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Il Vangelo della domenica

Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!

Dal Vangelo di Giovanni   Gv 6,1-15

29_LUGLIODopo questi fatti, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.

Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.

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Ancora la folla, nel racconto del vangelo di oggi, una folla, davanti alla quale, Gesù, nuovamente, si commuove.

Nella liturgia eucaristica di questa domenica, come in quelle che seguiranno, non è più Marco ad accompagnarci, ma Giovanni, il quale, pur trattando come Marco, il tema del “pane”, il pane moltiplicato per sfamare la folla, dà, di questo tema, un’altissima interpretazione, nel lungo discorso del “pane di vita”, che il mistero del dono immenso dell’Eucaristia, “pane disceso dal cielo”, nuovo pane donato dal Padre, nel Figlio, che ci sostiene nel cammino dell’esistenza, verso la meta eterna, nostra Pasqua definitiva.

C’è, nel brano del Vangelo di oggi, un riferimento esplicito alla Pasqua, in prossimità della quale, l’episodio della moltiplicazione dei pani, è collocato: “Era vicina la Pasqua dei Giudei “; da allora in poi ci sarà una nuova Pasqua ed un nuovo pane: il corpo stesso di Cristo, divenuto cibo per la fame esistenziale del mondo intero.

Gesù, dunque, assieme ai suoi discepoli, si sposta sull’altra riva del lago di Tiberiade, e, la folla, lo segue; è la folla che abbiamo imparato a conoscere, fatta di povera gente, che ha bisogno di speranza, di sostegno, di guida; una moltitudine che ha bisogno di esser risanata, nel corpo, non erano sfuggiti alla loro attenzione, “i segni che ( il Maestro ) faceva sugli infermi..”, ma soprattutto, nello spirito, avevano bisogno di Lui, il Profeta nuovo, capace di parlare con parole nuove, autorevoli, che davano nuovo slancio alla vita e aprivano immensi orizzonti, oltre quelli immediati.

E’ una moltitudine incurante della fatica, questa che accorre da Gesù, una moltitudine, che sembra abbia perduto il senso del tempo che passa, e anche del bisogno di rifocillarsi.

Se ne accorge il Maestro, lui, che coglie, oltre il bisogno fisico, quella fame profonda che vive nel cuore di ogni uomo: la fame dei valori più alti e, oltre questi, la fame stessa di Dio, origine e fine di ogni esistenza.

E’ questa fame di Dio, presente, anche inconsapevolmente in ogni uomo, quella che principalmente, Cristo, vuol soddisfare, e che, in ultima analisi, determina il miracolo: la prodigiosa moltiplicazione di pani e pesci, che sfamano ” circa cinquemila uomini…”, senza esaurirsi, se i discepoli “riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.”

E’ bello, questo entusiasmo della gente, che segue Gesù senza pensare ad altro, senza mettere in conto la stanchezza e la necessità, ad un certo momento, di dover mangiare qualcosa, pur trovandosi in un luogo, in cui non è possibile rifornirsi.

Cristo premia abbondantemente questa fede generosa, questa ricerca del regno di Dio, che supera ogni altra cosa, la premia con un segno che, pur facendo fronte al bisogno fisico, preannuncia l’altro pane che verrà.

Il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci è, indubbiamente un fatto strepitoso, ma non assolutamente nuovo; un episodio analogo, si legge, infatti, nel secondo Libro dei Re:

“In quei giorni, da Baal Salisa venne un individuo, che offrì primizie all’uomo di Dio, venti pani di orzo e farro che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente». Ma colui che serviva disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?». Quegli replicò: «DaIlo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore, ne avanzerà anche». Le pose davanti a quelli, che mangiarono, e ne avanzò, secondo la parola del Signore. ” (2 Re 4, 42 44)

Nell’evento prodigioso, si rivela, sempre, la verità di Dio e la sua volontà che indica la via giusta che l’uomo deve percorrere.

E’ facile, in questo contesto, in cui si parla del bisogno elementare e vitale di cibo, pensare alle moltitudini che ancor oggi non hanno un nutrimento sufficiente e adeguato: i bambini che muoiono per la denutrizione; l’insegnamento del Vangelo è chiaro, o almeno dovrebbe esserlo, dopo secoli di cultura cristiana. Gesù, per sfamare la folla, si fa aiutare dai discepoli, sono loro che distribuiscono, pane e pesce ai presenti, e non a caso; siamo, infatti, noi uomini del terzo millennio, che abbiamo tra le mani la sorte di tanti altri uomini, siamo noi, che possiamo e dobbiamo distribuire la ricchezza, e trovare le soluzioni giuste, per le tante situazioni disumane, che ancora si registrano nel nostro presente.

Per la fame fisica, sono sufficienti intelligenza e volontà umane; ma per l’altra fame, quella, più profonda che è il bisogno di Dio, del suo amore e della sua salvezza, è necessario il miracolo del pane, trasformato da Cristo nel suo Corpo e nel suo Sangue.

Lui solo, infatti è capace di saziare definitivamente la fame interiore dell’uomo, Lui, che per usare le parole di Tommaso D’Aquino, ha preparato per noi un banchetto in cui, il pane che si consuma è Cristo stesso, che si consegna come pegno della vita eterna e dell’eterna comunione col Padre.

Il Pane, che, nella nuova Pasqua, il Figlio di Dio consegna agli uomini, come memoriale della sua morte e resurrezione, è l’unico pane, capace di trasformarci interiormente, e renderci veramente fratelli, mettendoci in comunione gli uni con gli altri; solo in Cristo, infatti, l’uomo può realizzare la vera comunione, una meta difficile da raggiungere, una conquista, alla quale tutti aspiriamo, con quella insaziabile fame d’amore, che solo Dio, nel Figlio e nello Spirito può colmare.

Quando Gesù, guardava quelle folle affamate, pensava a questa fame, che è saziata solo dal suo dono di grazia, che si esprime nel pane eucaristico, nutrimento e sostegno di quanti sono in cammino verso la meta eterna.

E’ l’eucaristia il pane inesauribile che, come Paolo scrive, ci rende capaci, di vivere in profonda unità e, formando, ” Un solo corpo, un solo Spirito, come una sola è la speranza alla quale siamo stati chiamati, quella della nostra vocazione…”, così come c’è:” un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti.”( Ef4,1 6)

sr M. Giuseppina Pisano o.p.

mrita.pisano@virgilio.it

Venite in disparte e riposatevi un po’…

Dal Vangelo di Marco   Mc 6,30-34

LUGL_22Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero.

Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

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Un brano breve e intenso, questo di Marco, che tocca due temi importanti: l’attività apostolica di evangelizzazione e la necessità della contemplazione.

Gli apostoli, rientrano dalla loro missione, ormai affiancano il Maestro nella predicazione, e sono palesemente soddisfatti, entusiasti, di aver portato a termine il loro compito, sono, poi, giustamente compiaciuti dei risultati ottenuti. Gesù li accoglie e li ascolta, è un bel momento di condivisione, ma poi li invita ad andare oltre, oltre il fatto immediato: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’».

L’evangelista precisa che, c’era, in quel luogo e in quel momento, un grande andirivieni di gente, che sicuramente aveva bisogno di esser ascoltata e aiutata; una situazione di stress, diremmo oggi, se il testo precisa, che non avevano neppure tempo per mangiare.

L’invito di Gesù, tuttavia, non è semplicemente quello di concedersi una giusta pausa di riposo, ma è molto di più, quel ritirarsi in disparte, in solitudine, è un invito a raccogliersi in preghiera, come lo stesso Maestro faceva prima delle grandi decisioni, un invito a stare in silenzio, in ascolto del Padre, davanti a Lui e a Lui solo.

Il momento, lo spazio silenzioso e solitario per la contemplazione, è il momento fecondo che prepara qualunque attività apostolica; l’annuncio della parola che salva, l’annuncio del Vangelo, non nasce che dalla grazia della comunione con Dio, la grazia della contemplazione, che non è prerogativa di pochi, ma è grazia per ogni credente, anzi vocazione di ciascun uomo, destinato a vedere e godere il suo Dio e Padre; ecco perché, ogni uomo o donna, ha il suo posto di contemplativo nella storia.

Ed è appunto la storia a parlarci di grandi apostoli del passato, o dei tempi recenti, come di grandi contemplativi.

Pensiamo a Caterina da Siena, la giovane donna, investita di una missione, impensabile per una donna, e per una donna di quel tempo; la sua forza morale e spirituale non veniva principalmente dalla sua intelligenza, né dalla sua cultura, veramente scarsa, ma dalla sua vita interiore di grazia e di comunicazione con lo Spirito, veniva da quella ” cella interiore ” che si era sapientemente costruita nell’anima, e nella quale, ininterrottamente, contemplava Cristo, il suo Signore Crocifisso, in nome del quale predicava, scriveva ed agiva.

Se Caterina riuscì a riportare la sede papale da Avignone a Roma, non fu certo per la sua abilità dialettica, ma per la sua forza interiore travolgente.

Anche ai giorni nostri abbiamo conosciuto giganti dello spirito, capaci di galvanizzare le folle; basti pensare ad una Teresa di Calcutta, della quale un giornalista ateo ebbe a dire: “non sono più certo che Dio non esista; se c’è, oggi l’ ho visto…”; in realtà Augusto Gorresio aveva visto madre Teresa, parlare alla folla presente in uno stadio. Dietro, o meglio, dentro questa piccola suora dimessa, c’era la grande forza della contemplazione di Cristo, povero tra i più poveri del mondo.

Infine, non possiamo dimenticare il Papa Giovanni Paolo II, la sua impressionante vita apostolica, nasceva dal raccoglimento e dalla preghiera contemplativa; che egli fosse tra le montagne tanto amate o nella sua cappella privata, ovunque, nella solitudine e nel silenzio, contemplava il Mistero grande di Dio, il cui amore predicava a tutto il mondo.

Nessuno, più del contemplativo, sa cosa sia la tenerezza del cuore, quella commozione, di cui oggi Marco parla:”.. vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore e si mise ad insegnare loro moIte cose.”

Gesù e i suoi si erano allontanati dalla folla, per raggiungere un posto solitario, ma la gente si accorse, comprese quali erano le loro intenzioni, e molti riuscirono a raggiungerli, anzi, a precederli.

Quella moltitudine aveva fame della Parola che salva.

“Le mie pecore ascoltano la mia voce, dice Il Signore, io le conosco ed esse mi seguono.”( Gv10, 27), recita l’antifona al Vangelo di questa domenica, ed è quel che accade nell’ episodio che Marco racconta.

Quella folla anonima che voleva a tutti i costi raggiungere il Maestro, che sapeva parlare ai poveri, agli oppressi e agli emarginati, aveva bisogno di un ” pastore buono”, di una guida sicura che indicasse una via di salvezza, che dicesse una parola vera, di speranza, di conforto e di luce.

Erano forse persone stanche e deluse, da pastori infidi, come quelli di cui il profeta Geremia parla: pastori che fanno perire il gregge e lo disperdono, pastori che non si curano del gregge, ma lo lasciano sbandare, perché attenti soltanto al proprio tornaconto e ai propri interessi, pastori che sfruttano e strumentalizzano le persone loro affidate; la storia ne ha conosciuto tanti, e tanti ancora ne conosce.

Dio, tuttavia, non si arrende di fronte alla malvagità dell’uomo e promette altri pastori, un altro Pastore, l’unico, dal quale, poi, tutti gli altri impareranno.

“Radunerò io stesso, il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho lasciate scacciare e le farò tornare ai loro pascoli, -scrive, ancora, il profeta Geremia- saranno feconde e si moltiplicheranno. Costituirò, sopra di esse pastori, che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi… Ecco, verranno giorni dice il Signore-, nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra.” ( Ger.23,1-6)

E’ Cristo il vero Pastore, la guida sicura, lui, che, per la redenzione di tutti, non ha esitato a dare la vita, per farci creature nuove, capaci di accogliere l’amore del Padre e di riamare.

E’ quel che Paolo scrive, e che proclamiamo nella seconda lettura di questa domenica: “Fratelli, ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani, siete diventati i vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’ inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce…Egli è venuto perciò ad annunziare pace, a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito.” (Ef 2,13°)

Quanti, oggi hanno bisogno di una guida sicura? Quanti assomigliano a quella folla, di cui Marco scrive e per la quale Cristo si commosse?

Sicuramente sono tanti, in tutto il mondo, sono persone che parlano lingue diverse, che appartengono a culture diverse e professano religioni diverse, ma hanno nel cuore lo stesso bisogno d’amore, di giustizia, di pace, di solidarietà, di fratellanza.

Sono persone in attesa di conoscere e percorrere la via sicura della salvezza, che è Cristo, il Figlio di Dio, il Redentore.

E’ lui l’oggetto della nostra predicazione e, ancor prima, della nostra contemplazione, il dono di grazia che rende l’annuncio del Vangelo, credibile e fecondo.

sr M. Giuseppina Pisano o.p.

mrita.pisano@virgilio.it

 

Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due…

Dal Vangelo di Marco   Mc 6,7-13

LUGLIO_15_1Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

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“…Gesù chiamò i Dodici ed incominciò a mandarli…”; vocazione e missione due temi che si richiamano a vicenda, sono anche quelli che caratterizzano la liturgia eucaristica di questa domenica; entrambi hanno la loro sorgente in Dio, nella sua mente e nel suo cuore, protesi alla salvezza dell’uomo, e, a quest’uomo che, col peccato si è allontanato, Dio invia la sua Parola, perché egli ritorni a Lui, perché ascolti, con cuore umile, e conosca il vero volto del suo Dio che è amore..

“Mostraci, o Dio, il volto del tuo amore”, canta il ritornello del salmo responsoriale, quasi a sintetizzare l’estremo bisogno, che ogni uomo ha di Dio, come dell’aria che respira o dell’acqua che disseta.

In tutta la Storia Sacra, la storia della Rivelazione, Patriarchi e Profeti, ci parlano della Parola che vivifica e salva, perché, in essa Dio si fa prossimo all’uomo, e questi entra in comunione con Lui.

L’annuncio della Parola di Dio, non nasce da una iniziativa umana personale, ma è dono, che viene dall’ Alto, ed è per una missione, la cui forza risiede esclusivamente nella potenza di verità che la Parola stessa contiene.

“Come la pioggia e la neve scendono dal cielo, dice il Signore al suo profeta, e non vi tornano più, senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, in modo da fornire il seme al seminatore e il pane da mangiare, così sarà la parola che esce dalla mia bocca: non ritornerà a me senza frutto, senza aver operato ciò per cui l’ ho mandata ( Is.55,10-11 )

In questo movimento della Parola, che esce dalla bocca di Dio e a Lui ritorna, dopo aver compiuto la missione, c’è tutta la storia dell’umanità, tutta la storia della salvezza, che ha trovato pieno compimento in Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio, il redentore dell’uomo e dell’ intera creazione.

Ora è Cristo ad associare a sé, nella missione, alcuni tra i suoi numerosi discepoli, i Dodici, che egli invia ad evangelizzare; essi sono dei chiamati, come gli antichi profeti, scelti, indipendente dalle loro capacità umane, nel mistero della volontà di Dio.

.”.. mi fu rivolta la parola del Signore -scrive Geremia-: «prima di formarti nel grembo materno ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce ti avevo consacrato, ti ho stabilito profeta delle nazioni…» ( Ger. 1,4 ).

La liturgia della parola di questa domenica ci fa incontrare uno dei profeti minori: è Amos, il raccoglitore di sicomori, uomo dei campi, che attendeva serenamente al suo lavoro, e al suo bestiame, finché non giunse a lui, sconvolgente, la parola del Signore che gli disse:” Va’, profetizza al mio popolo Israele…”.

Amos parlava, perché inviato da Dio, la sua missione era indirizzata ad un potere politico ingiusto e corrotto, che doveva esser ricondotto a rettitudine; fu Amasia, sacerdote del tempio di Betel a contrastarlo e a tentare di impedirlo: “Vattene, veggente, ritirati verso il paese di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Bètel non profetizzare più….”.

La risposta di Amos fu energica, chiara, terribile: “..Tu dici: non profetizzare contro Israele, e non predicare contro la casa di Isacco! Ebbene, dice il Signore: tua moglie si prostituirà nella città, i tuoi figli e le tue figlie cadranno di spada, la tua terra sarà spartita con la corda, tu morirai in terra immonda e Israele sarà deportato in esilio lontano dalla sua terra “

Forse Amos avrebbe preferito continuare nel lavoro dei campi, sappiamo di profeti che tentarono di sottrarsi alla loro missione, nella consapevolezza delle loro scarse capacità, o per timore, ma la forza che viene da Dio li sostenne.

Che gli uomini ascoltino o non ascoltino, la Parola di Dio vive ed opera, per ricondurre tutto al Padre.

Anche Gesù, inviando i suoi, non garantisce il successo, questi nuovi profeti, modesti pescatori, incolti e pieni di paura, dovranno operare, non valendosi d’altro, se non della loro povertà, non dovranno riporre la loro fiducia nei mezzi economici e neppure nella loro eloquenza, ma saranno forti solo della parola di Cristo, che invia, ” a due a due”, recita il passo del Vangelo, in conformità alle usanze del tempo, e in segno di condivisione e comunione. A loro è dato un unico potere: quello di vincere il male e ricondurre i cuori di chi ascolta a Dio.

Il Maestro no, non promette vita facile, forse saranno perseguitati, forse semplicemente rifiutati, ma saranno anche accolti, e potranno seminare il seme che porta frutto per la vita eterna.

Come Cristo, anche la presenza del profeta e dell’apostolo, si pone come discriminante tra il bene e il male, tra l’accoglienza e il rifiuto di Dio, e, in questo caso, c’è un solo gesto da fare, come segno, che l’uomo sceglie da sé la propria condanna: ” Se, in qualche luogo non vi riceveranno, e non vi ascolteranno, andandovene, scuotete la polvere di sotto i vostri piedi, a testimonianza per loro”, sono le parole del Signore.

E’ questo il dramma della grandezza dell’uomo, creato libero, per vivere eternamente libero nell’amore che vivifica e salva, e, tuttavia, può da sé rifiutarla e capovolgere il proprio destino di felicità, è la felicità, infatti, la nostra vocazione, come canta Paolo nel sublime inno di lode a Dio:

“Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti, con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti, prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati, al suo cospetto nell’amore, predestinandoci a essere suoi figli adottivi, per opera di Gesù Cristo, secondo Il beneplacito della sua volontà…. In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo, che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro, che Dio si è acquistato, a lode della sua gloria. ” (Ef 1, 3 14 )

Forti della fede nella Parola, per il battesimo che ci innesta a Cristo, tutti siamo chiamati e inviati per far risuonare nella Storia presente la Parola che salva: il Vangelo che è Cristo.

sr M.Giuseppina Pisano o.p.

mrita.pisano@virgilio.it

 

…E si meravigliava della loro incredulità…

Dal Vangelo di Marco           Mc 6,1-6

LUGLIO_8Partì di là e venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.

Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

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Sicuramente non era la prima volta, notano gli esegeti, che Gesù, durante il suo ministero pubblico, tornava a Nazareth dove, i suoi concittadini, erano così ben informati della risonanza dei suoi discorsi e dei prodigi, compiuti nelle città vicine.

Il vangelo di Marco ricorda un’altra presenza di Gesù in sinagoga, e precisamente a Cafarnao, agli esordi della sua missione,”.. egli, entrato di sabato nella sinagoga, si mise a insegnare. E si stupivano del suo insegnamento, giacché, li ammaestrava come uno, che ha autorità, e non come gli scribi.” (Mc. 1,21-22)

In quella medesima circostanza, il Maestro liberò dal possesso dal demonio un uomo che, spinto dallo spirito immondo, l’aveva riconosciuto come <il Santo di Dio>; e Marco, nota che, ” tutti si chiedevano tra di loro: <Che è mai questo?…comanda perfino agli spiriti impuri e questi gli obbediscono >…e la fama si sparse ovunque per tutta la regione della Galilea…” (Mc.1,23-28 )

Ora, qui, nella sinagoga di Nazareth, dove pure era giunta quella fama, i presenti, sono presi da uno stupore ben diverso, è il disappunto di chi non vuol concedere fiducia, anzi, è pieno di stizza, di invidia, la misera invidia di gretti compaesani.

“Ma chi crede di essere?”, sembrano dirsi tra loro i nazaretani: «…non e costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?».

Il ritratto di Gesù, fatto dai suoi concittadini, molto scettici nei suoi confronti, è il ritratto di una persona qualunque, che non ha rilevanza in alcun campo, né sociale, né religioso, né culturale, né politico, egli è un operaio come tanti, un carpentiere, figlio di una famiglia modesta, come si può arguire dalla citazione dei suoi familiari.

Ormai è lontano lo stupore, ammirato ed entusiasta delle folle, di fronte alla novità della sua dottrina, una dottrina impegnativa, ma che dilatava il cuore e la mente, una dottrina che ridava dignità e valore a qualunque persona, senza badare alla sua condizione sociale.

Non c’ è più lo stupore felice e riconoscente, di chi ha assistito ai miracoli, e incomincia a credere al potere straordinario di questo rabbi, diverso dagli altri.

Per i cittadini di Nazareth, Gesù è uno come loro, anzi, proprio per alcuni del suo parentado, era semplicemente una persona ” fuori di sé” (Mc. 3,20 ), non meritava dunque, alcun credito; avrebbe, soltanto, dovuto star zitto.

Del resto, quando Filippo, chiamato da Gesù alla sua sequela, incontrò Natanaele e, pieno di entusiasmo, gli disse di aver trovato, quello di cui Mosè aveva scritto e quello che i profeti avevano annunciato: ” Gesù figlio di Giuseppe da Nazareth”, questi rispose incredulo: ” da Nazareth può venire qualcosa di buono?” ( 1, 45-46)

Questo era Gesù, per tanti che non riuscivano, o non volevano, credere in lui, nelle sue parole e nelle sue opere.

La mancanza di fede; quella fede che lo aveva mosso a compiere i miracoli, e che tante volte, egli aveva lodato, qui, nella sua città, non esiste, ed è questa la ragione per cui egli si allontana per, portare il suo messaggio nei villaggi vicini.

Gesù, in questa circostanza, fa esperienza di quanto sia vero il vecchio proverbio: «Nessuno è profeta nella sua patria.»; ed è anche lui pieno di stupore, per l’atteggiamento dei concittadini, ma è uno stupore amaro, per l’incredulità, e il disprezzo che lo circonda.

Gesù conosceva bene la sorte dei profeti, inascoltati, soli, perseguitati e, talvolta, uccisi.

La liturgia della Parola, oggi, ci ricorda, con un breve passo, la missione del profeta Ezechiele, il sacerdote, la ” sentinella di Dio”, al quale venne rivolta questa parola: «Figlio dell’uomo, io ti mando agli Israeliti, a un popolo di ribelli che si sono rivoltati contro di me…Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito…. sono una genia di ribelli… sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».( Ez 2, 2 5 )

Cristo è il Figlio dell’uomo, è la vera e piena rivelazione del Padre, ma non fu riconosciuto, e seguì la sorte, di tanti altri profeti.

” Venne tra i suoi, ma i suoi non l’accolsero…” (Gv. 1,11), non lo riconobbero, si fermarono a quei pochi modesti dati anagrafici: era il figlio di Maria, il cugino di Giacomo, Jose, Simone, un artigiano come tanti, e niente di più.

C’è una sollecitazione importante in questo breve passo del Vangelo, in cu, i il Figlio di Dio si rivela nella semplicità e povertà del suo essere uomo come tanti, e, tuttavia, è egli stesso Dio, la cui presenza deve esser colta nelle situazioni esistenziali ordinarie, nella quotidianità della vita, nel volto di ogni uomo o donna per i quali Egli si è incarnato.

Se Cristo ha affrontato il disprezzo, la solitudine e il discredito, è perché è necessario che essi siano eliminati e gli uomini si accolgano gli uni gli altri, come fratelli, figli dello stesso Padre e redenti dallo stesso Sangue.

E’ questo il vero valore dell’uomo, la sua vera dignità, o, come Paolo scrive, il vero vanto: “…mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò, mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte.” ( 2 Cor.12,10 )

Ma c’è un passo, sempre di Paolo, che può far da splendido commento al Vangelo di questa domenica, in cui abbiamo visto un Cristo disprezzato e misconosciuto, è un passo della prima lettera ai Corinti che recita:” I Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi prediciamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini. Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole, per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato, e ciò che è nulla, per ridurre a nulla le cose che sono» (1 Cor 1, 22 25.27 28).

Abbiamo bisogno di occhi contemplativi, per cogliere il Cristo presente in ogni uomo, nel povero, nel piccolo, nell’emarginato, per sperimentarlo presente in noi, sopratutto quando ci ritroviamo deboli e siamo tentati di giudicarci inutili.

 M. Giuseppina Pisano o.p.

mrita.pisano@virgilio.it

 

Figlia, la tua fede ti ha salvata…

Dal Vangelo di Marco                       Mc 5,21-43

ALZATIEssendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.

Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.

E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».

Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.

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“Non t’importa che moriamo? ” avevano gridato i discepoli, in preda al panico, durante l’improvvisa tempesta del lago, e Gesù, prima di sedare il vento e l’acqua, aveva risposto: “…ancora non credete? “.

 Anche in questa domenica, il racconto di Marco ci fa incontrare due personaggi bisognosi d’aiuto, un uomo, sgomento di fronte all’imminente morte della sua giovane figlia, e una donna, colpita da anni da una penosa malattia, una di quelle che, nella cultura ebraica, era segno di impurità, e, perciò, causa di emarginazione. Ancora una volta dovremmo chiederci: ma perché?

In questa domenica, la risposta la troviamo all’inizio della liturgia della Parola, nel breve passo del libro della Sapienza, che così recita: “Dio non ha creato la morte, e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra, perché la giustizia è immortale.

Sì, Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece ad immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per l’invidia del diavolo…”

Il Dio che adoriamo è il Dio della vita, il Padre che non si è arreso di fronte al peccato, alla ribellione della sua creatura più bella, tanto che, per riconciliarla a Sé, ha assunto, nella persona del Figlio la stessa natura umana, e, in Lui, si è offerto alla morte, per far risorgere, nella Sua resurrezione, ogni uomo che voglia credere in Colui, che ha vinto il peccato, e la morte, e, con essa, ha vinto definitivamente il dolore.

I due miracoli, che il Vangelo di oggi ripropone alla nostra considerazione, pur essendo dei fatti strepitosi, non si fermano al semplice prodigio, ma ci rivelano, con la divinità di Gesù, la sua compassione per ogni dolore, e la necessità di fondare il rapporto con Dio sulla fede che salva.

«Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male»; con queste parole, Gesù risana la donna, riferendo la guarigione alla fede, ” la tua fede “.

Noi non sappiamo niente di quella donna, un povero essere emarginato, anonimo, utile solo per dare soldi a medici disonesti, una figura che presto si dissolverà tra la folla; una donna che, forse, aveva soltanto sentito parlare di questo Rabbi, che predicava uguaglianza, perdono, amore, e, nella sua angoscia, voleva solo avvicinarsi, per toccarne il mantello, sempre con la paura di essere individuata, lei che doveva tenersi lontana, per non contaminare gli altri.

Ed ecco, che questa donna, sembra acquistare, improvvisamente un nome: Fede, la fede che libera, e non soltanto dalla malattia e dal dolore, ma salva per la vita eterna.

“Va’ in pace e sii guarita dal tuo male ” con queste parole, il Signore le ridona pienamente vita e, quel che più conta, le dà la pace, che è dono della Pasqua: la redenzione dal male più insidioso che è il peccato.

Signore, mio Dio, a te ho gridato e mi hai guarito, Signore, mi hai fatto risalire dagli inferi,

mi hai dato vita, perché non scendessi nella tomba ( sl. 29 ).

Così canta il salmo che oggi accompagna la liturgia eucaristica, e, sembra sintetizzare, in pochi versi i due miracoli, di cui il Vangelo parla..

Infatti, mentre la gente ancora si accalcava attorno al Maestro, che aveva operato la guarigione, giunsero alcuni, della casa del capo della sinagoga, quel Giairo, che aveva supplicato per la figlia morente, i quali, portavano, appunto la notizia, che la fanciulla era morta.

“.. vieni a imporle le mani, aveva supplicato questo povero padre, perché sia guarita e viva»; e, in quelle parole, c’era tutta la forza della fede in Gesù di Nazareth.

Ora le cose sono mutate, la bimba è morta, e resta solo da fare il pianto rituale, in uso in certi paesi, allora come oggi.

La bimba è morta, ma Gesù guarda alla fede del padre:” «Non temere, gli dice, continua solo ad aver fede!», e, in queste parole, c’è la promessa del miracolo che, di lì a poco, avrebbe compiuto..

C’è un particolare importante, in questo avvicendarsi di personaggi e di voci, ed è il fatto, che il Maestro, “.. non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo…” i discepoli scelti come testimoni di grandi eventi; solo chi è animato da fede sincera, chi accoglie il Signore con semplicità e amore, viene introdotto da Lui nel Mistero del Dio della Vita.

La resurrezione della piccola, è un grande prodigio, come prodigio fu la resurrezione di Lazzaro e del figlio della vedova di Naim, ma, dietro al fatto straordinario, c’è già il discorso della Pasqua, della morte per la resurrezione, che, questi episodi sembrano anticipare.

“La bambina non è morta, ma dorme…”, aveva detto Gesù, entrando nella casa, ove le prefiche facevano già il lamento funebre, con pianto ed alte grida; si, la morte è come un sonno, dal quale ci si risveglia alla vita eterna, alla luce senza tramonto, nell’ abbraccio infinito col Padre.

L’approccio con questa realtà, che segna il confine tra l’esistenza temporale e l’Oltre, è accompagnato spesso dalla sofferenza e dall’ angoscia: è l’agonia, la lotta tra la vita e la morte; su questa realtà, Gesù vuole aprire gli occhi del fedele ad una visione serena, sarà Lui, infatti, a condurci nel passaggio alla vita eterna.

I gesti che il Signore compie presso quel letto di morte, sono, per noi, illuminanti e consolanti:

” Presa la mano della bambina, le disse: «Fanciulla, io ti dico, alzati!» “

Anche noi, e quanti credono, e crederanno in Lui, saremo presi per mano da Cristo, come si fa con un bimbo, che deve esser rassicurato; e saremo condotti al Padre, per godere in eterno lo splendore del Suo volto e la gloria del Suo amore.

sr M.Giuseppina Pisano O.P.

San-Giovanni-1Dal Vangelo di Luca   Lc1,57-66.80

Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei.

Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui. Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele.

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La liturgia di questa domenica ci fa celebrare la natività di San Giovanni Battista, il precursore del Messia, il Cugino di Gesù, il profeta che indica nel mondo la presenza del Salvatore, colui che grida forte nel deserto la conversione delle persone, colui che battezza Gesù, colui che definisce Gesù “Agnello di Dio”. E’ particolarmente gradito ricordare nel Giorno del Signore, nella Domenica, colui che è stato il più grande dai nati di donna ed è stato fedele servitore di Cristo. La celebrazione di oggi ci porta a meditare su una figura di santo eccezionale, una vera colonna della fede e della testimonianza della verità e della giustizia, il “più grande dai nati di donna”.

Della sua eccezionale nascita ci parla il Vangelo di Luca di questa domenica. Cogliamo parallelismi significativi con il testo evangelico della nascita di Cristo. E’ evidente lo stretto rapporto non solo temporale, ma soprattutto spirituale e religioso che intercorre tra il precursore e Gesù, l’atteso unico messia e salvatore dell’umanità. Nella tradizione cristiana la festa della nascita di San Giovanni Battista è stata definita il “Natale dell’estate”, con chiare allusioni al mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio che nella liturgia cattolica celebriamo al 25 dicembre, costruendo essa il “Natale dell’Inverno”. Comprensibile anche la collocazione temporale della nascita del precursore a sei mesi dalla nascita di Gesù e a tre mesi dall’Annunciazione, ovvero concepimento di Cristo per opera dello Santo nel grembo verginale di Maria. Elementi biblici, teologici e liturgici che ci confermano della grande importanza che la solennità di San Giovanni Battista ha assunto fin dai primi secoli nella Chiesa, tanto che numerose sono le testimonianze del culto attribuito e vissuto nei confronti di questo colosso della santità. Di una santità che si è costruita nell’umiltà, nella penitenza, all’ombra del Messia, quale riflesso di luce e verità che promanava dal Figlio di Dio anche per Giovanni Battista. “Lui deve crescere, io diminuire. Io non sono degno neppure di sciogliere a Lui i legacci dei suoi sandali”. E’ la coscienza di una missione che è preparazione al vero Redentore dell’umanità. Giovanni non rivendica per sé un ruolo ed una missione che non ha; non prende il posto di Gesù, né ostacola la missione di Gesù, anzi la favorisce, invitando la gente alla conversione e ad un battesimo di conversione. E Gesù ricambia la sua ammirazione, la sua stima nei confronti del precursore, del suo battezzatore, del suo amato cugino con il quale oltre il momento del battesimo sembri che curi un dialogo a distanza, basato sulla stima reciproca e sull’intento comune da realizzare: quello della diffusione del Regno di Dio tra gli uomini. Un Regno di pace, giustizia, verità, bontà, amore universale. Giovanni anche a suoi più stretti collaboratori e discepoli indica questa strada maestra per incontrare il vero Maestro che è Cristo. Alla scuola di questo colosso della santità eucaristica, perché egli ha conosciuto personalmente il Cristo, vivo e vero, in corpo, sangue, anima e divinità, in quanto egli ha professato la fede in Cristo vero Agnello di Dio, immolato per la salvezza del genere umano.

agiscono.

A san Giovanni Battista si addice in modo singolare il testo della Prima Lettura della Messa odierna tratto dal Libro dei uno dei più grandi profeti dell’Antico Testamento, Isaia, legato in modo inscindibile alla figura del Cristo, come d’altra parte fu lo stesso Giovanni Battista “4Ascoltatemi, o isole, udite attentamente, nazioni lontane; il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome. Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all’ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra. Mi ha detto: “Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria”. Io ho risposto: “Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze. Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio”. Ora disse il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele, – poiché ero stato stimato dal Signore e Dio era stato la mia forza – mi disse: “È troppo poco che tu sia mio servo, per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra”.

A San Giovanni Battista affidiamo il cammino personale ed ecclesiale della santità che come egli ci ha insegnato reca in sé le connotazioni della radicalità evangelica, la quale richiede scelte coraggiose in ogni campo e soprattutto in quello più tipicamente giovanneo quale è la penitenza, l’annuncio, la fedeltà ai principi morali ispiratori del nostro agire quotidiano. Giovanni Battista è sicuramente una grande luce che si è accesa nella storia di questa umanità, spesso richiusa in un deserto spirituale e morale senza vie di uscite. Egli è l’uomo e il santo della speranza e della fiducia in un avvenire migliore, purché questo sia incentrato sul Cristo ed orientato al vero Messia e alla buona novella del Regno.

A.R.

Il Regno di Dio è come un granello di senape…

Dal Vangelo di Marco                      Mc 4,26-34

SEMINATORE1Diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».

Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».

Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

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“Il regno di Dio è pure un po’ di lievito mescolato alla pasta… Tutta la pasta umana sarà sollevata da una grazia oscura e onnipotente. I cuori apparentemente più lontani da Cristo saranno dilatati. Bisogna sotterrare l’Amore nel mondo.”. Così scriveva il romanziere francese F. Mauriac nella sua “Vita di Cristo”, parlando appunto del regno di Dio, quel regno sul quale la liturgia eucaristica di questa domenica richiama la nostra l’attenzione, sia col passo del profeta Ezechiele, e più esplicitamente col brano del Vangelo che contiene due delle stupende parabole del regno.

Il passo del vangelo di Marco non cita quel piccolo pugno di lievito che fa fermentare la pasta, ma cita altre due realtà, all’apparenza piccole, come il chicco di grano e l’ancor più piccolo granello di senape, il più piccolo di tutti i semi che sono sulla terra… secondo le parole stesse di Cristo; due realtà che potrebbero sembrare trascurabili, tanto è irrilevante il loro peso e il loro volume, ma che contengono in sè un’energia vitale insospettabile; infatti, una volta gettati nel terreno, sia il chicco di grano che il granello di senape affiorano dal buio della terra spaccando le zolle e si affacciano alla luce; il primo per produrre la spiga, ricca di molti altri chicchi, il secondo trasformandosi rapidamente da sabbia scura in un flessuoso arbusto e poi in albero, con rami e fronde che accolgono e danno riparo agli uccelli.

Dunque il Regno di Dio non entra nella Storia con clamore, né con segni strepitosi che abbaglino la vista o incutano timore; esso scende tra gli uomini come il lievito che, nascosto nella farina, dà vita alla massa voluminosa e morbida da cui trarre il pane; oppure come il seme che nel buio della terra si trasforma spontaneamente. Il Regno di Dio, presente invisibilmente nella Storia, la feconda dall’interno, la orienta e la rende capace di aprirsi alla salvezza che viene da Dio; infatti non è per volontà umana, né per opera della sua intelligenza che l’uomo si salva; ma unicamente per dono di grazia: dono da accogliere, da amare e da far fruttificare.

Il Regno di Dio che nel racconto di Marco è paragonato ad un seme è, effettivamente, il seme della Parola, gettato dal Padre nel solco oscuro della Storia umana perché si apra alla bellezza della vita vera.

Fuor di metafora, il seme della Parola è il Figlio stesso di Dio, il Verbo coeterno col Padre, lui stesso Dio che, nella pienezza dei tempi, si è fatto uomo in Gesù di Nazareth, il Cristo redentore.

E’ Cristo che ha portato tra gli uomini il regno di Dio, Lui, Gesù di Nazareth, che si è fatto simile a quel chicco di grano di cui Giovanni dice che se cade nel terreno porta molto frutto (Gv 12,24).

E’ la vicenda umana del Signore Gesù, mirabilmente descritta da Paolo, nell’inno cristlogico che recita: Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo…. umiliò se tesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce… (Fil 2,6-8).

Il seme che dà vita, che fa fiorire sulla terra la sovranità del Dio che è Amore, è il Figlio dato per noi, Gesù, che ha vissuto tra gli uomini come uno di loro, rivelando la ricchezza infinita della misericordia del Padre e il progetto della Sua volontà che chiama ogni uomo o donna di ogni tempo e latitudine alla comunione con la stessa vita divina.

Chicco di grano o piccolissimo granello di senape, il Regno di Dio, donato dal Padre per mezzo del Figlio, è una realtà divina solo apparentemente impercettibile, ma che ci trasforma e, con la forza misteriosa della grazia, ci fa creature nuove in Cristo, nel quale siamo chiamati a vivere come tralci dell’unica vite, capaci, con lui, di operare grandi cose: di estendere sino ai confini della terra il Regno di Dio, in cui unico sovrano è l’Amore che vivifica e salva.

sr Maria Giuseppina Pisano o.p.

Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?

Dal vangelo di Marco   Mc 3,20-35

slideEntrò in una casa e di nuovo si radunò una folla, tanto che non potevano neppure mangiare. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: «È fuori di sé».

Gli scribi, che erano scesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del capo dei demòni». Ma egli li chiamò e con parabole diceva loro: «Come può Satana scacciare Satana? Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non potrà restare in piedi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non potrà restare in piedi. Anche Satana, se si ribella contro se stesso ed è diviso, non può restare in piedi, ma è finito. Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega. Soltanto allora potrà saccheggiargli la casa. In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna». Poiché dicevano: «È posseduto da uno spirito impuro».

Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: «Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano». Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre».

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Si radunò una folla Questo brano segue immediatamente la scelta dei dodici apostoli fatta da Gesù, con l’amara annotazione su Giuda il quale poi lo tradì (Mc 3,19): seguire Gesù, essere stati scelti da lui, stare con lui sembra non essere sufficiente. Marco cerca di dircelo in questi due episodi incastrati tra di loro: l’incontro mancato con la madre e i parenti nel cui interno è posizionata la diatriba con gli scribi venuti da Gerusalemme. Cosa significa essere discepoli del Cristo se anche gli apostoli scelti da lui sono a rischio di tradimento? Gesù non è capito dagli avversari, ed è logico, neppure dai parenti che lo conoscono dalla nascita; seguirlo significa assimilare il suo pensiero, liberarsi dai luoghi comuni, entrare nel suo cuore per amare come lui, orientati dalla volontà del Padre. Ci viene detto che Gesù entra in una casa dove è raggiunto da una folla, tanto che non potevano neppure mangiare. L’indicazione in una casa non è tanto per dare spessore al racconto indicandone la logistica, piuttosto per indicare uno spazio delimitato (che non è quello fisico dei muri) capace di determinare chi è dentro e chi è fuori, chi comprende l’insegnamento del Signore e chi non è capace di comprendere o che fraintende, come gli scribi che pur sono nella casa o i familiari che rimangono fuori di essa.

«È fuori di sé». L’atteggiamento di Gesù preoccupa i familiari; è talmente distante dalle consuetudini, talmente in contrasto con l’autorità religiosa (gli scribi scesi da Gerusalemme) che decidono di andare a prenderlo [il testo greco usa la parola catturarlo (kratesai) usata per la cattura del Battista (Mc 6,17) e poi di Gesù (Mc 14,44)]. Il loro giudizio è chiaro: «È fuori di sé». È singolare che il Vangelo annunciato e custodito dalla prima comunità cristiana abbia voluto trasmettere questo episodio; sappiamo quale sia la considerazione in cui era tenuta Maria e come i fratelli del Signore abbiano avuto un ruolo rilevante nella comunità di Gerusalemme (At 1,14). Eppure, Maria e i familiari rimangono fuori di quella casa il cui era Gesù, questo fa riflettere sul senso e l’importanza del testo. Non meno tremendo è il giudizio degli scribi: Costui è posseduto da Beelzebùl. Hanno visto la potenza di Gesù, ma la loro precomprensione è più forte, il loro modo di considerare Dio e di comprendere la religione li porta a ragionare in modo sofisticato e affermare il contrario di ciò che era evidente ai loro occhi. Gesù è il più forte (Mc 1,7), annunciato dal Battista; che libera la casa dell’uomo dal Satana.

Non sarà perdonato in eterno La parabola dell’uomo forte si conclude con un giudizio tremendo. È una parola dura perché non ci piace sentir parlare di giudizio eterno; perché l’immagine di Dio che ci siamo fatta è tutta concentrata sulla bontà, la pazienza e il perdono di Dio; perché l’idea di peccato è cancellata dal nostro orizzonte e non ci rendiamo conto di quanto siamo schiavi del male. La corruzione spirituale è peggiore della caduta di un peccatore, perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché «anche Satana si maschera da angelo della luce» (2 Cor 11,14). (Papa Francesco «Gaudete et exsultate» n.165). Che cosa, poi, sia il peccato contro lo Spirito Santo è tutto da capire: non riconoscere l’azione e la presenza di Dio, attraverso il suo Spirito, in Gesù Cristo, rifiutare di riconoscere il suo amore nella morte e resurrezione. Questa parola non riguarda i non credenti, quanto coloro che avrebbero tutti gli strumenti per vedere e riconoscere l’azione dello Spirito e la rifiutano, perché questa altera i loro principi religiosi, le loro tradizioni o peggio i loro interessi. Sono condannati alla perdita di senso, alla vacuità delle fede, alla materialità della vita, essi si pongono fuori, lontani dalla pienezza della vita eterna che in Cristo Gesù ci è donata.

Ecco mia madre e i miei fratelli! Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui; Gesù si guarda attorno per non perdere di vista nessuno, a tutti questi annuncia chi fa parte della sua famiglia, non rifiuta i legami di sangue, ma li trasfigura: sono coloro che, come lui, compiono la volontà di Dio. L’espressione rasenta l’assurdo; non solo dichiara costui per me è fratello, sorella ma arriva chiamarlo madre, lui stesso afferma di diventare «figlio» di tante madri e fratello di tanti fratelli e sorelle. Questa è la Chiesa in cui la relazione col Signore dà senso e significato alle relazioni con tutti gli uomini e le donne.

Don Luciano Cantini

Prese il pane…prese un calice e rese grazie

Dal vangelo di Marco   Mc 14,12-16.22-26

calice-e-pane1Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.

E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».

Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

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C’era un tempo in cui la festività del Corpus Domini, che la Chiesa ovunque celebra oggi, come per sottolineare la grandezza di questo “dono di vita”, era sentita in modo particolare. Non si limitava soltanto alla Messa solenne, che voleva proclamare la immensità del dono fattoci da Gesù nella Eucarestia, ma le vie dei nostri paesi o delle nostre città si addobbavano in modo eccezionale, festoso, fino a comporre sulle strade, dove doveva passare la processione, “le fioraie”, ossia disegni veramente artistici composti con petali di fiori di varia natura. Il Santissimo Sacramento non doveva assolutamente passare inosservato, ma doveva conoscere una accoglienza quale nessun uomo merita, perché nessuno merita un grazie così pieno come Gesù: Solo Lui, il nostro “buon pastore”, “vero amico dell’anima”, di cui non possiamo fare a meno.

Forse oggi tutto questo è scemato ad una cerimonia frettolosa, per non disturbare troppo gli uomini, che “hanno altro da fare” e non capiscono più il dono di Dio. Forse noi uomini riserviamo onori, drappi, fioraie e quanto volete a uomini che sono ben piccola cosa, quando sono solo trionfo di egoismo e di potenza, che hanno preso il posto di Dio.

Sembrerebbe incredibile, ma è segno della nostra povertà di fede, il non riuscire a capire Dio quando si fa talmente vicino a ciascuno di noi, da offrire non solo la Sua potente guida, ma si fa nostro pane. Pane di vita: ossia un amore che non si ferma alla periferia della nostra vita, come tante volte avviene tra di noi, ma va così oltre che è come un vedere spalancarsi il cielo: un cielo che la nostra miopia non riesce a sopportare. Noi siamo troppo abituati a stare alla periferia del fratello, anche quando siamo amici: l’amore di Gesù entra nel profondo come a farsi uno di noi, con noi.

Quando Gesù annunciò il grande dono del suo amore, un amore totale che non si limita a fare dono della vita sulla croce, ma va oltre, “si fa mangiare”, non viene capito: non solo, ma viene abbandonato da chi lo seguiva, come le sue parole fossero frutto di un folle, che oramai non sa più cosa dice e che ha perso, proprio nel momento di annunciare la profondità dell’amore, la ragione! “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo, dice Gesù. Se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Allora i giudei si misero a discutere tra di loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”.

E Gesù: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita…” Ma molti dei suoi discepoli, racconta sempre Giovanni, dopo aver ascoltato, dissero: “Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?”…Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai dodici “Forse anche voi volete andarvene?” Gli rispose Simon Pietro: “Signore da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna: noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv. 6,61-70).

Possiamo facilmente immaginare l’amarezza che era in quel momento nel cuore di Gesù. Aveva fatto una solenne offerta di sé agli uomini, come solo un innamorato sa fare. Conoscendo la nostra povertà, il grande bisogno di un amore che fosse davvero sostegno della vita, si offre di farsi pane, di farsi stritolare per amare. Ma non è stato capito. Fino a quando Gesù si limitava a dire Parole di vita, lo seguivano come un profeta, che forse aiutava a trovare la verità di cui tutti abbiamo bisogno. “Uno che parlava con autorità” lo definivano. Ma quando va oltre, come è nella natura di chi ama totalmente, ossia non si ferma al piccolo segno dell’amore, come è il miracolo, ma ti dice: “Io amo tanto, ma così tanto che mi faccio mangiare da te, perché io sia il sangue, il cuore della tua vita” allora l’uomo fa fatica a cogliere il profondo significato dell’amore.

E’ il grande dramma che avviene anche nelle nostre amicizie o nel nostro amare. Vorremmo arrivare a vivere dell’altro, farsi dono, al punto da essere la forza, la ragione della felicità di chi si ama, ma non riusciamo, troppe volte, né a capire questo linguaggio, né a vivere “facendoci dono totale”, ma rimpiccioliamo l”immensità del “ti amo” a poche briciole, che sono le tante parole che ci diciamo, i tanti gesti che offriamo che, troppe volte, sono egoismo inespresso, e non sappiamo in fondo “amare”, ossia essere vita di chi si ama. Eppure lo si desidera tanto, ogni volta che davvero amiamo. Comprendiamo l’amarezza di Gesù nel vedere tanti che pure si dicono cristiani, ma abbandonano la festa della Eucarestia, almeno la domenica: festa di trovarsi tra di noi: festa di sedersi alla mensa eucaristica, come nel Cenacolo; festa di sentire il dono di Gesù che si fa “amore come pane spezzato”, per cogliere con Lui la gioia di vivere, gustando la serenità di essere da Lui amati e quindi dare amore.

Deve essere tanta l’amarezza di Gesù amore, nel vedere che troppi preferiscono uno sport per la salute del corpo trascurando totalmente la salute dell’anima, che è la più vitale. Guardando le nostre Chiese, la domenica, sempre più deserte come se la Messa non interessasse più, comprendiamo la tristezza di Gesù, la tristezza di non capire “quel ti amo tanto da farmi mangiare”.

Eppure, se ci interroghiamo profondamente, è di Lui che abbiamo fame e sete: il resto è un cercare cibi che non nutrono. Ed è la profonda tristezza degli uomini. E noi lo abbiamo capito?

Penso a tanti fratelli che costruiscono la propria vita ogni giorno sulla Eucarestia, di cui non possono fare a meno: un nutrirsi di quel pane divino che poi fa della vita quotidiana “pane spezzato” per i poveri che hanno fame di amore. Come hanno fatto tutti i santi, ieri e oggi.

Quando chiesi a mia mamma la ragione della sua messa quotidiana (e aveva una famiglia numerosa e povera da governare) mi rispose: “Senza Gesù non riuscirei a amarvi tutti e sempre, anche nelle grandi difficoltà. Lui è tutto”. Ed esigeva che ogni giorno anche noi ragazzi facessimo la Comunione, perché amava dirci, davanti alle nostre lamentele: “Meglio una buona comunione che una povera colazione”. Ma chi ha colto la gioia della vita? Questi santi, che attingevano la forza dalla Eucarestia, o noi?

Mons. Antonio Riboldi

Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo…

Dal vangelo di Matteo   Mt 28,16-20

TRINITA1Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

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«Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo»; è la consolante rassicurazione del Cristo risorto ai suoi, convocati presso quel monte dal quale sarebbe asceso al Padre, scomparendo alla vista degli uomini.

Concluso il tempo liturgico che celebra il mistero della Pasqua, ecco aprirsi il cosiddetto Tempo Ordinario, il tempo del nostro quotidiano cammino sui passi del Cristo, del quale abbiamo contemplato l’incarnazione, la passione, la morte e la resurrezione; ora, domenica dopo domenica, approfondiremo la sua parola di Maestro, che è Via, Verità e Vita.

Non un tempo qualunque, dunque, il Tempo Ordinario, né un tempo liturgico meno importante degli altri; ma un Tempo che è un po’ la nostra risposta al dono che il Padre ci ha fatto nel Figlio e nello Spirito; e, in questo tempo ci accompagna la certezza che ogni giorno il Signore è con noi, ed è con noi, in Lui, anche il Padre e lo Spirito.

Ed ecco la solennità della Santissima Trinità, che la Chiesa offre alla nostra contemplazione, proprio all’inizio di questo ciclo liturgico, che si ripresenta, ma che non è mai ripetitivo, se noi siamo, realmente, in cammino sui passi del Cristo, e desideriamo entrare sempre più profondamente, per quanto è consentito all’uomo, nel Mistero grande di Dio.

Il Mistero della Trinità: un’altezza vertiginosa verso la quale il nostro sguardo di creature non può spingersi; ma dalla quale Dio si è fatto incontro alla sua creatura, la più bella e la più amata; cos’è, infatti, l’uomo di fronte al Mistero di Dio?

Di fronte all’Essere misterioso e sovrano, l’uomo non può che tacere; ma non in un silenzio che sgomenta, infatti, dall’insondabile infinito di Dio, giunge a noi la luce della Parola, giunge, consolante, la Rivelazione che si dispiega in tutta la storia della salvezza, quella Storia che è Sacra per eccellenza, perché vede Dio, creatore e Padre, piegarsi sulla storia degli uomini, e, tra essi, scegliersi un luogo e un popolo cui manifestarsi, perché da lì si diffonda a tutti gli uomini della terra la conoscenza di Lui, così che a Lui, ogni uomo si volga con fede ed amore.

L’Altissimo, l’Onnipotente, Colui che assolutamente Altro, si fa’, dunque, vicino all’uomo, la creatura che è Sua immagine, e che è specchio della Sua gloria; e la prima lettura di questa domenica ce lo ricorda col passo tratto dal Deuteronomio, che così recita: “Mosè parlò al popolo dicendo: «Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te, dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra, e da un’estremità dei cieli all’altra; vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che, cioè, un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo? 0 ha mai tentato un Dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore vostro Dio in Egitto, sotto i vostri occhi? Sappi dunque oggi e conserva bene nel tuo cuore che il Signore è Dio, lassù nei cieli e quaggiù sulla terra; e non ve n’è altro…».

Una verità consolante, da tener viva, come Mosè esortava, già in quel lontano tempo, nel cuore: Dio è tra noi, qui sulla terra, nella nostra faticosa Storia, inquinata dal male; Lui non ci abbandona, ma, come un padre, consumato dall’amore, attende che ogni uomo, anche il più lontano, ritorni a Lui; anzi, fa di più, ci viene incontro, nella Persona del Figlio, il Verbo, che si incarna nell’uomo Gesù di Nazareth e dà pienezza al tempo, dà salvezza alla Storia, nella quale si immerge, per vincere alla radice il male.

È la Storia della nostra redenzione, nella quale si rivela il Mistero grande del Cristo, il Dio tanto vicino all’uomo, da farsi egli stesso uomo.

Il Dio vicino è il Dio con noi, l’Emmanuele, Figlio di Dio e Figlio dell’Uomo, che abbiamo contemplato nei tempi forti dell’anno liturgico; è Gesù di Nazareth, il Cristo, che ci ha rivelato il vero volto del Padre, la ricchezza del Suo amore misericordioso, e ci ha insegnato a rivolgerci a Lui con quelle parole di insuperabile bellezza e intensa commozione, che ci fanno ripetere: «Padre nostro…».

Il Dio vicino è il Cristo, che ritornando al Padre, ci ha fatto dono dello Spirito, come abbiamo celebrato la scorsa domenica.

Ora, è quello stesso Cristo, il Redentore pienamente glorificato, che oggi ci ripete: «Andate, dunque, e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, e del Figlio e dello Spirito Santo…»; Lui che ci ha messo a parte dei segreti del Padre; Lui che ci tiene uniti a sé, come tralci alla vite, e, col suo amore si fa nostra dimora, Lui, con la potenza della sua divinità, ci invia nel mondo a battezzare e a insegnare, perché ogni uomo possa vivere immerso in Dio, possa sperimentare la gioia immensa della vicinanza del Padre, che ci avvolge col suo amore, e possa aver coscienza, nello Spirito, della sua vera dignità, che è la libertà dei figli di Dio, affrancati dalla schiavitù del peccato e dalle inconsistenti paure.

Il Mistero grande della Trinità, pur nella sua insondabilità, dunque, ci avvolge e ci penetra; è vero, noi, pur con tutta la più alta sapienza, non potremo mai comprenderlo, tuttavia, per dono di grazia, la grazia, appunto del battesimo, possiamo farne esperienza, un’esperienza di fede, che procede tra chiarezze e oscurità, ma, non per questo è meno valida e vera.

C’è un’immagine di santa Caterina da Siena, un’immagine semplice e chiara, che solo una donna come lei poteva inventare: è l’immagine del pesce che vive e si muove nell’acqua del mare sconfinato; il pesce vive nell’acqua e dell’acqua, e questa entra in lui; ma questa piccola creatura non sa quanto grande, potente e benefico sia l’elemento in cui egli vive; tuttavia, nel mare il pesce vive, gioca, cresce e si moltiplica.

Allo stesso modo è dell’uomo di fronte al Mistero di Dio Trinità, egli è troppo piccolo per comprenderlo, tuttavia, per grazia, la vita di Dio scorre in lui, per grazia Dio si piega fino a lui e gli parla, con la tenerezza del Padre, con la confidenza dell’Amico, con la forza dell’Amore; la realtà del Dio che è Uno ed è Tre, pur restando misteriosa, avvolge, tuttavia, l’uomo, che in essa vive e di essa vive, perché immagine del Padre, perché innestato a Cristo salvatore, perché animato, vivificato e illuminato dallo Spirito, dono del Risorto.

«Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo», ci assicura Cristo Gesù, mentre ci invia ad illuminare chi ancora percorre vie che non conducono alla salvezza; chi, ancora, tenta di sfuggire all’abbraccio del Padre, ignorando che lontano da Lui non è possibile trovare felicità; Cristo ci manda incontro agli uomini, perché anche i più restii e lontani aprano il cuore a Dio ed entrino in quel circuito di amore e di pace che è la Trinità beata.

sr Maria Giuseppina Pisano o.p.