avanti! Noi stiamo vivendo il tempo della misericordia, questo è il tempo della misericordia’. Ancora, nel suo messaggio per la Quaresima 2015, il Santo Padre ha detto: ‘Quanto desidero che i luoghi in cui si manifesta la Chiesa, le nostre parrocchie e le nostre comunità in particolare, diventino delle isole di misericordia in mezzo al mare dell’indifferenza!'”.

Anticamente presso gli Ebrei, il giubileo era un anno dichiarato santo che cadeva ogni 50 anni, nel quale si doveva restituire l’uguaglianza a tutti i figli d’Israele, offrendo nuove possibilità alle famiglie che avevano perso le loro proprietà e perfino la libertà personale. Ai ricchi, invece, l’anno giubilare ricordava che sarebbe venuto il tempo in cui gli schiavi israeliti, divenuti nuovamente uguali a loro, avrebbero potuto rivendicare i loro diritti. “La giustizia, secondo la legge di Israele, consisteva soprattutto nella protezione dei deboli” (S. Giovanni Paolo II in Tertio Millennio Adveniente 13).

La Chiesa cattolica ha iniziato la tradizione dell’Anno Santo con Papa Bonifacio VIII nel 1300. Bonifacio VIII aveva previsto un giubileo ogni secolo. Dal 1475 – per permettere a ogni generazione di vivere almeno un Anno Santo – il giubileo ordinario fu cadenzato con il ritmo dei 25 anni. Un giubileo straordinario, invece, viene indetto in occasione di un avvenimento di particolare importanza.

Gli Anni Santi ordinari celebrati fino ad oggi sono 26. L’ultimo è stato il Giubileo del 2000. La consuetudine di indire giubilei straordinari risale al XVI secolo. Gli ultimi Anni Santi straordinari, del secolo scorso, sono stati quelli del 1933, indetto da Pio XI per il XIX centenario della Redenzione, e quello del 1983, indetto da Giovanni Paolo II per i 1950 anni della Redenzione.

La Chiesa cattolica ha dato al giubileo ebraico un significato più spirituale. Consiste in un perdono generale, un’indulgenza aperta a tutti, e nella possibilità di rinnovare il rapporto con Dio e il prossimo. Così, l’Anno Santo è sempre un’opportunità per approfondire la fede e vivere con rinnovato impegno la testimonianza cristiana.

L’annuncio ufficiale e solenne dell’Anno Santo avverrà con la lettura e pubblicazione presso la Porta Santa della Bolla nella Domenica della Divina Misericordia, festa istituita da San Giovanni Paolo II che viene celebrata la domenica dopo Pasqua.

Si tratta di una porta che viene aperta solo durante l’Anno Santo, mentre negli altri anni rimane murata. Hanno una Porta Santa le quattro basiliche maggiori di Roma: San Pietro, San Giovanni in Laterano, San Paolo fuori le mura e Santa Maria Maggiore. Il rito di aprire la Porta Santa esprime simbolicamente il concetto che, durante il Giubileo, è offerto ai fedeli un “percorso straordinario” verso la salvezza.

Le Porte Sante delle altre basiliche verranno aperte successivamente all’apertura della Porta Santa della Basilica di San Pietro.

Un Anno Santo straordinario, dunque, afferma papa Francesco, per vivere nella vita di ogni giorno la misericordia che da sempre il Padre estende verso di noi. In questo Giubileo lasciamoci sorprendere da Dio. Lui non si stanca mai di spalancare la porta del suo cuore per ripetere che ci ama e vuole condividere con noi la sua vita. La Chiesa sente in maniera forte l’urgenza di annunciare la misericordia di Dio. La sua vita è autentica e credibile quando fa della misericordia il suo annuncio convinto.

…Dal cuore della Trinità, dall’intimo più profondo del mistero di Dio, sgorga e scorre senza sosta il grande fiume della misericordia. Questa fonte non potrà mai esaurirsi, per quanti siano quelli che vi si accostano. Ogni volta che ognuno ne avrà bisogno, potrà accedere ad essa, perché la misericordia di Dio è senza fine.

La Chiesa si faccia eco della Parola di Dio che risuona forte e convincente come una parola e un gesto di perdono, di sostegno, di aiuto, di amore. Non si stanchi mai di offrire misericordia e sia sempre paziente nel confortare e perdonare (Misericordiae vultus, 25).

Diesse
dina.sco@libero.it

Con vigilanza, attendiamo Gesù

La sapiente pedagogia della madre Chiesa ci ha ricondotto alle porte dell’Avvento per introdurci nel mistero del Natale del Signore Gesù e riconsegnarci alla certezza di essere gratuitamente amati e di essere definitivamente fatti figli nel Figlio e, in Lui, consanguinei di Dio e consanguinei di ogni respiro umano. Il tempo santo dell’Avvento riporta alla soglia della nostra attenzione di credenti quell’atteggiamento che i testi biblici e liturgici indicano come vigilanza. È interessante notare che
quanto il Primo Testamento offra tanta importanza al sonno e ai sogni come “orizzonte profetico” privilegiato da Dio per svelare le sue intenzioni, tanto il Nuovo Testamento inviti pressantemente a non dormire, non ubriacarsi, a non dissiparsi, non distrarsi, a vegliare, ad essere pronti. Possiamo proprio dire che la vigilanza appare come peculiarità del credente. Ma se ogni battezzato può a pieno titolo rivendicare per sé la funzione di vigilante, per voi donne e uomini “del di più”, profeti
di un amore più grande e gratuito che cercate di tradurre lo sguardo e la Parola di Dio nell’oggi del tempo, l’essere vigilantes vi identifica, vi racconta, vi spiega. Riunificati nel cuore dall’ascolto della Parola, interiormente attenti alle sue esigenze, voi vigilantes diventate non-indifferenti a Dio, non-indifferenti agli altri, non-indifferenti alla storia. Diventate decisamente coscienti di dovervi prendere cura di altro-da-voi, vigilando su altre donne e altri uomini per custodirli.
La familiarità con i testi biblici ci insegna che le espressioni “vigilare”, “essere pronti”, “essere svegli” – ben diversamente dall’uso corrente – non evocano diffidenza, sospetto, impaurimento.
Nulla hanno di inquietante spauracchio o di minaccioso ammonimento. Al contrario, nella logica della rivelazione ebraico-cristiana, la vigilanza rivendica, per la persona umana, la capacità di saper e poter cogliere e ac-cogliere Dio che si offre come dono di gratuità, come visita inattesa e
sempre salvifica, come eccedenza di Vita che irrompe nelle vite. Il nucleo infuocato, la “buona notizia” del discepolato cristiano, è proprio questo: accogliere il dono che è Dio, accogliere Dio come dono. La nostra chiamata non è a fare o a non fare qualcosa quanto piuttosto a spalancare cuore, mani e spazi vitali per diventare aperti e disponibili a questo Dono.
Capiamo dunque perché questo tempo liturgico di ad-ventus, di ad-divenire del Dono ci spinga a vigilare. Nella sacra Scrittura, il contrario di vigilare non è tanto il dormire, quanto piuttosto la distrazione, la dissipazione, la fuga dal centro dimenticando l’essenziale perché non (più) intravisto. È il sonno e l’ottundimento dello spirito. Quanti testi profetici, sapienziali ed evangelici ci ricordano che Dio stesso vigila, è “sentinella”, è all’erta perché sempre cura, mai dimentica,
mai abbandona! Dio vigila sull’umanità per accompagnarla, per recuperarla, perché non si rassegna che qualcuno vada perduto. Dio vigila perché è pastore buono che non vuole che il lupo gli sbrani le pecore. Dio vigila perché nulla ha di più caro che l’umano. Dio vigila perché il suo cuore solo ama, sempre ama. Se Dio mai si dimentica, la vigilanza riproposta dall’Avvento è dunque apertura e risposta attiva e dinamica al Vigilante, a Dio che vigila. Mi pare di scorgere in questo divino
vigilare la metafora più eloquente ed efficace di voi donne e uomini “del di più”. È di questa vostra diuturna imitatio Dei che la Chiesa gioisce, la Chiesa vi ringrazia, la Chiesa vi chiede di non desistere! Ma vigilare perché il Signore è veniente, è il Veniente, non significa trascurare il qui-e-ora, deprezzare o peggio disprezzare il “nostro” tempo. Al contrario. Dobbiamo vigilare per tenerci pronti per gli interventi ravvicinati di Dio nella nostra quotidianità, lui che ci passa accanto rivestito della ferialità del tempo umano e mai nell’appariscenza, nell’eclatanza, nella prepotenza, sì da attrarre l’attenzione. Vigilare è l’unico antidoto contro il trascurare: Dio, gli altri, noi stessi. Solo chi vigila diventa responsabile verso la storia, dà risposta ad ogni segmento di storia incrociata. Chi vigila lo fa innanzitutto su di sé perché il vero nemico è in se stessi, non fuori. Chi vigila
aderisce alla realtà senza sgattaiolare nell’immaginazione e nell’idolatria. Chi vigila lavora e non ozia. Chi vigila ri-conosce gli indizi e le orme del Dio vivente dentro le pieghe e le piaghe della storia. Chi vigila sa prendere adeguatamente tra le dite le trame dell’esistenza quotidiana vivendola non come storiella o come storiaccia, ma come storia di salvezza. Storia salvata. Chi vigila può permettersi il lusso di vivere il presente, ma tenendo lo sguardo rivolto all’incontro definitivo.
Chi vigila non svaluta né presente né passato e può diventare libero cittadino del futuro perché scarcerato dall’ansia per il domani. Chi vigila si accoglie senza compiacersi di sé e così fiorisce
al cambiamento, alla conversione. Chi vigila ha il domicilio in un’illuminata pazienza e, contemporaneamente, in un’urgenza quasi impaziente perché ormai libero prigioniero della speranza. Chi vigila sa che l’unico tempo su cui ha effettivo potere è solo il presente. Presente di cui sa cogliere il senso delle cose e del tempo, leggendovi in trasparenza le attese e le speranze terrene, illuminandole proprio nel loro essere penultime, nella loro peculiare dignità che è sempre quella di rinviare ad un Altro. Chi vigila vive capace di ascolto, trovando sempre la scelta più umana e umanizzante tra le molteplici e discutibili che la storia pone sotto gli occhi. Chi vigila fa di tutto per farsi compagno della verità, ma non dimentica che la verità si può solo servire senza mai servirsene.
Chi vigila non si consegna a corpo morto al torpore dell’immediato e allo scintillio dell’apparenza perché il suo domicilio è l’Ulteriorità di Dio. Chi vigila sa che Dio c’è e c’è da Dio e che ha urgenza di incontrarci. Nella carne gloriosa del Figlio Gesù la vigilanza del credente diventa certezza dell’amato. Non è stata forse questa la trama d’oro che ha intessuto le vite di tanti noti e sconosciuti fratelli e sorelle che lungo i secoli hanno vigilato nella Chiesa e per la Chiesa, custodendo altri
come umili eroi per solo gratuito amore?

Donne e uomini dell’hodie
Come ogni anno, l’Avvento mette in crisi il nostro presente, l’oggi. C’è un hodie da ripesare, da ripensare, da purificare e convertire. Il Salmo 84, quasi colonna sonora di questo tempo liturgico, ammonisce un presente saturo del giudizio di Dio: “Rialzaci, Dio nostra salvezza, e placa il tuo sdegno verso di noi, di età in età estenderai il tuo sdegno?” (Sal 84,5-6).
Ogni vostra comunità può dunque mettere in crisi, senza criticare, un oggi dis-umanizzato e privo
di speranza, solo a patto di vivere nel presente, una misura alta – la più alta – di umanità tra voi e con coloro che il Signore vi dona da amare e servire. Ogni vostra comunità così umanizzata, umanizza, e così, rifiuta di smentire la gioiosa corsa che il Regno già compie negli aridi solchi del presente. Come i profeti così nella Chiesa ogni comunità tutta datasi per il Vangelo, annuncia nell’oggi inquieto degli uomini il giudizio di Dio, giudizio che salva e che traccia strade per il ritorno a lui: “Signore, sei stato buono con la tua terra, hai ricondotto i deportati di Giacobbe. Hai perdonato l’iniquità del tuo popolo, hai cancellato tutti i suoi peccati. Hai deposto tutto il tuo sdegno e messo fine alla tua grande ira” (Sal 84,1-4). Come Maria, ogni vostra comunità incarna il Verbo della vita nel tribolato oggi dei popoli, in un presente che è sempre gravido di un Dio da generare non fuori dell’oggi, non oltre l’oggi, non nonostante l’oggi. Ma oggi. Come Giovanni, ciascuno di voi – ma voi insieme – lo indica presente come “Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”, nell’oggi incerto del mondo e mai altrove. A patto che ogni vostra comunità di uomini e donne “del di più”, cresca come esperta di umanità. È anche questo un lusso che vi potete permettere perché sempre ri-umanizzati dal Verbo della vita e dal salvifico Corpo del Signore. È ciò che auguro a ciascuno di voi: che il vostro appartenere di più a Dio e di più ai fratelli parli al nostro oggi.
È dono e compito di ogni profeta che deve accompagnare fratelli e sorelle dalla schiavitù alla libertà, dire nell’oggi il progetto di Dio già carico di futuro; è dono e compito di ogni assemblea liturgica di divenire più consapevole di essere convocata oggi, non ieri né domani; è dono e compito di ciascuno di voi che dell’amore di gratuità ha fatto la sua scelta di vita, non distogliere – oggi – i suoi occhi da chi vive miserie, fallimenti, fatiche, paure e disinganni. Solo vivendo intensamente, e così l’Avvento, e finalmente travolti da intima gioia, potrete giungere a cantare nel giorno santo del Natale, insieme all’intera Chiesa dove siete stati seminati come frumento buono e nutriente: “Oggi sapete che il Signore viene a salvarci” (Introito della messa vespertina della Vigilia); “Oggi è nato per voi un salvatore” (Vangelo della notte); “Oggi su di noi splenderà la luce, perché è nato per noi il Signore” (Introito della messa dell’aurora); “Oggi Cristo è nato, è apparso il Salvatore; oggi sulla terra cantano gli angeli… oggi esultano i giusti” (antifona al Magnificat dei
secondi Vespri di Natale).
Donne e uomini del cras
Ma la santa liturgia dell’Avvento ci ricorda anche che ogni hodie muore e diventa cras, ogni oggi tramonta e diventa domani. È proprio il tempo di Avvento, sobrio e teso all’Ulteriorità, che si fa carico di ri-cor-darci, di restituire alla memoria del cuore, che non tutto si chiude nell’oggi, nel presente, anche se tutto si gioca qui e non altrove. Non esiste un solo giorno che si avviti e si accartocci su se stesso, ma di oggi in oggi, Dio modella la storia e la conduce ad un inedito – ma quanto atteso! – domani. L’intera liturgia di Avvento trasuda di cras, fino ad erompere in quel grido vigiliare che fa scoppiare il cuore di esultanza: “Domani si rivelerà la gloria del Signore e ogni
uomo vedrà la salvezza del nostro Dio” (Antifona alla comunione della messa della vigilia di Natale: Is 40,5). Il luogo sacro e il vero roveto ardente e inestinguibile dove ogni oggi tramonta e diventa domani è la nostra stessa vita di donne e uomini “del di più”: nei nostri affetti, nelle nostre
scelte, nei nostri stili di vita, nella nostra fraternità sempre rilanciata, nel perdono tenacemente offerto e ricevuto, nella nostra solidarietà sempre riscelta “ogni uomo vedrà la salvezza di Dio”. Ecco anche perché il futuro è il tempo verbale più caro alle pagine bibliche e ai testi liturgici dell’Avvento: verrà; sorgerà; apparirà; Sion sarai rinnovata; ogni uomo vedrà la salvezza di Dio; il Signore farà sentire la sua voce… È certo: domani! E così, Parola e Liturgia, ci educano e ci abilitano ad una attesa gioiosa e non depressa: “Rallegratevi sempre nel Signore, ve lo ripeto, rallegratevi, il Signore è vicino” (Fil 4,4.5). Il binomio attendere-gioire, nel nostro tempo, non pare essere vincente. Anzi. Ci siamo quasi convinti che si gioisce solo se si possiede e si trattiene, solo se si fagocita impadronendoci. Attesa e desiderio li si vive come fonte di ansia e di incertezza se non come frustrazione e smacco. L’attendere e il gioire guardano decisamente al domani e plasmano discepoli ed evangelizzatori capaci di puntare il dito per indicare la via nuova e appianata che Dio solo sa aprire nella steppa e nel deserto per condurre altrove il suo popolo.

Donne e uomini della Parola, dell’Eucarestia, della Fraternità
Ma chi vi formerà per questo ministero di indicatori del Veniente, quando, perché e come levare il dito per additarlo? C’è forse un tempo di sosta che abilita all’attesa gioiosa? C’è da qualche parte uno spazio santo che nutre la gioia senza consumare il cuore? C’è traccia di una parola che illumini
senza abbagliare e di un viatico che nutra senza appesantire? C’è un clima che rinfranchi il respiro e sostenga il passo? C’è. E le vostre vite di donne e uomini “del di più” lo rivelano a tutta la Chiesa: Parola, Eucarestia, Fraternità sono quel “tempo sospeso” e quello spazio già abitato dal cras, che permette di stare dentro la storia che scorre e attendere ed invocare l’avvento del Regno nella certezza che è già tra noi. Parola, Eucarestia, Fraternità sono la cattedra da cui apprendere il come, il quando e il perché alzare il dito, con parresia e umiltà, per indicare il Signore presente nella storia. Parola, Eucarestia, Fraternità sono il cibo sostanziale e la luce “alla cui luce vediamo la luce”, senza accecarci. Parola, Eucarestia, Fraternità danno sostegno e ritmo a passi talvolta lenti, talvolta insicuri, talvolta maldestri.

Per gentile concessione di  S.E. Mons. Mauro Maria Morfino
Vescovo di Alghero – Bosa
Delegato per il Clero e la Vita consacrata

Chi persevererà sino alla fine sarà salvato

Tutte le volte che sopportiamo angustie o tribolazioni, queste costituiscono per noi un avvertimento e nello stesso tempo un mezzo per correggerci. Infatti anche la Sacra Scrittura non ci promette pace, sicurezza e tranquillità; anzi il vangelo non ci nasconde le tribolazioni, le angustie e gli scandali. Assicura però che «chi persevererà sino alla fine, sarà salvato» (Mt 10,22). Dal primo uomo non avemmo alcun bene, anzi ereditammo la morte e la maledizione, da cui doveva venire Cristo a liberarci.

Perciò non lamentiamoci e non mormoriamo, o fratelli. Ce ne mette in guardia anche l’Apostolo dicendo: «Mormorarono alcuni di essi, e caddero vittime dello sterminatore» (1Cor 10,10). Che cosa di nuovo e insolito, o fratelli, patisce ai nostri tempi il genere umano, che non abbiano patito i nostri padri? Anzi possiamo noi affermare di soffrire tanto e tanti guai quali dovettero soffrire loro? Eppure troverai degli uomini che si lamentano dei loro tempi, convinti che solo i tempi passati siano stati belli. Ma si può essere sicuri che se costoro potessero riportarsi all’epoca degli antenati, non mancherebbero di lamentarsi ugualmente. Se, infatti, tu trovi buoni quei tempi che furono, è appunto perché quei tempi non sono più i tuoi.

Dal momento, infatti, che sei già libero dalla maledizione, che possiedi già la fede nel Figlio di Dio, che sei già stato iniziato e istruito nelle sacre Scritture, non vedo come tu possa pensare che Adamo abbia conosciuto tempi migliori. Anche i tuoi genitori hanno portato l’eredità di Adamo. Ed è proprio Adamo colui al quale fu detto: Con il sudore del tuo volto mangerai il tuo pane e lavorerai la terra da cui sei stato tratto; essa spine e cardi produrrà per te (cfr. Gn 3,19.18).Ecco che cosa ha meritato, che cosa ha ricevuto, ecco che cosa gli ha inflitto il giusto giudizio di Dio. Perché allora credi che i tempi passati siano stati migliori dei tuoi? Considera bene che dal primo Adamo sino all’uomo odierno non s’incontra se non lavoro, sudore, triboli e spine.

Cadde forse su di noi il diluvio? Son venuti forse su di noi tempi tanto terribili di fame e di guerre, come una volta e tali da giustificare il nostro lamento contro Dio a causa del tempo presente?Pensate dunque che sorta di tempi erano quelli. Sentendo o leggendo la storia di quei fatti, non siamo forse rimasti inorriditi? Perciò abbiamo piuttosto motivo di rallegrarci, che di lamentarci dei nostri tempi.

Dai «Discorsi» di sant’Agostino, vescovo
(Disc. Caillau-Saint-Yves 2, 92; PLS 2, 441-442)

La profezia della donna consacrata nell’oggi della Storia*

Introduzione

Dopo aver a lungo riflettuto su questo tema così bello e affascinante, ho pensato di partire dalla seconda parte del tema: l’oggi della storia. Questo perché l’analisi del tempo in cui viviamo costituisce da molto tempo uno degli oggetti principali della mia ricerca intellettuale. Questo è insomma il mio pane quotidiano. Solo in un secondo momento, ho poi provato a cogliere degli spunti che diano respiro e profondità alla prima parte del titolo del nostro incontro: la profezia della donna consacrata.
Ovviamente questo tema della profezia della donna consacrata e più generale della vita consacrata è stato molto richiamato in questo anno speciale a voi dedicato. Basterebbe pensare ai documenti emanati apposta. Aggiungerci qualcosa non è facile. Confido, tuttavia, che i tre “aspetti profetici” che ho individuato, in stretta relazione allo sviluppo della prima parte della mia riflessione, possano contribuire ad allargare gli orizzonti della riflessione sulla presenza profetica nell’oggi della storia, che immagino non sarà mai stata così abbondante come in questo anno speciale.

Enucleo tre passaggi, ognuno dei quali è introdotto da una domanda.

a) Primo passaggio: capire l’oggi della storia implica fare un po’ di storia dell’oggi; quindi prima domanda: da dove veniamo?
b) Secondo passaggio: cogliere qual è il profilo antropologico dell’oggi della storia; quindi seconda domanda: che cosa ci contraddistingue di più nella nostra esperienza umana oggi?
c) Terzo passaggio: individuare gli ingredienti della “profezia” della donna consacrata; quindi terza domanda: che cosa può “ricordare”, a che cosa può dare voce, quali elementi può evidenziare la donna consacrata che in quest’oggi della storia sono dimenticati, vengono messi a tacere e sono stati mandati come in pensione anticipata?
Segnalo sin da subito sinteticamente le risposte a queste tre domande:
a) la prima è data dal fatto che il nostro oggi è frutto di una profonda rivoluzione/trasformazione che riguarda il nostro modo di essere al mondo, il nostro sentimento di vita, il nostro modo di sognare, di amare, di progettare, di valutare nulla di meno che l’umano in quanto tale. Per citare papa Francesco: non siamo in un’epoca di cambiamento ma in un cambiamento d’epoca;
b) la seconda risposta è la constatazione che non siamo quasi mai all’altezza di questo cambiamento (la cosa di per sé non è difficile da comprendere: si pensi solo alla questione della longevità: dobbiamo “programmare” almeno altri 20 anni di vita dopo la nostra pensione!): e per questo il carattere che contraddistingue di più l’uomo e la donna di oggi è “l’immaturità”, il giovanilismo diffuso, la fatica di essere adulti, la sindrome di Peter Pan che è diventato pure una scelta di vita e nello stesso tempo il tallone d’Achille su cui continuamente ci colpisce il potere forte di questa epoca: il mercato, il quale teme come la peste la gente matura, adulta (si pensi al fatto che ogni anno, in Italia, nonostante la crisi, spendiamo qualcosa come 9 miliardi di euro per prodotti per la cosmesi, inclusi i prodotti contro la caduta dei capelli, quando è a tutti noi che solo il pavimento è capace di fermare la caduta dei capelli!);
c) la terza risposta è data dal rilievo che oggi abbiamo perso un’importante familiarità con il carattere contingente dell’esistenza, con l’esperienza liberante e tonificante della preghiera e con quella fiducia d’anticipo sul carattere salvifico della comunità.
Insomma: in un universo culturale profondamente cambiato, nel quale gli umani faticano a salvaguardare la loro dignità, la donna consacrata è chiamata a essere voce, a far profezia del fatto che dobbiamo benedire la contingenza della vita, che senza la preghiera la pubblicità ci “frega” e che senza la dimensione comunitaria le famiglie si surriscaldano eccessivamente e il corpo sociale muore di assideramento.
Tre parole per la profezia della donna consacrata oggi: benedizione della contingenza, preghiera, comunità.
1. Primo passaggio: da dove veniamo
      Per avviare la prima tappa del nostro itinerario, mi piace ricordare quanto ha scritto Galimberti: «Gli uomini non hanno mai abitato il mondo, ma sempre e solo la descrizione che di volta in volta il mito, la religione, la filosofia, la scienza hanno dato del mondo. Una descrizione attraverso parole stabili, collocate ai confini dell’universo per la sua delimitazione e all’interno dell’universo per la sua articolazione»[1].
     Questo è il punto: noi abitiamo sempre una descrizione del mondo fatta da parole stabili, da punti cardinali, da valori forti, che ci offrono e determinano la possibilità di leggere e apprezzare il mondo. Ci orientano: ci danno un orizzonte culturale. Ed è proprio la diversa scelta e composizione delle parole stabili che contraddistingue la differente descrizione del mondo per esempio di un aborigeno australiano rispetto a quella di un occidentale.
      Quando dico che la risposta giusta alla domanda “da dove veniamo?” è quella di riconoscersi all’indomani di una grande rivoluzione che riguarda il senso della vita, intendo più precisamente affermare che dobbiamo prendere coscienza del fatto che è cambiata la descrizione tradizionale dell’universo (occidentale): quella, per capirci, in cui e grazie alla quale ancora i nostri nonni e le nostre nonne abitavano il mondo[2].
      In sostanza oggi sono molto diverse – rispetto appunto a quelle dei nostri nonni e delle nostre nonne – le parole chiave con cui leggiamo e valutiamo a livello spontaneo la nostra esistenza e l’esistenza degli altri. Possiamo dire che abitiamo diversamente da loro il mondo e quindi possiamo dire che abitiamo un mondo diverso. Si sono spostati, modificati, sostituiti i valori fondamentali, i punti di riferimento, gli assi cardinali della nostra immaginazione e del nostro giudizio spontanei. Con tanti guadagni e ovviamente con tante sfide. Siamo dunque in un mondo che è cambiato.
      Per ridire la cosa con le parole di Marco Aime, dobbiamo accettare che «Le culture sono occhiali con cui leggere il mondo. Cambiando occhiali, anche la realtà sembra differente. Possiamo dire che ogni cultura cerca di dare un proprio ordine alla natura»[3]. Ecco cosa ci è successo: per tanto tempo abbiamo usato un tipo assai particolare di occhiali che ci faceva vedere le cose “così e così” e ora abbiamo cambiato appunto occhiali…
      Il cambiamento di cui parliamo – la fabbricazione dei nuovi occhiali per restare all’esempio di prima – ha avuto inizio nella metà dell’Ottocento; tuttavia esso si è iniziato ad imporsi a livello diffuso a partire dalla rivoluzione culturale del Sessantotto, per questo parlavo dei nostri nonni e delle nostre nonne. In un primo momento il cambiamento ha riguardato alcune élite culturali oppure si è concentrato in specifici eventi storici; solo successivamente ha determinato il nostro modo di guardare e giudicare il mondo: la nostra descrizione del mondo. In sintesi: il nostro mondo.
      Entriamo nei particolari di questo discorso e portiamoci al 1859. Che cosa succede nel 1859?
1)In quella data, Charles Darwin scrive il libro L’origine delle specie; con le tesi ivi esposte egli sgancia la comparsa dell’uomo sulla terra dal legame con Dio: invita a guardare l’origine della specie umana, piuttosto che in direzione dell’alto (il paradiso, il cielo, l’eternità), in direzione della nostra comune parentela con altri animali. Inizia così il cambiamento; e a seguire, pochi anni dopo Darwin, troviamo la prima e la seconda internazionale che intendono trasformare la protesta di Marx – non possiamo attendere il paradiso! – in programma politico. Ancora: Freud riformula il concetto di anima quale centro di aggregazione energetico, spogliandolo di ogni aspetto spirituale (non è più il cordone ombelicale del paradiso); l’avvio di quella che normalmente viene indicata come seconda rivoluzione industriale getta le basi per quella espansione globale del mercato, di cui oggi siamo spettatori. In quegli anni si sviluppa, infatti, l’impresa della General Motors e quella di Henry Ford, nasce la Coca cola e la Fiat: la terra non viene più percepita quale valle di lacrime, ma come un posto nel quale ci si può agevolmente installare. Che cosa capita, dunque? Con le parole di Nietzsche, si assiste al pensionamento del Platonismo, inteso come descrizione del mondo secondo due piani: il mondo eterno e vero, da una parte, e il mondo finito e finto, dall’altra; una descrizione secondo la quale l’uomo, dotato di un’anima eterna, aveva nel cielo la sua patria; il finito era inteso come un carcere da cui doversi liberare. Dopo Darwin, Freud, Marx, Ford, gli occhiali di Platone non servono più. Inizia a cambiare radicalmente la risposta alle quattro domande della vita: da dove veniamo? (Darwin); dove andiamo? (Marx); chi siamo? (Freud); che cosa facciamo qui? (si passa dall’economia della salvezza alla salvezza attraverso l’economia: patrimonio di Ford fu di 199 miliardi di dollari).
       La prima parola chiave della tradizione classica occidentale che qui viene messa in discussione è quella dell’eternità, del paradiso, del cielo, mentre assume una nuova risonanza e consistenza la “finitezza”, il mondo concreto, la politica, l’economia. E questo avrà grande effetto ad ogni livello dell’immaginario, sia umano che religioso: oggi è rimasta solo la Lavazza a parlare del Paradiso….
2) Questo primo ribaltamento – dall’eterno al finito – è di grande impatto sulla “cultura alta” del primo decennio del Novecento ed assistiamo così ad una rivisitazione profonda di ogni branca del sapere. Il finito non è più una cosa negativa, dipendente esclusivamente dall’eterno, ma riveste un’altra dimensione. Tra il 1905 e il 1908 accade così un’altra grande stagione di rivisitazione della descrizione classica dell’Occidente. È l’epoca di Einstein e della sua teoria della relatività, è l’epoca di Picasso e il suo dipinto Les demoiselles d’Avignon che introduce l’arte cubista, è l’epoca di Schönberg e dei suoi Sei piccoli pezzi per pianoforte Op. 19 che avviano la musica atonale, è l’epoca di Joyce e di Proust con il Ritratto del giovane artista e La ricerca del tempo perduto, che sconvolgono i canoni letterari di fine Ottocento. È ancora l’epoca di Freud, che sgancia la sessualità dalla necessità della riproduzione.
È pure l’epoca di Thomas Mann e di Pirandello, l’epoca di Kafka, che ribalta ogni primato del vincitore sul vinto, del forte sulla vittima. E ancora si trova Kurt Gödel, il quale sancisce l’impossibilità di rinvenire principi primi da cui derivare la matematica. E cosa non dire della fenomenologia di Husserl, del pensiero ebraico dell’alterità e dell’attesa messianica di Buber e di Rosenzweig?
       Che cosa succede? Succede che non si ha più fiducia in un’unica verità e in una verità unica, in una prospettiva definita e definitiva, ma emerge tutto il fascino della soggettività, dell’emotività, del lato notturno del cuore umano, della differenza, dell’alterità, dell’apertura e dell’ospitalità del diverso, del rispetto, del politicamente corretto, della tolleranza, dell’attesa. Un enorme cambiamento e positivo, pure, ma anche con grandi ripercussioni sull’elementare della vita: mancando di una prospettiva centrale, maggioritaria, la nostra coscienza è oggi un piccolo parlamento di tante voci, sovrapposte l’una all’altra a volte in modo caotico (come i canali digitali, che passano da TV2000 con “una serata insieme a papa Francesco” a Mediaset-extra con Bonolis e Ciao Darwin…).
3) Un terzo decisivo elemento di cambiamento è dato dalla tragedia dell’Olocausto. Nel 1942, nel campo di sterminio nazista di Auschwitz, “nasce” l’epoca della tecnica, la quale si caratterizza per il fatto che la ricerca finalizzata al potenziamento di mezzi più veloci per sterminare i prigionieri segna lo sganciamento della tecnica dal diretto legame con i bisogni del soggetto umano. Si impone l’assioma secondo il quale ciò che tecnicamente sperimentabile va semplicemente sperimentato: è l’avvio di quel processo di autoperfezionamento dei prodotti della ricerca tecnica, che prescinde dall’ambiente umano e che però rimodella di continuo. Questo modello ha avuto subito successo per i grandi cambiamenti che ha realizzato nel miglioramento delle condizioni medie della vita degli occidentali, dall’igiene alla salute (l’incredibile longevità attuale), dai viaggi alle comunicazioni, ma ha anche inciso su una certa concezione del mondo e della vita umana. Il mondo non è più un insieme di sostanze stabili e fisse, ma di relazioni e la vita non è fatta di faticose conquiste da preservare e migliorare ma di possibilità, di occasioni.
       E che cosa ne è allora per esempio delle leggi naturali, in un mondo che non riconosce più alcun elemento di stabilità alle cose e agli individui? Tutto è relazione, tutto è in relazione, tutto è in vista della relazione.
       Non dimentichiamo poi anche la forza dirompente dell’Olocausto sul livello inconscio dell’immagine di Dio. Di fronte all’Olocausto, chi ora ha ragione, il prete che predica la creazione divina degli uomini o Darwin che dimostra la loro derivazione dalle scimmie? Chi ha ragione il catechista che proclama la santità celeste dell’anima oppure Freud che la diagnostica quale pura energia disponibile tanto all’eros quanto al thanatos – all’amore e alla morte? Né va posto a tacere la questione del silenzio di Dio, di quel Dio dei filosofi e dei teologi dell’onnipotenza. Come è stato giustamente detto, con la Shoah accade qualcosa di profondo: muore il Dio morale, il Dio che fonda la morale nella paura. È un Dio senz’altro lontano dal Vangelo, ma è quel Dio largamente diffuso nel tempo dopo il Concilio di Trento. Anzi già dal tempo della grande peste del XIV. Quale paura potrà più evocare il Dio che non ha fermato la mano di Mussolini e quella di Hitler? Per questo oggi più nessuno si sente in colpa per non essere un credente praticante o per non essere andato a Messa la domenica… e cambia pure la concezione del peccato.
4) Tutto questo cammino si concretizza e si diffonde su larga scala nella rivoluzione culturale del Sessantotto. Cosa succede con e nel Sessantotto? È il tempo in cui si compiono le profezie di Nietzsche. Lui sapeva di venir in anticipo rispetto al proprio tempo ed è esattamente nell’anno della rivoluzione del maggio francese che le sue istanze diventano pane quotidiano del cittadino medio occidentale. Parliamo dell’istanza della singolarità, dell’unicità, della corporeità, della musica orgiastica, della scelta, dell’autonomia del soggetto. “Vietato vietare”: ecco lo slogan del ’68, con il quale si attacca la tradizione culturale e morale del passato, giudicata eccessivamente irrispettosa della singolarità di ciascuno. “Ognuno è per sé”. Qui saltano in aria le forme di vita (matrimonio, paternità, maternità), i ritmi di vita (adolescenza, giovinezza, maturità), i mestieri. E cosa non dire dell’emancipazione sessuale e sociale della donna? “La” pillola ha cambiato alchimie psichiche che andavano avanti da migliaia di secoli! La forza deflagrante di questa invenzione era stata preparata anche dal voto dato alle donne nel 1946 e poi dall’obbligatorietà della scuola media, nel 1957. Potere politico, potere culturale, potere fisico e infine sempre di più potere economico, con l’autonomia dai soldi del marito che il lavoro consente alle donne: si rompe un archetipo mascolino potente (gli stivali ormai li portano solo le donne e le forze dell’ordine).
      Più in generale, ancora, in modo indiretto, riconosciamo nel ’68 un attacco a un altro grande pilastro della tradizione cristiana e della tradizione occidentale, quello costituito dal pensiero di Sant’Agostino, che aveva invitato l’uomo a leggere la sua vita all’interno di un generale quadro di tipo provvidenziale, nel quale la lotta contro il peccato e il male passava nel cuore di ogni uomo, che doveva essere ben disposto ad accogliere anche la parola e la realtà del sacrificio/rinuncia in vista della città di Dio, del paradiso. Grande parola chiave della descrizione occidentale del mondo, fino a quanto è rimasto un luogo della terra povero (anni ’60, boom economico).
      Ora, al posto di Agostino, arriva John Lennon che invita a una forma di immaginazione diversa, a una descrizione diversa del mondo: Imagine. Sì, immagina che non ci sia il paradiso, se stai cercando la felicità, la vita buona. Si compie qui un salto dimensionale forte nell’immaginario diffuso: dopo due millenni vissuti all’ombra della cacciata dal paradiso, si assiste ora alla cacciata del paradiso! E non è un caso che nel 1969 l’uomo arrivi sulla luna e possa fissare dall’alto dei cieli il suo mondo! (E non è ancora un caso che con la musica pop nascano le discoteche: straordinari laboratori ove si può sperimentare l’evoluzione umana: sei milioni di anni per passare dalle scimmie all’uomo, un quarto d’ora di musica assordante per fare il viaggio al contrario dall’uomo alle scimmie…).
5) L’ultima tappa del viaggio che ha deciso la ristrutturazione dell’immaginario attuale diffuso riguarda la crisi dell’autorità, della legge, della forza degli istituti giuridici a plasmare la vita della città. La coscienza tradizionale è stata profondamente influenzata dal diritto romano: cioè dal riconoscimento del vincolo della legge quale garanzia assoluta di una convivenza pacifica. Ebbene, nella fatica dell’elaborazione del lutto della seconda guerra mondiale (dove era più l’autorità della forza che non la forza dell’autorità), nella lotta contro il terrorismo, nel crollo del muro di Berlino, accaduto nel novembre del 1989, negli scandali finanziari di Mani pulite, nel crollo delle Torre Gemelli, nella recente mescolanza delle religioni e delle culture, nella rapida globalizzazione dell’economia, ha luogo una decisa svolta contro la forza dell’autorità.
      Quale legge può salvarci? Quale polizia può difenderci? Quale politica per questo scenario? Quale futuro per questa economia? Che senso avrà mai l’autorità?
      Il punto di sintesi è che nessuno oggi può avallare le sue idee semplicemente invocando il ruolo che riveste. È la sottrazione del carattere performante alla parola dell’autorità. Al posto dell’autorità sorge il tema della convinzione e la forma elementare della convivenza è quella della democrazia, cioè della libera determinazione del singolo. Ed ovviamente i mass media di nuova generazione esaltano questo elemento della singolarità, della soggettività: I-phone, I-pad, I-pod, ecc. Eccoci allora al nostro oggi, al nostro tempo, le cui parole chiave sono la finitezza, l’alterità, il pluralismo, la tolleranza, il sentimento, la tecnica, la salute, il cambiamento, l’aggiornamento, la corporeità, la donna, il consumo, il benessere, la giovinezza, la longevità, la singolarità, la sessualità, la democrazia, la convinzione, la comunicazione, la partecipazione… mentre tutto ciò che sa di eternità, paradiso, scomunica, natura, legge naturale, fissità, maturità, adultità, spirito, morte, mascolinità, sobrietà, povertà, sacrificio, autorità, diritto, tradizione: ecco, tutto questo passa in secondo piano… (come amo dire ironicamente oggi l’unica e ultima esperienza possibile di eternità è quella dell’accensione di un mutuo: un mutuo – come un diamante – è davvero per sempre…).
      E la sfida per tutti è la seguente: come reggere ad un tale capovolgimento, a questo nuovo immaginario, a questa inedita scala di valori, che così all’improvviso ci si è imposta e che di continuo ci toglie il respiro ad ogni ora del giorno e della notte?
2. Secondo passaggio: che cosa ci contraddistingue
      Da un punto di vista generale, non stupisce affatto che quasi nessuno oggi riesca ad essere all’altezza del nuovo scenario umano in cui ci troviamo a vivere. Ed è proprio questa situazione ciò che dobbiamo registrare come “sintomo” caratteristico dell’umanità attuale: il sintomo/carattere di una diffusa “immaturità” ovvero di un giovanilismo diffuso, di una fatica incredibile a diventare adulti, maturi; insomma, la sindrome di Peter Pan[4]. Ed è malattia che ha aggredito soprattutto la generazione degli adulti, quelli nati grosso modo tra il 1946 e il 1964 e che hanno vissuto pienamente il Sessantotto. Tramite loro, la malattia dell’immaturità e del giovanilismo ha letteralmente inquinato l’aria che respiriamo; ed è questa malattia che ci sottrae a volte la forza di sperare, di guardare con fiducia al futuro del nostro mondo; è per questa malattia che ci vogliono oggi “uomini e donne di profezia”: a causa di questa malattia gli adulti in particolare stanno perdendo la loro originaria vocazione e forza generativa ed educativa, non riuscendo più ad educare e a trasmettere la fede. E si rendono conto, giorno dopo giorno, che stanno lasciando una società parecchio guastata ai pochi figli quasi per nulla preparati ad essa.
      Ma che cosa è questa malattia dell’immaturità, questa sindrome di Peter Pan, questa fatica di essere adulti? Facciamoci aiutare da Francesco Stoppa, che usa un linguaggio più immediato e offre analisi di grande profondità. Interrogandosi sull’identità della generazione adulta (quella nata tra il 1946 e il 1964), Stoppa avverte che «La specificità di questa generazione è che i suoi membri, pur divenuti adulti o già anziani, padri o madri, conservano in se stessi, incorporato, il significante giovane. Giovani come sono stati loro, nessuno potrà più esserlo – questo pensano. E ciò li induce a non cedere nulla al tempo, al corpo che invecchia, a chi è arrivato dopo ed è lui, ora, il giovane»[5]. Per questo è alla fine dei conti una generazione che ama più la giovinezza che i giovani. Innestando così elementi di concorrenza intergenerazionale al posto dei salutari conflitti intergenerazionali.
        Il contenuto di questo ideale di giovinezza nulla ha a che fare con ciò che normalmente si intende con “spirito della giovinezza” o “giovinezza dello spirito”. La giovinezza come ideale è qui intesa piuttosto come grande salute, performance, libertà sempre negoziabile, via sicura per l’affermazione della propria sessualità, del proprio successo, del proprio fascino, disponibilità ininterrotta a “fare esperienze”, a completarsi e a rinnovarsi. Giovinezza è viagra! (Scusate la rudezza).
        Va da sé che qui non esiste più alcuno spazio per il lato etico-morale, educativo, specificante l’età adulta: definitività delle scelte lavorative ed affettive, anche quando non sono più all’altezza delle promesse che avevano lasciato intravedere all’inizio; responsabilità generativa ed educativa, che comporta quel costante oblio di sé a favore di altri; impegno appassionato per un’accurata e costante manutenzione dello spazio politico, condizione essenziale per la realizzazione del bene dei figli; e da ultimo consumazione del lutto con la presa di coscienza del proprio inevitabile destino mortale, con tutto il carico di lavoro su di sé che questa crisi comporta e che apre lo spazio per il passaggio del testimone (gli Dei greci immortali normalmente mangiano i figli…). Per questo l’orizzonte di riferimento degli adulti attuali – annota Marcel Gauchet – è quello di «essere il meno adulti possibile, nel senso peggiorativo acquisito dal termine, sfruttarne i vantaggi aggirandone gli inconvenienti, mantenere una distanza rispetto agli impegni e ai ruoli imposti, conservare il più possibile delle riserve per altre possibili direzioni».
        Quella degli adulti è perciò una generazione che ha fatto della giovinezza il suo bene supremo: si può dire per paradosso che è una generazione che ama la giovinezza più dei giovani. Più dei figli. Ed è a causa di questo amore al contrario che sta procedendo ad un inquinamento senza precedenti del nostro immaginario valoriale di base, dalla lingua che parliamo alla grammatica fondamentale dell’esistenza umana: la vecchiaia, la malattia, la fragilità umana, la morte e infine la stessa giovinezza. Con gravi ricadute nell’educativo. Vediamo.
        A livello linguistico: se uno muore a 70 anni si dice che è morto giovane, se uno ha quarantacinque anni è ancora un ragazzo, un giovane: può aspettare perciò… In Chiesa abbiamo i giovani, i giovanissimi, i giovani adulti, gli adulti giovani, i diversamente giovani e gli adultissimi…
        Per questo la vecchiaia è diventata oggi il nemico “numero uno” della nostra società: è parola eliminata da Wikipedia (chiedetevi semplicemente: quando diventerò vecchio? Cioè a quale età dichiarerò di essere vecchio?), nulla si vende che non sia “anti-age”, è l’ultima e imperdonabile offesa che si possa rivolgere ad un essere umano, è il tallone d’Achille su cui mortalmente ci ferisce la pubblicità e il sistema economico capitalistico (“a tutto possiamo resistere, tranne a ciò che ci aiuta a lottare contro la vecchiaia”). A questo proposito è importante tenere conto della straordinaria capacità del mercato di inserirsi brillantemente in questi processi di riscrittura della qualità adulta dell’umano: adulti che non vogliono smettere di fare i giovani sono perfettamente adesivi al sistema economico imperante, che ha sempre bisogno di elargire soddisfazioni “a termine” e quindi di alimentare l’insoddisfazione dei consumatori. Un consumatore soddisfatto è l’incubo del mercato. Il mito della giovinezza va a braccetto con questo sistema: esiste qualcosa di più irraggiungibile della giovinezza? No, ma se tu pensi che sia possibile (ed è questo che induce a credere il mercato) allora inizi a spendere e paradossalmente più la insegui, più ti sfugge, la giovinezza. Ma non importa. L’importante è spendere.
        Oltre che con la vecchiaia, cambia il nostro rapporto con la medicina (e quindi con la fragilità umana): non è più un sintomo, un messaggio da parte del corpo (stai facendo troppo, corri di meno, mangia meglio, dormi di più, smetti di fumare), ma è intesa come un’interruzione, un blocco di motore, che basta rimuovere per ripartire. E abbiamo medicine sempre più potenti. E la pubblicità ci raccomanda di non leggere le avvertenze (negli spot pubblicitari questo passaggio è sempre velocissimo).
        Un discorso simile vale per la morte: essa ha subìto un incredibile esorcismo linguistico che l’ha fatta sparire anche dai manifesti funebri: in Italia, la gente scompare, viene a mancare, compie un transito, si spegne, si ricongiunge, si addormenta, va qui, va là, addirittura è rapita, convocata, chiamata in cielo… Nessuno che semplicemente muoia!
        Cambia il rapporto con la giovinezza e con i giovani “anagrafici”, con i figli: la giovinezza non è più un periodo preciso della vita, è il senso della vita. Per questo essa non indica semplicemente una stagione particolare dell’esistenza, irripetibile e specificatamente destinata ad apportare un importante contributo al rinnovamento e ringiovanimento della società. La giovinezza è il senso della vita. Essa non può finire, non deve finire. Chi la possiede, nulla gli manca. Tutti abbiamo diritto alla giovinezza. Ma in un mondo in cui tutti hanno diritto alla giovinezza, nessuno può essere più giovane degli altri! E il risultato, qual è? Che la nostra società pensa di non aver bisogno dei giovani, che può farcela anche senza di loro, che non siano necessari. Ma soprattutto questo comporta il venir meno del ruolo educativo connesso all’essere adulto.
        Nell’ oggi della storia alla fine dei conti non riusciamo più né ad educare né a trasmettere la fede: che senso avrebbe infatti educare i giovani, quando per noi il massimo della vita e la vita al massimo è la giovinezza, di cui loro sono titolari? Verso quale luogo (e-ducare significa portare fuori) dovremmo portare i giovani se per noi la giovinezza è il paradiso? L’educazione finisce quando l’adulto interpreta la propria vita non come cammino in avanti, ma come goffo tentativo di tornare indietro. E poi la fede. La fede è una questione degli occhi. Ebbene che cosa vedono i nostri giovani e i nostri ragazzi davanti a loro? Adulti che pregano? (Nemmeno il don Matteo della tv prega! Restano solo le suore a farlo, per fortuna). Adulti che leggono il Vangelo? Adulti che orientano la loro esistenza secondo Gesù? Adulti felici di essere cristiani? Vedono solo adulti disperati di non essere più giovani…adulti malati di immaturità…
         Questo è a mio avviso il punto decisivo e critico dell’oggi della storia. E c’è da sottolineare ancora che il potere forte di questo nostro tempo – il potere dei poteri: il mercato – vuole a tutti i costi mantenere una tale situazione di immaturità: vuole cioè degli eterni giovani, cui far da guida verso la “felicità”.
3. Terzo passaggio: la profezia della donna consacrata
         Alla luce del percorso che ho proposto a me pare che siano tre gli ambiti più attuali, più necessari, più consonati, più richiesti della profezia della donna consacrata oggi:
         – la benedizione del contingente
         – la grazia della preghiera
         – la mistica della comunità.
a) benedizione della contingenza
         Oggi non si crede più al paradiso e nello stesso tempo abbiamo una vita lunghissima. Per questo viviamo tutti uno strano pathos dell’infinito: si vuole tutto e il contrario di tutto, mentre la vita si disperde. Senza la misura del Paradiso, è come se avessimo perso la misura del finito, del mondo, della sua contingenza, della sua ricchezza e pure della sua limitatezza. Come dice un famoso comico, dobbiamo erigere un monumento al “limite ignoto”.
           Da questo punto di vista rilanciare il carattere benedicente della vita consacrata mi pare di grande forza: una benedizione che nasce dal discernimento tra ciò che facilita la vita – personale e comunitaria – e ciò che la ostacola, tra ciò che la rende scialba e ciò che la arricchisce, tra ciò che l’abbassa e ciò che la eleva, tra ciò che la manda in frantumi e ciò che la tiene in sé, la contiene, la rende una vita contenta; infine tra ciò che permette di vedere giorni felici e ciò che lo impedisce. Avendo fissi gli occhi sulla verità che questo mondo non è il paradiso e che tuttavia il paradiso viene dopo questo mondo. In questo sono soprattutto gli adulti ad aver bisogno di aiuto: cercano sempre altra vita, altra giovinezza, dobbiamo convincerli che in verità l’uomo è fatto anche per una vita altra, per una giovinezza altra. E che quindi invecchiare non è la cosa peggiore che ci possa capitare.
b) la grazia della preghiera
        Se non ci convinciamo che oggi la gente non solo non conosce più le preghiere (del tipo: “il Corpo di Cristo”, “Grazie”; del tipo: funerali e matrimoni celebrati senza che nessuno risponda alle parole del sacerdote; ecc.), ma più radicalmente ha perso il senso stesso della preghiera, del pregare, perdiamo un’occasione preziosa di profezia.
         La preghiera oggi come non mai ci è necessaria. “Chi prega ha le mani sul proprio portafoglio”, si libera cioè dalle sirene della pubblicità, del mercato e per questo vogliono spegnere la domenica. Che belle le parole del prefazio comune IV: “Tu non hai bisogno della nostra lode, ma per un dono del tuo amore ci chiami a renderti grazie; i nostri inni di benedizione non accrescono la tua grandezza, ma ci ottengono la grazia che ci salva, per Cristo nostro Signore”.
         Sì, la preghiera ci dona la grazia di poterci riconciliare con noi stessi, ponendoci di fronte all’istanza misericordiosa di Dio che Gesù ci ha manifestato con la sua croce gloriosa. La preghiera ci dona la grazia di sfondare la cappa soffocante delle nostre preoccupazioni e idiosincrasie, lasciandoci inondare dal soffio dello Spirito Santo. La preghiera ci dona la grazia di rimettere la nostra causa e la nostra fatica, il nostro patire e il nostro lottare alla speranza del futuro, alla promessa del paradiso abbandonandoci alle mani fedeli e giuste del Padre.
         Dobbiamo perciò preoccuparci molto di iniziare o meglio re-iniziare alla preghiera, alla preghiera personale, alla preghiera quotidiana, alla preghiera degli adulti e alla preghiera dei giovani.
         Qui mi piace ricordare un passaggio dell’Evangelii gaudium in cui Papa Francesco parlando dell’evangelizzazione delle città afferma la necessità «di immaginare spazi di preghiera e di comunione con caratteristiche innovative, più attraenti e significative per le popolazioni urbane» (75). E questo vale anche per le donne di oggi che hanno un’elevata cultura delle donne e chiedono nuovi spazi di preghiera e di comunione…
c) la mistica della comunità
         Quest’ultima forma di profezia è particolarmente urgente. Oggi ci manca la comunità, quel ponte, quello spazio “terzo” tra famiglie e corpo sociale, tra famiglie troppo calde e corpo sociale troppo freddo. Ognuno pensa che il mondo coincida con i limiti del proprio io o al massimo si estenda a quelli della sua tribù; ed accade che la società sia sempre di più in mano alla burocrazia e al mercato. Il Papa dice che ci vuole una mistica dell’incontro, della comunità. Lo cito: «Oggi, quando le reti e gli strumenti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi, sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio. In questo modo, le maggiori possibilità di comunicazione si tradurranno in maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti. Se potessimo seguire questa strada, sarebbe una cosa tanto buona, tanto risanatrice, tanto liberatrice, tanto generatrice di speranza! Uscire da se stessi per unirsi agli altri fa bene. Chiudersi in sé stessi significa assaggiare l’amaro veleno dell’immanenza, e l’umanità avrà la peggio in ogni scelta egoistica che facciamo» (Evangelii gaudium 87).
         Piccolo commento: abbiamo da una parte maggiori mezzi di comunicazione eppure la sfida resta, dall’altra, sempre quella di fare il primo passo, di uscire da sé, di superare la logica dell’individualismo, del narcisismo, della sirena pubblicitaria che vorrebbe convincerci che il mondo è tutto attorno a noi e che siamo destinati a essere solo e sempre noi stessi. Urge, dice papa Francesco, un salto, un passo non calcolato, un caparra di fiducia, un’intuizione anticipatrice, una visione da lontano, una prospettiva non meramente calcolante: un atteggiamento mistico. Ed è proprio questo che suggerisce il numero 93 che chiude la sezione dedicata al Sì alle nuove relazioni generate da Gesù Cristo!, di cui il numero precedentemente citato rappresenta l’inizio: «Lì sta la vera guarigione, dal momento che il modo di relazionarci con gli altri che realmente ci risana invece di farci ammalare, è una fraternità mistica, contemplativa, che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano, che sa sopportare le molestie del vivere insieme aggrappandosi all’amore di Dio, che sa aprire il cuore all’amore divino per cercare la felicità degli altri come la cerca il loro Padre buono. Proprio in questa epoca, e anche là dove sono un “piccolo gregge” (Lc 12,32), i discepoli del Signore sono chiamati a vivere come comunità che sia sale della terra e luce del mondo (cfr Mt 5,13-16). Sono chiamati a dare testimonianza di una appartenenza evangelizzatrice in maniera sempre nuova. Non lasciamoci rubare la comunità!».
         Il compito che qui papa Francesco assegna alla sua Chiesa è quello di una testimonianza possibile della comunità: che sia cioè visibile un luogo ove ci si sottragga alle sirene continue del mercato e allo stile freddo delle istituzioni pubbliche dissanguate non solo economicamente ma ancora di più di senso e di profilo umano; un luogo dunque di comunione, di condivisione, di partecipazione, di comunicazione, di ospitalità reciproca, nel segno dell’amore e del riconoscimento della pari dignità di ognuno e di ognuna. In questo può ancora una volta rendersi presente il Signore Gesù. Dovremmo a mio avviso scommettere di più sulla costruzione di comunità vere, vivibili e visibili, nelle quali sia possibile ospitare la diversità, far dialogare le generazioni, celebrare la vita in tutte le sue fasi e le sue età, permettere la riconciliazione e il lutto con il lato sfidante dell’esistenza umana, abilitare ciascuno al rito prezioso della benedizione come gesto elementare con il quale farsi innanzi alla vita che è sempre e comunque sorprendente.
        La vita consacrata, quella femminile in particolare, mi pare sia la punta di diamante in questa direzione: tocca a voi insegnare di nuovo alla Chiesa e al mondo che cosa vuol dire essere comunità!
        La storia della fondazione delle vostre congregazioni ci insegna che le suore hanno capito per prime le esigenze del momento e sono fermamente convinto che anche in questo oggi della storia sarà così.
Don Armando Matteo
Docente di Teologia fondamentale
Pontificia Università Urbaniana
* Relazione tenuta alle sorelle che frequentano quest’anno il Trimestre sabbatico
all’USMI nazionale.

[1] U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2007, 15.

[2] Aldo Schiavone ha scritto in modo calzante che «oggi basta avere almeno quarant’anni per percepire la sensazione di distacchi epocali da interi mondi di abitudini e di comportamenti perduti, e che si stanno completamente dimenticando» (Storia e destino, Einaudi, Torino 2007, 52).

[3] M. Aime-G. Pietropolli Charmet, La fatica di diventare grandi, Einaudi, Torino 2014, 36.

[4] Cfr. F. Cataluccio, Immaturità. La malattia del nostro tempo, Einaudi, Torino 20142; G. Cucci, La crisi dell’adulto. La sindrome di Peter Pan, Cittadella 2012; M. Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli Milano 2013. L’analisi qui presentata dipende molto dai saggi, citati oltre, di Francesco Stoppa e di Marcel Gauchet.

[5] F. Stoppa, La restituzione. Perché si è rotto il patto tra le generazioni, Feltrinelli, Milano 2011, 9-10.

Per rinnovare la gioia del dono del battesimo

Uno dei passaggi più significativi all’età adulta si manifesta con la coscienza che siamo molto più fragili di quello che pensiamo e speriamo. Tutti riconosciamo clamorosamente vera quell’affermazione di San Paolo che dice: io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio (Rm 7,19). Il nostro cuore è velato, le nostre intenzioni spesso non cristalline, non riusciamo ad amare con quell’ampiezza e profondità che la parola amore ci suggerisce e che subito, naturalmente, desideriamo.
Questo senso di inadeguatezza talvolta ci blocca e ci sfiducia, altre volte facciamo finta di niente e ci accontentiamo, anche di noi stessi. I sensi di colpa con la loro ferocia vendicativa fanno spesso da padroni nel nostro cuore, nei nostri pensieri e anche nel subconscio che poco conosciamo ma che determina diversi nostri comportamenti. Talvolta tutto ciò diventa insopportabile.
Esiste una terza via tra la dimenticanza (gli esperti parlano di rimozione) e la condanna: il perdono. Questo gesto di infinita misericordia fa i conti con la verità delle nostre storie e non imbroglia o illude nessuno, insieme però permette uno sviluppo positivo e non disperante, ci fa crescere e persino cambiare. Siamo assetati di perdono e di riconciliazione, certo non di dimenticanza né di condanna.
La Buona Notizia di Gesù morto e risorto per i nostri peccati, della sua Pasqua che ci strappa dal destino di morte altrimenti ineluttabile, ha risuonato nel giorno del nostro battesimo quando siamo stati immersi nella novità riconciliante dell’opera del Regno. Tale grazia può e chiede di essere rinnovata davanti al perdurare delle nostre rigidità e delle nostre non accoglienze della vita nuova dei Figli. È quanto accade nel sacramento della riconciliazione o confessione.
Come in ogni sacramento, anche nella confessione è Dio che opera primariamente, Lui è il protagonista principale. Davanti all’obiezione frequente “non vado a confessarmi perché non so cosa dire” o “sono sempre le stesse cose”, bisogna ricordare che le cose veramente interessanti ed efficaci le dice Lui. Ci confessiamo anzitutto per sentirci dire che siamo amati e perdonati, malgrado le nostre infedeltà che riconosciamo e di cui ci pentiamo amaramente. Ci confessiamo prima di tutto per ascoltare e solo successivamente per parlare.
Come ogni altro sacramento, tale annuncio di salvezza che ci viene ancora una volta rinnovato, accade in un contesto ecclesiale, dentro una comunità di fratelli e sorelle. Questa dimensione ineludibile ci ricorda anzitutto che il perdono è un dono e ci è offerto; ciò permette di uscire da una autoreferenzialità che non ci fa crescere e che non permette uno sguardo vero su noi stessi: ci sono alcune cose su cui sorvoliamo con troppa superficialità e altre che non ci perdoniamo mai. Inoltre celebrare la misericordia dentro la comunità, seppur in una forma giustamente riservata, ci ricorda la dimensione pubblica, sociale ed ecclesiale dei nostri comportamenti: ogni nostro agire, anche il più privato e segreto, influisce sulla vita di chi ci sta attorno e condivide con noi l’esistenza.
Ecco perché vale ancora la pena confessarsi: per lasciare che la buona notizia dell’evangelo risuoni nella nostra vita e ci schiuda a un orizzonte di eternità e di fraternità più vasto non solo di quello, piccolo, che riusciamo a realizzare, ma anche di quello che osiamo immaginare per noi e per i nostri cari. Celebrare la riconciliazione non è anzitutto un dovere da adempiere per potere fare la comunione ma una possibilità di gioia e pacificazione.
Una confessione così intesa chiede certamente qualcosa di più di una triste e insoddisfacente lista di peccati da raccontare sottovoce. Il Cardinale Martini tante volte ha proposta e insegnato a confessarsi secondo una triplice scansione: ricordare anzitutto il bene operato da Dio nella nostra vita, chiedere perdono per i nostri egoismi che si sono opposti all’opera divina in noi, affidarci a Lui perché non venga meno la sua promessa efficace di salvezza.
Tale pratica, più semplice a realizzarsi che a spiegarsi, chiede certo un impegno diverso nel momento della preparazione alla confessione ma offre a questa pratica un respiro serio, grande e bello, adeguato a niente meno che alla nostra vita.
Viene voglia di confessarsi spesso.
don Andrea Ciucci

Per gentile concessione della rivista mensile dell’Opera don Guanella: «La santa Crociata in onore di san Giuseppe» – info@piaunionedeltranstito.org