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Il Vangelo della domenica

Lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità…

Dal Vangelo di Giovanni                   Gv 15,26-27 16,12-15

PENTEC1«Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio».

«Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

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Il vangelo di Giovanni nei discorsi della cena di addio di Gesù con i suoi (in particolare nei capitoli 14-16), offre numerose indicazioni sul dono dello Spirito Santo e sull’opera che egli compie; per uno sguardo di insieme dei passi vedere lo schema riportato nella traccia di meditazione. Per la domenica di Pentecoste del ciclo B ci vengono proposti il terzo e il quinto dei piccoli testi relativi a questa catechesi sullo Spirito, che riprendono il tema della testimonianza e della verità. Il testo evangelico poi va letto in parallelo con le altre letture proposte: quella dal libro degli Atti degli Apostoli (2,1-11) e l’epistola di san Paolo (Gal 5,16-25); anche il contesto liturgico, la festa della Pentecoste ebraica e il riferimento al dono della legge sono importanti per comprendere l’indicazione dello Spirito come Legge nuova del cristiano. (Gesù disse ai suoi discepoli): «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; Il termine parāklētos, che l’evangelista ha preso dal suo ambiente culturale, è in Giovanni un nome tipico dello Spirito Santo (cfr. 14,26) anche se il suo significato proprio non è certo. Anche il titolo Spirito di verità è una dizione propria del quarto vangelo e con il precedente è apertamente scelto per sottolineare l’attività specifica dello Spirito Santo nel mondo e presso i credenti. In questo versetto si annuncia l’invio dello Spirito, ma a differenza di 14,16.26, è Gesù stesso a mandarlo, seppur dal Padre, che indica ad un tempo la provenienza dello Spirito e il luogo da dove Gesù lo invia. Il verbo testimoniare (martyrein), molto frequente in Giovanni, nel v. 26 fa la prima comparsa nei discorsi di addio. Sebbene anche nei sinottici appaia l’opera dello Spirito nei testi che annunciano la persecuzione dei credenti (ricordiamo che Gv 15, 18-25 ha appena parlato dell’odio del mondo per chi crede in Cristo; cfr. Mt 10,20s; Lc 12,12; At 6,10) qui non sembra si tratti della stessa cosa. Infatti Giovanni non parla di processi o azioni specifiche. La testimonianza dello Spirito è rivolta direttamente al mondo, in favore di Gesù, come pure ai credenti, per sostenere il loro annuncio. e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio. Questa testimonianza è insieme dello Spirito e dei discepoli, come precedentemente Giovanni aveva affermato che il Padre rende testimonianza a Gesù (cfr. 5,32.37; 8,18-18). I discepoli sono con Gesù dal principio, inteso come condizione stabile di chi crede, di chi è stato scelto, quindi ogni cristiano. E’ perché il credente è con Gesù che può, fortificato dallo Spirito, testimoniare la verità. Ma la testimonianza dei discepoli e dello Spirito non sono indipendenti, i primi danno voce allo Spirito. Come diceva sant’Agostino: “Lo Spirito parla al cuore, voi in parole; egli attraverso l’ispirazione, voi mediante dei suoni”. Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. La pericope cuce insieme ai due versetti precedenti del cap. 15 l’ultimo testo sullo Spirito, nel cap. 16; si stabilisce in primo luogo che ci sono due tempi. Quello di Gesù e quello dello Spirito. Ora i discepoli non possono ancora (poiché Gesù non ha ancora vissuto la sua pasqua, cfr. 16,7) comprendere le molte altre cose che Gesù deve dire loro. Il tutto della rivelazione, annunciato in 15,15, non può ancora essere compreso appieno, in profondità; questa sarà l’opera dello Spirito. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, Sarà lo Spirito a guidarci (cfr. Es 15,13; Is 49,10; Sal 24,5; Sap 18,3 per il tema di Dio che guida il suo popolo) alla verità tutta intera. Cosa significa? Non solo che lo Spirito ci farà comprendere il passato di Gesù, ma anche la sua condizione presente, di Figlio glorificato, ossia la pienezza del mistero di Gesù Cristo (la verità, al singolare). perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. L’azione di Gesù e dello Spirito indicata come disgiunta, ora viene riunificata; come Gesù non parlava da se, ma la sua autorità veniva dal Padre come Gesù stesso ascolta il Padre (8,26; cfr. 5,19; 8,28), così lo Spirito ascolta Gesù. Il verbo annunciare (anaggéllein) che è ripetuto per tre volte in questi ultimi tre versetti, significa rivelare una cosa sconosciuta, ma il prefisso ana indica che si tratta di un ripetere. Chi parla annuncia qualcosa che ha a sua volta ricevuto. Di nuovo dunque lo Spirito non parla da sé, ma ripete ciò che ha detto Gesù. Le cose future, annunciate dallo Spirito non sono predizioni, piuttosto la capacità di comprendere ed affrontare che avvenimenti futuri della storia della comunità dei credenti. Potremmo meglio tradurre vi comunicherà, che si adatta meglio anche ai due versetti successivi, dove il verbo è riproposto. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Lo Spirito infatti comunicherà ai credenti ciò che è di Gesù, il suo patrimonio potremmo dire: ossia una conoscenza di Lui, ma anche la partecipazione alla sua stessa vita. Facendo questo glorificherà il Figlio la cui missione aveva come scopo la partecipazione dei credenti alla vita eterna del padre e del Figlio (cfr. 3,16; 10,28); l’idea sarà chiarita al capitolo seguente: “Ho dato loro la gloria che tu mi hai dato…, l’amore con cui mi hai amato, sia in loro, ed io in loro (cfr. 17,22.26). Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà». La precisazione dell’unione tra Padre e Figlio ci riporta nell’unità di essenza e di azione della Trinità (cfr. 5,26; 17,5.10.24); la rivelazione del Padre attraverso Gesù continua, essa è unica ma trasmessa in due modi diversi. Prima dal Figlio e poi dallo Spirito e dalla Chiesa che lo accoglie. In che cosa lo Spirito è diverso da Gesù? E’ “altro” nella durata, che è definitiva, e nel suo modo di agire: non più attraverso parole, ma attraverso evidenze che danno senso alle parole di Gesù e ne manifestano la portata attuale (X. Lèon-Dufour).

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perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

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Il vangelo di Giovanni nei discorsi della cena di addio di Gesù con i suoi (in particolare nei capitoli 14-16), offre numerose indicazioni sul dono dello Spirito Santo e sull’opera che egli compie; per uno sguardo di insieme dei passi vedere lo schema riportato nella traccia di meditazione. Per la domenica di Pentecoste del ciclo B ci vengono proposti il terzo e il quinto dei piccoli testi relativi a questa catechesi sullo Spirito, che riprendono il tema della testimonianza e della verità. Il testo evangelico poi va letto in parallelo con le altre letture proposte: quella dal libro degli Atti degli Apostoli (2,1-11) e l’epistola di san Paolo (Gal 5,16-25); anche il contesto liturgico, la festa della Pentecoste ebraica e il riferimento al dono della legge sono importanti per comprendere l’indicazione dello Spirito come Legge nuova del cristiano. (Gesù disse ai suoi discepoli): «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; Il termine parāklētos, che l’evangelista ha preso dal suo ambiente culturale, è in Giovanni un nome tipico dello Spirito Santo (cfr. 14,26) anche se il suo significato proprio non è certo. Anche il titolo Spirito di verità è una dizione propria del quarto vangelo e con il precedente è apertamente scelto per sottolineare l’attività specifica dello Spirito Santo nel mondo e presso i credenti. In questo versetto si annuncia l’invio dello Spirito, ma a differenza di 14,16.26, è Gesù stesso a mandarlo, seppur dal Padre, che indica ad un tempo la provenienza dello Spirito e il luogo da dove Gesù lo invia. Il verbo testimoniare (martyrein), molto frequente in Giovanni, nel v. 26 fa la prima comparsa nei discorsi di addio. Sebbene anche nei sinottici appaia l’opera dello Spirito nei testi che annunciano la persecuzione dei credenti (ricordiamo che Gv 15, 18-25 ha appena parlato dell’odio del mondo per chi crede in Cristo; cfr. Mt 10,20s; Lc 12,12; At 6,10) qui non sembra si tratti della stessa cosa. Infatti Giovanni non parla di processi o azioni specifiche. La testimonianza dello Spirito è rivolta direttamente al mondo, in favore di Gesù, come pure ai credenti, per sostenere il loro annuncio. e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio. Questa testimonianza è insieme dello Spirito e dei discepoli, come precedentemente Giovanni aveva affermato che il Padre rende testimonianza a Gesù (cfr. 5,32.37; 8,18-18). I discepoli sono con Gesù dal principio, inteso come condizione stabile di chi crede, di chi è stato scelto, quindi ogni cristiano. E’ perché il credente è con Gesù che può, fortificato dallo Spirito, testimoniare la verità. Ma la testimonianza dei discepoli e dello Spirito non sono indipendenti, i primi danno voce allo Spirito. Come diceva sant’Agostino: “Lo Spirito parla al cuore, voi in parole; egli attraverso l’ispirazione, voi mediante dei suoni”. Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. La pericope cuce insieme ai due versetti precedenti del cap. 15 l’ultimo testo sullo Spirito, nel cap. 16; si stabilisce in primo luogo che ci sono due tempi. Quello di Gesù e quello dello Spirito. Ora i discepoli non possono ancora (poiché Gesù non ha ancora vissuto la sua pasqua, cfr. 16,7) comprendere le molte altre cose che Gesù deve dire loro. Il tutto della rivelazione, annunciato in 15,15, non può ancora essere compreso appieno, in profondità; questa sarà l’opera dello Spirito. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, Sarà lo Spirito a guidarci (cfr. Es 15,13; Is 49,10; Sal 24,5; Sap 18,3 per il tema di Dio che guida il suo popolo) alla verità tutta intera. Cosa significa? Non solo che lo Spirito ci farà comprendere il passato di Gesù, ma anche la sua condizione presente, di Figlio glorificato, ossia la pienezza del mistero di Gesù Cristo (la verità, al singolare). perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. L’azione di Gesù e dello Spirito indicata come disgiunta, ora viene riunificata; come Gesù non parlava da se, ma la sua autorità veniva dal Padre come Gesù stesso ascolta il Padre (8,26; cfr. 5,19; 8,28), così lo Spirito ascolta Gesù. Il verbo annunciare (anaggéllein) che è ripetuto per tre volte in questi ultimi tre versetti, significa rivelare una cosa sconosciuta, ma il prefisso ana indica che si tratta di un ripetere. Chi parla annuncia qualcosa che ha a sua volta ricevuto. Di nuovo dunque lo Spirito non parla da sé, ma ripete ciò che ha detto Gesù. Le cose future, annunciate dallo Spirito non sono predizioni, piuttosto la capacità di comprendere ed affrontare che avvenimenti futuri della storia della comunità dei credenti. Potremmo meglio tradurre vi comunicherà, che si adatta meglio anche ai due versetti successivi, dove il verbo è riproposto. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Lo Spirito infatti comunicherà ai credenti ciò che è di Gesù, il suo patrimonio potremmo dire: ossia una conoscenza di Lui, ma anche la partecipazione alla sua stessa vita. Facendo questo glorificherà il Figlio la cui missione aveva come scopo la partecipazione dei credenti alla vita eterna del padre e del Figlio (cfr. 3,16; 10,28); l’idea sarà chiarita al capitolo seguente: “Ho dato loro la gloria che tu mi hai dato…, l’amore con cui mi hai amato, sia in loro, ed io in loro (cfr. 17,22.26). Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà». La precisazione dell’unione tra Padre e Figlio ci riporta nell’unità di essenza e di azione della Trinità (cfr. 5,26; 17,5.10.24); la rivelazione del Padre attraverso Gesù continua, essa è unica ma trasmessa in due modi diversi. Prima dal Figlio e poi dallo Spirito e dalla Chiesa che lo accoglie. In che cosa lo Spirito è diverso da Gesù? E’ “altro” nella durata, che è definitiva, e nel suo modo di agire: non più attraverso parole, ma attraverso evidenze che danno senso alle parole di Gesù e ne manifestano la portata attuale (X. Lèon-Dufour).

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Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio…

Dal vangelo di Marco                                            Mc 16,15-20

ASCENSIONE1E disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno». Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.

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“Il Signore Gesù, dopo, aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio.”; con poche parole l’evangelista Marco, che quest’anno ci accompagna di domenica in domenica, dà notizia dell’ascensione del Signore al cielo; nessuna descrizione dell’evento, come, invece, leggiamo, nel racconto di Luca e nel libro degli Atti, che oggi la Chiesa propone come prima lettura. Marco, secondo il suo stile sobrio ed essenziale, racchiude l’evento in due sole espressioni: “fu assunto in cielo”, e “sedette alla destra del Padre”, due azioni in cui è concentrato, simbolicamente, il significato profondo della Pasqua: il Cristo per la potenza divina che è in lui, ha vinto la morte ed è entrato nell’eternità, dalla quale era venuto, inviato dal Padre, per la redenzione dell’uomo; ora, la missione del Figlio di Dio è compiuta, ed è compiuto anche il tempo della sua presenza visibile tra gli uomini, ed egli ritorna al Padre.

Nel lungo discorso di addio, durante l’ultima cena coi suoi, Gesù aveva detto loro: “Figlioletti miei, ancora un poco sarò con voi. Mi cercherete, ma dove io vado, voi non potete venire” (Gv.13,33); il Cristo storico, l’uomo Gesù, come ogni altro uomo, doveva lasciare la scena di questo mondo, per ritornare là, da dove era venuto; là nella pienezza di Dio, dove lo sguardo dell’uomo non può spingersi; nell’eterno infinito, l’assolutamente Altro, che è solo gloria, quella gloria che il Figlio aveva, prima che il mondo fosse creato, e in questa gloria, divina ed ineffabile, egli ora sta, con quell’umanità assunta nel tempo dalla Vergine Maria, e che è, anche, la nostra umanità.

È’ una verità importante per noi, una verità consolante, che rischiara la nostra esistenza di uomini, pellegrini nel tempo, che in Cristo, uomo e Dio, già, abbiamo raggiunto la gloria eterna; scrive Sant’Agostino: “… Egli è disceso dal cielo per la sua misericordia, e non vi è salito, se non lui, mentre noi, unicamente per grazia, siamo saliti con lui… perché l’unità del corpo non sia separata dal capo” ( dal Discorso sull’Ascensione).

Il nostro destino, dunque, è già compiuto in Cristo, anche se, ancora, noi viviamo nel tempo, ma non separati da lui, sempre invisibilmente presente tra noi, conforme alla promessa fatta, di restare con noi, ogni giorno, sino alla fine del mondo (Mt. 28,30).

In questo tempo di Pasqua, abbiamo parlato della vite, quella mistica, feconda vite, che è Cristo stesso, al quale noi restiamo legati come tralci; abbiamo parlato di una dimora, in cui stabilirci, e l’abbiamo individuata nell’amore che Dio ci offre; sappiamo, dunque, di non esser soli, ma intimamente legati al Signore Gesù, il Salvatore risorto, nostro capo, nel quale il Padre, da sempre, ci ha scelti, e ci ha scelti, come abbiamo letto la scorsa domenica, perché andiamo per le strade del mondo, a portare un frutto duraturo quale è l’annuncio della salvezza, e le opere dell’amore; ed è quel che il passo del Vangelo di oggi ci ricorda con le parole del Signore: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura».

Si chiude, ormai, il tempo della presenza visibile del Cristo, e si apre quello della sua nuova presenza, attraverso l’opera e l’azione della Chiesa, di cui Egli è il capo: un capo glorioso, mentre le membra, ancora vivono nel tempo, nella Storia, dove lo manifestano vivo ed operante; e queste membra siamo noi, che compiamo le stesse opere del nostro Signore e Maestro: Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio; noi, oggi siamo i suoi testimoni e gli annunciatori del Vangelo che salva, che libera, che illumina e che risana.

“Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura”; è l’impegno dell’amore operoso, della carità fattiva, attenta a tutti, senza alcuna discriminazione; è l’impegno della Chiesa santa, della quale siamo membra vive, quella Chiesa che è madre si piega sugli ultimi, che cura ogni piaga del corpo e dello spirito, che soccorre ogni bisogno, che ascolta, che conforta, che corregge, e che indica la via sicura, quella che reca le orme dei passi di Cristo redentore, unica via di salvezza.

“Allora essi partirono e predicarono dappertutto…”; con queste parole, l’Evangelista ci dà un’indicazione preziosa: l’ascensione di Cristo, la sua assunzione nella gloria, è, si, un evento grande che apre al nostro cuore gli spazi infiniti della contemplazione, ma questa, se è autentica, non è evasione dagli impegni che la fede in Cristo comporta; anche noi, come gli Undici, siamo portati, e siamo felici, di fermare il nostro sguardo sul Signore pienamente glorificato accanto al Padre, ma anche a noi, come a loro, qualcuno dice: «perché state a guardare il cielo? Questo Gesù che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno, allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At.1,11); il Cristo ritornerà, per raccogliere il frutto di quella simbolica semina di salvezza, che ora passa attraverso le nostre mani di discepoli fedeli e operosi.

Lo sguardo rivolto al Cristo, che ascende al Padre, è, dunque, uno sguardo che ci radica nel segmento di storia in cui viviamo, con l’impegno di combattere il male che in essa si trova, mediante la Parola del Vangelo, aiutati dalla forza dello Spirito, animati dall’amore che da esso proviene, e che ha il potere, non solo di neutralizzare le insidie, ma anche quello di illuminare le menti e trasformare i cuori, perché si aprano alla fraternità e alla solidarietà, le sole capaci di instaurare, nel mondo, la giustizia e la pace.

È, questa, la nostra “ascensione”, la salita di quel simbolico monte che ci eleva dalla terra al cielo, una salita, spesso faticosa, ma animata, sempre dalla gioia e dalla fede nella parola del Cristo che ci ha lasciato, come sua eredità il comandamento dell’amore che non conosce limiti, quell’amore, che talvolta, costa, ma che ci ricongiunge a Dio, che ci fa sentire il Signore Gesù presente ed operante con noi, e ci dà la grazia di testimoniarlo a tanti, che, forse, non riescono a vederlo, ma che hanno, tuttavia, uno struggente bisogno di Lui.

suor Giuseppina Pisano, o.p.

Rimanete nel mio amore…

vite_tralci1Dal Vangelo di Giovanni       Gv 15,9-17

«Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.

Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

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Un testo ricchissimo, questo del Vangelo di oggi, che fa parte, anch’esso, del lungo discorso di congedo, in quell’ultima sera, che il Maestro trascorse coi suoi, prima di consegnarsi alla morte.

Un discorso, tutto sull’amore, e che molti esegeti considerano il “testamento” stesso di Gesù, la consegna da lui fatta ai discepoli, assieme all’Eucarestia, sigillo permanente dell’amore, totalmente dato, sino al limite estremo. “Rimanete nel mio amore”.

La scorsa domenica, la liturgia eucaristica invitava a riflettere sull’esortazione del Signore a rimanere in Lui, come tralci in una vite; oggi, la stessa esortazione è, a dimorare in Lui; non ci sono più immagini, né simboli ad indicare la comunione, ma è l’invito, a fare di Dio la nostra abitazione, o, che è lo stesso, a lasciarci inabitare totalmente da Lui.

L’abitazione vera del cristiano, non è dunque, un luogo nello spazio, ma l’amore stesso di Cristo; è Lui, la dimensione nella quale vivere, crescere ed operare; solo qui, e non altrove, l’uomo conosce e vive la sua vera identità, che è l’amore di carità, che lo rende somigliante al suo creatore, quel Dio che è carità.

Certo è facile abusare di questi termini e banalizzarli; ma il discorso del Signore si fa concreto, drammaticamente concreto, quando dice: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come lo vi ho amati”, e quale sia la misura e il modo dell’amore di Cristo, lo conosciamo bene, tuttavia Lui stesso lo specifica dicendo: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i suoi amici…”

E’ un’amore esigente, che non si ferma alla sola benevolenza, o all’affetto legato semplicemente all’emozione; l’amore, di carità, è un lungo cammino da compiere, e il suo percorso non sempre è agevole; come scriveva Michel Quoist: “…dopo Gesù Cristo, amare, significa esser crocifissi per un altro… “Amare è anche questo; perché amare, come Cristo ama, significa donarsi, senza misura e senza aspettare niente in cambio, e perdonare, sempre, come ha perdonato Lui.

“Questo vi comando:, amatevi gli uni gli altri “; e su questo comandamento l’uomo si costruisce cristiano, in ogni circostanza della vita.

Può sembrar strano, riguardo all’amore, e, all’amore più alto, che esso sia un comando, una legge, ma la forza, con la quale il Signore vi insiste, sta ad indicare, che siamo di fronte ad una scelta che non ammette alternative, amare è l’impegno fondamentale della vita, l’unica risposta alla scelta che Dio, in Cristo, ha fatto di noi, “prima della creazione del mondo, per trovarci, al suo cospetto, santi e irreprensibili nell’amore…” ( Ef.1,3 ss.)

E l’evangelista Giovanni commenta: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.

In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo, la vita per lui.

In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.” (1 Gv 4,7 1)

Questa forza d’amare, questa virtù, perché di virtù si tratta, non è qualcosa che nasce da noi, ma sorge dall’Alto, nell’eternità di Dio, e, a questo dono, noi ci apriamo, nel nome di Cristo Gesù.

” Abbiamo conosciuto e creduto all’amore di Dio per noi ” scrive Giovanni nella sua prima lettera, (4,16 ) e il Papa Benedetto XVI commenta:”…soltanto così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All’inizio dell’essere cristiano, non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte, e, con ciò, una direzione decisiva…” ( Deus caritas est.)

E’ la nostra Pasqua, già ora nel tempo, un evento, che ci fa creature nuove, perché l’amore di Dio, per opera di Cristo, ci trasforma da servi, in figli e amici: “…vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ ho fatto conoscere, a voi…”.

E’ questa la realtà profonda, del nostro essere cristiani, quel dimorare nell’ amore del Signore Gesù, che ci svela il Padre, la sua vita, il suo progetto, per la salvezza di tutti gli uomini.

E’ quel che leggiamo, oggi, negli Atti degli Apostoli: “…Pietro disse loro: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma, chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a Lui accetto»… stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo scese sopra tutti coloro che ascoltavano…(At 10,25 27.34 35. 44 48 ).

A questo progetto del Padre, anche noi collaboriamo, non per nostra iniziativa, ma perché scelti e costituiti dallo stesso Maestro e Redentore:”…io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga…”.

E’ il frutto della missione, della predicazione e della testimonianza, che nella Chiesa, ancora rendiamo al Risorto, fintanto che non sia realizzato pienamente quel che il salmo canta:

“Tutti i confini della terra hanno veduto la salvezza del nostro Dio. Acclami al Signore tutta la terra, gridate, esultate con voci di gioia.” (Salmo 97)

sr Mariarita Pisano O.P.

Monastero Domenicano SS.mo Rosario

Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto…

Dal Vangelo di Giovanni      Gv 15, 1-8

vite1«Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

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La liturgia di questa domenica sottolinea la necessità di “rimanere” in Gesù, un tema particolarmente caro all’apostolo Giovanni. Nella sua prima lettera afferma: “Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli in lui”. E nella parabola della vite i tralci i termini “rimanere” e “dimorare” ne sono il cuore. L’immagine della vigna, nel suo simbolismo religioso, era molto nota ai discepoli di Gesù. Uno degli ornamenti più vistosi del tempio eretto a Gerusalemme da Erode e che Gesù frequentò era appunto una vite d’oro con grappoli alti come un uomo. Ma soprattutto nelle Scritture il tema della vigna era tra i più significativi per esprimere il rapporto tra Dio e il suo popolo. Isaia, nel mirabile “canto della Vigna” descrive la delusione di Dio nei confronti di Israele, sua vigna, che aveva curato, piantato, vangato, difeso, ma dalla quale non ha avuto altro che frutti amari. Geremia rimprovera il popolo d’lsraele: “Io ti avevo piantata come vite feconda e tutta genuina. Come mai sei diventata una vite aspra, selvatica e bastarda?” (2, 21).

Nelle parole di Gesù, c’è un cambiamento piuttosto singolare, la vite non è più Israele, ma lui stesso: “Io sono la vera vite”. Nessuno l’aveva mai detto prima. Per comprendere appieno queste parole è necessario collocarle nel contesto dell’ultima cena, quando Gesù le pronunciò.

Quella sera il discorso ai discepoli fu lungo, complesso e con i toni di gravità propri degli ultimi momenti della vita: un vero e proprio testamento. Nel primo discorso chiarisce chi è la vera guida del popolo del Signore; e dice: “Io sono il buon pastore”. Subito dopo, iniziando il secondo discorso, afferma: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo”. Gesù si identifica con la vite, specificando che è la “vera” vite; ovviamente per distinguersi dalla “falsa”.

Ma non è una vite isolata. Gesù aggiunge: “io sono la vite e voi i tralci”. I discepoli sono legati al Maestro e sono parte integrante della vite: non c’è vite senza tralci, e viceversa. Potremmo dire che il legame dei discepoli con Gesù è appunto come quello della vite con i tralci, essenziale e forte. E’ un legame che va ben oltre i nostri alti e bassi psicologici le nostre buone o cattive condizioni. L’antico segno biblico della vigna riappare qui in tutta la sua forza. Con Gesù nasce una vigna più larga e più estesa della precedente e soprattutto percorsa da una nuova linfa’, l’agape, l’amore stesso di Dio. La forza di questo amore è dirompente: permette di produrre molto frutto. Dice Gesù: “In questo è glorificato il padre mio: che portiate molto frutto”.

Il Vangelo prosegue: “Ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto”. Sì, proprio quelli che “portano frutto”, conoscono anche il momento della potatura. Sono quei tagli che di tempo in tempo, appunto come accade nella vita naturale, è necessario operare perché possiamo essere “senza macchia” (Ef 5, 27). Il testo evangelico non vuol dire che Dio manda dolori e sofferenze ai suoi figli migliori per provarli o purificarli. No, non è in questo che va intesa la potatura, il Signore non ha bisogno di intervenire con le sofferenze per migliorare i figli. La verità è molto più piana. La vita spirituale è sempre un itinerario o, se si vuole, una crescita. Ma non è mai né scontata né naturale, e non è un progresso univoco.

Ognuno di noi ha l’esperienza della crescita in se stesso di frutti buoni assieme a sentimenti cattivi, ad abitudini egoistiche, ad atteggiamenti freddi e violenti, a pensieri malevoli, a spinte di invidia e di orgoglio.:. E’ qui che si deve potare, e non una volta sola, perché sempre si ripresentano questi sentimenti, seppure in modi e con manifestazioni diverse. Non c’è età della vita che non esiga cambiamenti e correzioni, e quindi potature.

E’ la condizione per portare frutto per non seccarsi ed essere quindi tagliati e bruciati. Forse quella sera i discepoli non capirono, magari, si saranno chiesti: “ma che vuol dire rimanere con lui se sta per andarsene?” In verità, Gesù indicava una via semplice per restare con lui; si rimane in lui se le “sue parole rimangono in noi”. E’ la via che intraprese Maria, sua madre, la quale “conservava nel suo cuore tutte queste cose”. E’ la via che scelse Maria la sorella di Lazzaro, che restava ai piedi di Gesù.

E’ la via tracciata per ogni discepolo. Nella tradizione bizantina c’è una splendida icona che riproduce plasticamente questa parabola evangelica. Al centro è dipinto il tronco della vite su cui è seduto Gesù con la Scrittura aperta. Dal tronco partono dodici rami su ognuno dei quali è seduto un apostolo, con la Scrittura aperta tra le mani.

E’ l’icona della nuova vigna, l’immagine della nuova comunità che ha origine da Gesù, vera vite. Quel libro aperto che sta nelle mani di Gesu è lo stesso che hanno gli apostoli: è la vera linfa’ che permette di “non amare a parole né con la lingua. ma coi fatti e nella verità”.

a cura di V.P.

 

Io sono il buon pastore…

Dal vangelo di Giovanni  Gv 10, 11-18

pastore1«Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

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La IV domenica di Pasqua ci presenta come ogni anno il testo evangelico del Buon Pastore (Gv 10,1-21) e si svolge nel clima della giornata di preghiera per le vocazioni. Il testo giovanneo viene suddiviso in tre parti: nell’ano in corso (ciclo B) il testo è quello centrale (Gv 10,11-18) dove Gesù stesso spiega il significato dell’immagine del buon pastore . La pericope si divide in tre parti: vv. 11-13 l’identità del buon pastore; vv. 13-16 la conoscenza esistente tra il pastore e il suo gregge ed infine vv. 17-18 il dono della vita. E’ evidente il legame pasquale con questo capitolo 10 giovanneo, dove sotto l’allegoria del pastore e della porta si parla dell’unico mediatore che Dio ha inviato per salvare il suo popolo (con riferimenti pure all’Esodo), mediatore che offre la sua vita. Il capitolo 10 si apre con una formula solenne e con la seguente affermazione: “In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore . La mancanza di un’introduzione qualsiasi tradisce il legame con il capitolo precedente e le sue tematiche, in particolare l’espulsione del cieco risanato a causa della sua fede in Gesù Cristo. L’affermazione di Gesù è dunque rivolta a quanti sono citati al capitolo 9 e cerca di spiegare la situazione. Si tratta di una forma letteraria, quella utilizzata nel capitolo 10, che non è propriamente una parabola, né un’allegoria, ma un insegnamento simbolico, segreto, misterioso, che prepara ed esige una rivelazione aperta, esplicita (I. de la Potterie). Un discorso enigmatico con un forte contenuto messianico, circa l’opera di Gesù e la sua identità. Infatti l’apertura (al v. 1 con la formula solenne: in verità, in verità io vi dico) richiama l’attenzione a qualcosa di fondamentale e importante. I testi scritturistici abbinati al vangelo di questa domenica, oltre al salmo pasquale (sal 117) sono un brano della prima lettera di san Giovanni (1Gv 3,1-2) dove ritroviamo il tema della conoscenza vitale tra Gesù / Dio Padre e noi suoi figli e il testo di Atti (At 4,8-12) in cui Pietro afferma che solo nel nome di Gesù c’è salvezza. La centralità dell’opera di Cristo Gesù nel piano di salvezza di Dio Padre appare così in piena luce, mostrando che essa si compie nel dare la vita; un modello a cui i discepoli sono invitati a guardare e in cui ogni vocazione nella Chiesa prende forma e può sussistere. Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Dopo la spiegazione dell’immagine della porta (che occupa i vv. precedente) ora Gesù afferma di essere lui il buon o meglio il bel (in greco kalos) pastore . Il termine impiegato non è di carattere estetico e non si riferisce all’aspetto di Gesù, quanto la sua missione e le sue opere (vedi 2,10; 10,32-33) e si potrebbe tradurre anche perfetto e vero . L’immagine del pastore, che troviamo anche nei sinottici in testi diversi su Gesù e le sue opere (vedi Mt 18,12-14; Lc 15,3-7; Mt 9,36-38; Mc 6,34; 14,27; Mt 10,16; 25,31-11; Lc 12,32) ha sullo sfondo molti passi AT ed ha un chiaro valore messianico (vedi Mi 5,3; Ez 34,23-31; Ger 3,15; 23,35; Sal 23; Zc 13,7-9). La seconda parte del v. 11 specifica in che modo Gesù è il buon pastore: egli dà la propria vita per le pecore . L’espressione dare la propria vita riportata più volte in questo brano (v. 11.15.17.18) e che ritroviamo nel capitolo 13 per la lavanda dei piedi ( cfr. Gv 13,4.12, dove si parla delle vesti, simbolo della vita stessa) è tipica di Giovanni per indicare il libero gesto di Gesù che si mette nella mani del Padre in favore delle pecore, gli uomini e le donne di ogni tempo, in vista della loro salvezza. E’ lui li pastore messianico che giunge a dare la sua vita, a donare se stesso, a privarsi della vita per il bene delle sue pecore, degli altri (vedi Gv 15,13). L’idea è rafforzata dal paragone che segue con il mercenario, il quale ha con le pecore un rapporto di interesse economico, gli servono per il suo benessere. Al contrario il buon pastore ha con esse un rapporto d’amore e di fede, è lui che sacrifica la sua vita per il bene delle pecore. Il messaggio è rivolto anche a quanti nella chiesa primitiva e di sempre svolgeranno il ruolo di pastori: anch’essi dovranno essere animati dai sentimenti qui descritti e che anche san Pietro ripropone (vedi 1Pt 5,2-4). Pure negli Atti c’è un eco di questo nel discorso di Paolo a Mileto (At 20,29.31). Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. La seconda parte della pericope odierna mette in luce un altro aspetto: quello della conoscenza, altro tema mutuato dall’AT (vedi Os 6,6; Am 3,2; Ger 22,16; Sal 139,1-6) e dal contesto biblico generale in cui il verbo greco ginòsko indica una conoscenza esistenziale dove tutta la persona e la sua esperienza concreta è coinvolta. Il tema della conoscenza (già emerso nei vv. 4-5 di questo capitolo 10) tra Gesù e i suoi ha come riferimento e matrice la conoscenza tra il Padre e il Figlio, si tratta di una conoscenza reale e intensa, dall’amore ( 1Cor 8,3: chi ama Dio è da lui conosciuto dirà san Paolo). Una amore che si allarga oltre i confini di Israele, oltre i confini della chiesa primitiva di Gerusalemme e giunge a tutti gli uomini e le donne. Un’apertura missionaria che sarà quella della Chiesa: “E’ caratteristico del vangelo di Giovanni proiettare lo guardo sul futuro della Chiesa (cf. 4,34-38; 12,20-24), partendo dalla situazione di Gesù. Paragonando il v. 16 con il contenuto dei vv. 1-5, a cui rimanda in particolare la ripetuta menzione dell’ovile, vediamo due periodi … Il primo periodo è legato … alla vita terrena di Gesù. Il secondo periodo, che segue l'”esaltazione” legata all’offerta della sua vita, concerne le pecore venute da ogni dove: è il tempo della Chiesa, che vive sotto la guida del Signore glorificato” (O. Kiefer). Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18 Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio”. Infine la terza parte del vangelo che oggi ci viene proposto riprende il tema del donare la vita, con un nuovo elemento: il rapporto tra Gesù e il Padre è legato a questo dono di sé che è pure il suo comando .

Nel testo di Giovanni troviamo diversi riferimenti a questa idea (12,24.32; 15,13; 16,21): l’amore del Padre per il Figlio e per il mondo e l’amore del Figlio per il Padre e per il mondo si manifesta nell’obbedienza sino alla morte di croce, dove si dona completamente e liberamente per dare la vita in abbondanza a noi e a cui il Padre risponde con la resurrezione il luogo in Gesù riprende di nuovo la sua vita donata. Ogni discepolo ha quindi in Gesù un modello secondo l’evangelista Giovanni, perché in lui può vedere/riconoscere l’amore di cui anche la sua vita deve essere normata (cfr. 1Gv 3,16). Dalla pagina evangelica di oggi oltre al ritratto di Gesù scaturisce quello dei suoi discepoli e della Chiesa intera.

Monastero Matris Domini

Stupiti, spaventati, turbati, e grande gioia…

Stupiti, spaventati, turbati, e grande gioia

Dal Vangelo di Luca   Lc 24, 35-48

MANI1Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane. Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».

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Sono gli aggettivi che il Vangelo di oggi, usa e riguardano gli Apostoli: ma sono aggettivi che descrivono bene i nostri stati di animo, quelli di tutti i giorni.

Vediamo insieme il fatto da cui nascono questi stati d’animo comune.

Gli Apostoli, scelti da Dio stesso, per essere poi “i grandi pilastri della Chiesa”, avevano giocato la loro vita sull’accettazione di “lasciare tutto e seguire Gesù” per “stare con Lui e poi essere mandati”.

Non prevedevano che tanto Maestro e Signore, amore di Dio incarnato tra noi poveri uomini, potesse subire l’umiliazione dell’arresto, del processo, della flagellazione insomma della lenta, ma terribile privazione della propria dignità umana, fino alla ignobile crocifissione. E come tutti i morti era stato sepolto, come a dire che tutto era finito.

E’ vero che Gesù non aveva mai cessato di predire con estrema esattezza tutto questo, chiamandola la “sua ora”. L’ora in cui tramite il suo sacrificio sarebbe cambiata la sorte di noi uomini e di tutto il creato. Ed aveva aggiunto, come per dire che il “suo discorso” non si chiudeva con la sua crocifissione e sepoltura, che quello era un passaggio, verso la resurrezione.

Ma a tutto questo non arrivava la povertà umana degli apostoli, come tante volte non arriva la nostra. Entriamo nel regno di Dio e solo la fede ci permette di accedervi. Dio è giusto ed è fedele alle sue promesse. E Gesù puntualmente il terzo giorno risuscitò. E’ la Pasqua, il grande giorno per tutti.

Ma che fosse risorto doveva essere provato, “toccato con mano” per poi testimoniarlo a tutti, fino alla fine dei secoli.

Il tempo della sepoltura alla resurrezione, fu “la terribile notte” del cuore per gli apostoli e per quanti avevano creduto in Gesù. Una notte insopportabile. Per cui era immensa la speranza che quel sepolcro si aprisse e Lui tornasse tra loro. Se rotolava quella pietra, sarebbe rotolata la pietra di ogni uomo, sulla notte del cuore, che sono tante e per tutti. Quella pietra rotolò e Gesù apparve ai discepoli. Quella apparizione improvvisa che abbatte ogni “notte”, crea inevitabilmente “stupore”, fino allo “spavento. E lo possiamo capire. Succederebbe a tutti noi lo stesso sgomento. E’ Gesù stesso che aiuta a superare questo stato d’animo, facendo capire che la sua presenza non era una “allucinazione”, ma era una realtà viva e chiede così che gli offrano da mangiare. Superato lo spavento, avuta la certezza che Gesù era tornato tra loro vivo, risuscitato, segue inevitabilmente la grande gioia. La nostra tristezza, il più delle volte, non conosce la grande gioia, perché è la sensazione che non si “aspetta nessuno” che rompa la solitudine e dia speranza facendosi vicino e offrendo amicizia vera.

Anni fa ero in pellegrinaggio a Lourdes. Trovavo molto bello, quando era notte, starmene solo o in compagnia di pochi ai piedi della Grotta. Una notte mi accorsi che vicino a me, seduto sul muricciolo, c’era un uomo, quasi piegato su se stesso dal dolore. Un dolore che non gli faceva neppure guardare la Grotta e la Madonna. Mi accostai con molto rispetto: e mi sedetti accanto a lui come a non farlo sentire solo. Cominciò a piangere a dirotto per lungo tempo. Non so cosa sia significato per lui quel sentire uno che si era fatto vicino in quella notte. So che ad un certo momento mi disse: “La ringrazio di essere venuto”. Ero qui per togliermi la vita, talmente non ne posso più”. Mi raccontò il suo dolore che era veramente grande Ed alla fine alzò gli occhi verso la Madonna. Aveva il volto diverso, illuminato, con un raggio di sorriso. Quell’uomo davvero aveva vissuto “il turbamento” “lo spavento” e “la gioia”. Là e in chissà quanti posti, anche nella nostra piazzetta di Internet, ciò accade. E scrivendo queste righe mi è parso di incontrarne parecchi e di farmi vicino a loro, come a Lourdes.

Mons. Antonio Riboldi

 

…Pace a voi…

Dal Vangelo di Giovanni   Gv 20, 19-31

BEATI QUELLI1La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».

Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

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Le porte erano chiuse per paura dei giudei: così inizia il vangelo della seconda domenica di Pasqua. La paura è un sentimento che il lettore del quarto Vangelo già conosce: la paura della folla che non osa parlare in pubblico di Gesù; la paura dei genitori del cieco guarito che temono le reazioni dell’autorità; la paura di alcuni notabili che non hanno il coraggio di dichiararsi per timore di essere espulsi dalla sinagoga. In tutti i casi la paura è suscitata dalle autorità, che sono ostili nei confronti di Gesù. Ma se la paura può entrare nel cuore dell’uomo è unicamente perché vi trova un punto di appoggio. Non serve perciò chiudere le porte. La paura entra nel profondo se si è ricattabili, se qualcosa ci importa più di Gesù. Ora che il Signore è risorto, non c’è più ragione di avere paura. Perfino la morte è vinta: di che cosa avere paura?

Per farsi riconoscere il Risorto sceglie i segni della crocifissione: il fianco e le mani trafitte. La risurrezione non fa dimenticare la Croce: la trasfigura. Le tracce della crocifissione sono ancora visibili, perché sono proprio loro a indicare l’identità del Risorto e a indicare la strada che il discepolo deve percorrere per raggiungerlo.

«Pace a voi» è il saluto del Signore risorto. Ma è una pace diversa da come il mondo la pensa. Diversa perché dono di Dio, non semplice conquista della buona volontà dell’uomo. Diversa, perché va alla radice, là dove l’uomo decide la scelta della menzogna o della verità. Diversa perché è una pace che sa pagare il prezzo della verità. La pace di Gesù non promette di eliminare la Croce – né nella vita del cristiano né nella storia del mondo – ma rende certi della sua vittoria: «Io ho vinto il mondo» (16,33).

I discepoli passano dalla paura alla gioia: «Si rallegrarono al vedere il Signore». Come la pace, anche la gioia è un dono del Risorto. Si tratta di una gioia che affonda le sue radici nell’amore. Pace e gioia sono al tempo stesso il dono del Risorto e le tracce per riconoscerlo. Ma occorre infrangere l’attaccamento a se stessi. Solo così non si è più ricattabili e si viene liberati dalla paura. La pace e la gioia fioriscono nella libertà e nel dono di sé, due condizioni senza le quali è impossibile alcuna esperienza della presenza del Risorto.

Accanto alla fede degli altri discepoli, c’è anche il dubbio di Tommaso. Tommaso ha conosciuto il dubbio, come a volte avviene, ma questo non gli ha impedito di giungere, primo tra gli apostoli, a una fede piena: «Mio Signore e mio Dio». Non raramente anche una grande fede passa attraverso il dubbio.

Le porte erano chiuse per paura dei giudei: così inizia il vangelo della seconda domenica di Pasqua. La paura è un sentimento che il lettore del quarto Vangelo già conosce: la paura della folla che non osa parlare in pubblico di Gesù; la paura dei genitori del cieco guarito che temono le reazioni dell’autorità; la paura di alcuni notabili che non hanno il coraggio di dichiararsi per timore di essere espulsi dalla sinagoga. In tutti i casi la paura è suscitata dalle autorità, che sono ostili nei confronti di Gesù. Ma se la paura può entrare nel cuore dell’uomo è unicamente perché vi trova un punto di appoggio. Non serve perciò chiudere le porte. La paura entra nel profondo se si è ricattabili, se qualcosa ci importa più di Gesù. Ora che il Signore è risorto, non c’è più ragione di avere paura. Perfino la morte è vinta: di che cosa avere paura?

Per farsi riconoscere il Risorto sceglie i segni della crocifissione: il fianco e le mani trafitte. La risurrezione non fa dimenticare la Croce: la trasfigura. Le tracce della crocifissione sono ancora visibili, perché sono proprio loro a indicare l’identità del Risorto e a indicare la strada che il discepolo deve percorrere per raggiungerlo.

«Pace a voi» è il saluto del Signore risorto. Ma è una pace diversa da come il mondo la pensa. Diversa perché dono di Dio, non semplice conquista della buona volontà dell’uomo. Diversa, perché va alla radice, là dove l’uomo decide la scelta della menzogna o della verità. Diversa perché è una pace che sa pagare il prezzo della verità. La pace di Gesù non promette di eliminare la Croce – né nella vita del cristiano né nella storia del mondo – ma rende certi della sua vittoria: «Io ho vinto il mondo» (16,33).

I discepoli passano dalla paura alla gioia: «Si rallegrarono al vedere il Signore». Come la pace, anche la gioia è un dono del Risorto. Si tratta di una gioia che affonda le sue radici nell’amore. Pace e gioia sono al tempo stesso il dono del Risorto e le tracce per riconoscerlo. Ma occorre infrangere l’attaccamento a se stessi. Solo così non si è più ricattabili e si viene liberati dalla paura. La pace e la gioia fioriscono nella libertà e nel dono di sé, due condizioni senza le quali è impossibile alcuna esperienza della presenza del Risorto.

Accanto alla fede degli altri discepoli, c’è anche il dubbio di Tommaso. Tommaso ha conosciuto il dubbio, come a volte avviene, ma questo non gli ha impedito di giungere, primo tra gli apostoli, a una fede piena: «Mio Signore e mio Dio». Non raramente anche una grande fede passa attraverso il dubbio.

A.S.

…Vide e credette…

Dal Vangelo di Giovanni                    Gv 20, 1-9

Pasqua

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

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La pericope odierna è tutta incentrata sul tema della “tomba vuota”. Essa, com’è noto, non è sufficiente a “dimostrare” la resurrezione di Gesù, non è una “prova” di essa; e tuttavia è un importante indizio, un “segno” per chi sa leggerlo correttamente.

Giovanni, che ama esprimere attraverso singoli ed emblematici personaggi diverse posizioni, ci presenta nel cap.20 le tre diverse reazioni di fronte alla tomba vuota di Maria Maddalena, di Pietro e dell’ “altro discepolo”, che è poi lo stesso Giovanni, il “Discepolo amato”.

Giunta al sepolcro, Maria vede (“blépei”) la pietra tolta, ribaltata via. Il suo vedere è espresso con “blépo”, un verbo greco che indica il vedere fisico, il semplice scorgere con gli occhi, la percezione materiale. Da questa percezione deriva alla donna una conclusione puramente umana: il cadavere non c’è più, quindi è stato rubato, portato via. Di qui il suo dolore, anzi la sua angoscia, perché le è stata sottratta – forse per sempre – l’unica reliquia che le era rimasta del suo amato Maestro.

Ella avverte di ciò i due maggiori esponenti della comunità cristiana primitiva e anch’essi vanno subito, e di corsa, al sepolcro. Pietro, cui Giovanni ha dato la precedenza, entra nella tomba e “osserva” tele e sudario piegati accuratamente. Questa volta il verbo greco è “theoréin”, che dice più del semplice vedere fisico: significa infatti “scrutare attentamente” ed implica uno sguardo attento, riflessivo, interrogante. Infatti dal passo parallelo di Luca (c.24, a.12 b) veniamo a sapere che Pietro era “pieno di stupore” per l’accaduto.

Infine anche il terzo personaggio emblematico del racconto, “l’altro discepolo”, entra nel sepolcro e di lui l’autore dice che “vide e credette”. Questa volta il verbo greco tradotto con “vide” è “éiden”, il perfetto di “horào”, che significa guardare, percepire, prendere conoscenza; nel linguaggio biblico del N.T. il verbo indica anche la visione spirituale. Siamo cioè a un terzo gradino di profondità rispetto agli altri due verbi esaminati.

Che cosa vide e che cosa credette Giovanni?

Gli esegeti hanno dato risposte diverse, anche perché il v.7 costituisce una vera e propria “crux” interpretativa.

Da parte mia ho trovato convincente la proposta di traduzione fatta dal sacerdote biblista Don Antonio Persili (ampiamente citato da V. Messori in “Dicono che è risorto”, capp.12°-13°), il quale

ha dedicato interi decenni (sic!) a studiare Giov.20,3-8, esplorando non solo il testo originale, ma il contesto storico, archeologico, antropologico, gli usi e i costumi funerari del tempo, etc.

Sulla base di una ben documentata analisi filologica, egli propone una traduzione dei vv.6-7 diversa da quella ufficiale e cioè:

NON “[Pietro] osservò i teli posati là, 7e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.”

MA: “[Pietro] contempla le fasce distese e ( 7) il sudario, che era sul capo di lui, non disteso con le fasce, ma al contrario avvolto in una posizione unica”.

Che cosa si evince da questa traduzione?

Anzitutto le fasce, cioè le strisce di tela che avvolgevano il lenzuolo funerario (o sindone), se prima erano rialzate (perché all’interno c’era il corpo), ora sono “abbassate”, “distese”; cioè intatte, non manomesse, non disciolte. “Esse – afferma Persili – costituiscono la prima traccia della Resurrezione: era infatti assolutamente impossibile che il corpo di Gesù fosse uscito dalle fasce, semplicemente rianimato, o che fosse stato asportato, sia da amici che da nemici, senza svolgere quelle fasce o, comunque, senza manometterle in qualche maniera” (da “Sulle tracce del Cristo Risorto”).

Ma soprattutto risulta interessante il particolare del sudario (cui Giovanni dedica un intero versetto, il 7), che, secondo la traduzione proposta, si trova non separato dalle bende, bensì sopra le bende, nel punto in cui stava la testa del cadavere, “avvolto in una posizione unica”; infatti “unica”, cioè singolare, eccezionale, irripetibile, appare la posizione di tale sudario agli occhi di Pietro e Giovanni, perché è una sfida alla forza di gravità! Come poteva un telo rimanere “rialzato” ed “avvolto” senza nulla dentro? L’unica spiegazione plausibile è che il sudario fosse rimasto per così dire “inamidato” per l’essiccarsi (immediato) dei profumi liquidi abbondantemente versati su di esso al momento della sepoltura: era un involucro “imbalsamato”, che conservava ancora la forma di ciò che aveva contenuto fino a qualche ora prima, come se il corpo l’avesse misteriosamente attraversato senza scomporlo. Del resto Gesù risorto non sarebbe apparso all’improvviso nel cenacolo, a porte chiuse?

Ora, Pietro e Giovanni videro le medesime cose, ma solo di Giovanni si dice che “vide e credette”, perché? E che cosa “vide” Giovanni, che cosa “credette”?

Anzitutto Giovanni, a differenza di Pietro, era rimasto con Gesù fino alla fine, aveva assistito alla sua sepoltura e ora, chinatosi sul sepolcro, vede che bende e sudario sono esattamente nella posizione in cui si trovava il cadavere e collocate in modo che, come visto sopra, escludeva qualsiasi manomissione.

Ricordiamo che per l’evangelista Giovanni “vedere” (“horào”) è anche un prendere coscienza di un evento della rivelazione. Il discepolo dunque “vide”, in modo più profondo degli altri, che Gesù non era uscito dalle tele, perché, all’interno di esse, era entrato direttamente nella dimensione dell’eternità, con un passaggio misterioso da uno stato all’altro, dal tempo all’eterno. In questo “vedere” gli fu di aiuto – come detto – la sua precedente esperienza al sepolcro.

Ma soprattutto era l’amore per Gesù di cui il “discepolo amato” era penetrato che lasciò passare in lui la luce: le fasce, afflosciate su se stesse ma ancora avvolte, e il sudario in quella strana posizione, erano il SEGNO che Gesù era uscito vivodal sepolcro, sottraendosi in maniera misteriosa ai panni che Lo avvolgevano. Giovanni coglie dunque nella disposizione delle bende e del sudario un rinvio. Non vede il Risorto, ma la sua traccia.

Di conseguenza egli crede, prima ancora di incontrarLo come avverrà per gli altri (che solo allora crederanno alla resurrezione), che Gesù è davvero resuscitato dai morti.

Ileana Mortari

Da Vangelo di Giovanni                    Gv 20, 1-9

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

 

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La pericope odierna è tutta incentrata sul tema della “tomba vuota”. Essa, com’è noto, non è sufficiente a “dimostrare” la resurrezione di Gesù, non è una “prova” di essa; e tuttavia è un importante indizio, un “segno” per chi sa leggerlo correttamente.

Giovanni, che ama esprimere attraverso singoli ed emblematici personaggi diverse posizioni, ci presenta nel cap.20 le tre diverse reazioni di fronte alla tomba vuota di Maria Maddalena, di Pietro e dell’ “altro discepolo”, che è poi lo stesso Giovanni, il “Discepolo amato”.

Giunta al sepolcro, Maria vede (“blépei”) la pietra tolta, ribaltata via. Il suo vedere è espresso con “blépo”, un verbo greco che indica il vedere fisico, il semplice scorgere con gli occhi, la percezione materiale. Da questa percezione deriva alla donna una conclusione puramente umana: il cadavere non c’è più, quindi è stato rubato, portato via. Di qui il suo dolore, anzi la sua angoscia, perché le è stata sottratta – forse per sempre – l’unica reliquia che le era rimasta del suo amato Maestro.

Ella avverte di ciò i due maggiori esponenti della comunità cristiana primitiva e anch’essi vanno subito, e di corsa, al sepolcro. Pietro, cui Giovanni ha dato la precedenza, entra nella tomba e “osserva” tele e sudario piegati accuratamente. Questa volta il verbo greco è “theoréin”, che dice più del semplice vedere fisico: significa infatti “scrutare attentamente” ed implica uno sguardo attento, riflessivo, interrogante. Infatti dal passo parallelo di Luca (c.24, a.12 b) veniamo a sapere che Pietro era “pieno di stupore” per l’accaduto.

Infine anche il terzo personaggio emblematico del racconto, “l’altro discepolo”, entra nel sepolcro e di lui l’autore dice che “vide e credette”. Questa volta il verbo greco tradotto con “vide” è “éiden”, il perfetto di “horào”, che significa guardare, percepire, prendere conoscenza; nel linguaggio biblico del N.T. il verbo indica anche la visione spirituale. Siamo cioè a un terzo gradino di profondità rispetto agli altri due verbi esaminati.

Che cosa vide e che cosa credette Giovanni?

Gli esegeti hanno dato risposte diverse, anche perché il v.7 costituisce una vera e propria “crux” interpretativa.

Da parte mia ho trovato convincente la proposta di traduzione fatta dal sacerdote biblista Don Antonio Persili (ampiamente citato da V. Messori in “Dicono che è risorto”, capp.12°-13°), il quale ha dedicato interi decenni (sic!) a studiare Giov.20,3-8, esplorando non solo il testo originale, ma il contesto storico, archeologico, antropologico, gli usi e i costumi funerari del tempo, etc.

Sulla base di una ben documentata analisi filologica, egli propone una traduzione dei vv.6-7 diversa da quella ufficiale e cioè:

NON “[Pietro] osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.”

MA: “[Pietro] contempla le fasce distese e  il sudario, che era sul capo di lui, non disteso con le

fasce, ma al contrario avvolto in una posizione unica”

Che cosa si evince da questa traduzione?

Anzitutto le fasce, cioè le strisce di tela che avvolgevano il lenzuolo funerario (o sindone), se prima erano rialzate (perché all’interno c’era il corpo), ora sono “abbassate”, “distese”; cioè intatte, non manomesse, non disciolte. “Esse – afferma Persili – costituiscono la prima traccia della Resurrezione: era infatti assolutamente impossibile che il corpo di Gesù fosse uscito dalle fasce, semplicemente rianimato, o che fosse stato asportato, sia da amici che da nemici, senza svolgere quelle fasce o, comunque, senza manometterle in qualche maniera” (da “Sulle tracce del Cristo Risorto”).

Ma soprattutto risulta interessante il particolare del sudario (cui Giovanni dedica un intero versetto, il 7), che, secondo la traduzione proposta, si trova non separato dalle bende, bensì sopra le bende, nel punto in cui stava la testa del cadavere, “avvolto in una posizione unica”; infatti “unica”, cioè singolare, eccezionale, irripetibile, appare la posizione di tale sudario agli occhi di Pietro e Giovanni, perché è una sfida alla forza di gravità! Come poteva un telo rimanere “rialzato” ed “avvolto” senza nulla dentro? L’unica spiegazione plausibile è che il sudario fosse rimasto per così dire “inamidato” per l’essiccarsi (immediato) dei profumi liquidi abbondantemente versati su di esso al momento della sepoltura: era un involucro “imbalsamato”, che conservava ancora la forma di ciò che aveva contenuto fino a qualche ora prima, come se il corpo l’avesse misteriosamente attraversato senza scomporlo. Del resto Gesù risorto non sarebbe apparso all’improvviso nel cenacolo, a porte chiuse?

Ora, Pietro e Giovanni videro le medesime cose, ma solo di Giovanni si dice che “vide e credette”, perché? E che cosa “vide” Giovanni, che cosa “credette”?

Anzitutto Giovanni, a differenza di Pietro, era rimasto con Gesù fino alla fine, aveva assistito alla sua sepoltura e ora, chinatosi sul sepolcro, vede che bende e sudario sono esattamente nella posizione in cui si trovava il cadavere e collocate in modo che, come visto sopra, escludeva qualsiasi manomissione.

Ricordiamo che per l’evangelista Giovanni “vedere” (“horào”) è anche un prendere coscienza di un evento della rivelazione. Il discepolo dunque “vide”, in modo più profondo degli altri, che Gesù non era uscito dalle tele, perché, all’interno di esse, era entrato direttamente nella dimensione dell’eternità, con un passaggio misterioso da uno stato all’altro, dal tempo all’eterno. In questo “vedere” gli fu di aiuto – come detto – la sua precedente esperienza al sepolcro.

Ma soprattutto era l’amore per Gesù di cui il “discepolo amato” era penetrato che lasciò passare in lui la luce: le fasce, afflosciate su se stesse ma ancora avvolte, e il sudario in quella strana posizione, erano il SEGNO che Gesù era uscito vivodal sepolcro, sottraendosi in maniera misteriosa ai panni che Lo avvolgevano. Giovanni coglie dunque nella disposizione delle bende e del sudario un rinvio. Non vede il Risorto, ma la sua traccia.

Di conseguenza egli crede, prima ancora di incontrarLo come avverrà per gli altri (che solo allora crederanno alla resurrezione), che Gesù è davvero resuscitato dai morti.

Ileana Mortari

 

Benedetto colui che viene nel nome del Signore!

Dal Vangelo di Marco            Mc 11,1-10

ASINO_PALME1Quando furono vicini a Gerusalemme, verso Bètfage e Betània, presso il monte degli Ulivi, mandò due dei suoi discepoli e disse loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito. Slegatelo e portatelo qui. E se qualcuno vi dirà: “Perché fate questo?”, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito”». Andarono e trovarono un puledro legato vicino a una porta, fuori sulla strada, e lo slegarono. Alcuni dei presenti dissero loro: «Perché slegate questo puledro?». Ed essi risposero loro come aveva detto Gesù. E li lasciarono fare. Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra. Molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde, tagliate nei campi. Quelli che precedevano e quelli che seguivano, gridavano: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!».

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Con la Domenica delle Palme entriamo nella fase finale del tempo quaresimale; al racconto della passione (quest’anno, ciclo B, Marco 14,1-15,47) si affianca il testo dell’ingresso di Gesù nella città santa, Gerusalemme, che nell’evangelista Marco ha un carattere molto particolare, introducendo la sezione dei capitoli 11-13 che narrano l’ultima settimana di vita di Gesù ed il racconto della sua passione e morte (capitoli 14-15). Il testo ha delle forti risonanze anticotestamentarie e descrive un’azione simbolica o profetica che si connota per tre aspetti: quello del bisogno, della novità e della promessa. La sezione aperta dalla nostra pericope ci presenta lo scenario e i temi fondamentali dell’ultimo tratto di cammino di Gesù, con un valore teologico importante (come vedremo più sotto). All’apparente trionfo di Gesù nel testo evangelico di Mc 11,1-10 con cui ha inizio la processione della Domenica delle Palme, si contrappone la sua marginalità nel racconto; il racconto però lascia nel lettore la sensazione che tutto quanto si compie non sia casuale, ma voluto da Qualcuno che ha predisposto la vicenda di Gesù e vuole svelarne il senso. Anche le altre due letture (Is 50,4-7 e Fil 2,6-11) ci parlano del significato della morte di Gesù, in chiave profetica la prima, Cristologia ed ecclesiale la seconda. Quando furono vicini a Gerusalemme, verso Bètfage e Betània, presso il monte degli Ulivi, mandò due dei suoi discepoli.

Dal capitolo 11 inizia per Marco una settimana decisiva, l’ultima della vita terrena di Gesù, scandita con precisione sempre più insistente, in giorni ed ore (vedi 11,12.20; 14,1.12; 15,1.25.33.34) che narra l’evento centrale del suo vangelo: la morte di Gesù sulla croce (15,34-37). Marco nel primo versetto della pericope colloca Gesù (che viene da Gerico dove ha compiuto l’ultimo miracolo di guarigione narrato dall’evangelista, vedi Mc 9,46-52) in un ambiente geografico molto preciso, mettendo in campo i luoghi in cui si svolgerà l’azione d’ora in poi: Gerusalemme, centro della vita cultuale e nazionale e i villaggi limitrofi: Betania (che funge da luogo di appoggio nel suo soggiorno presso la città santa) e Bètfage (posta tra le due località precedenti); infine il monte degli Ulivi . Il brano si apre con alcune indicazioni ai discepoli e nello stesso modo si concluderà la sezione (cfr. 13,5-37) con discorso escatologico. All’interno di tale sezione si situano tre visite al tempio (11,11; 11,12-25; 11,27-12,44) e le cinque dispute con i gruppi religiosi del tempo. Più dei testi paralleli (cfr. Mt 21,1-11; Lc 19,28-40; Gv 12,12-19) Marco concentra l’attenzione sull’identità di Gesù con il riferimento apparentemente marginale della cavalcatura che gli serve per entrare in città; l’episodio ha lo scopo di mettere in luce il senso di quanto sta per accadere e disse loro: “Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito. Slegatelo e portatelo qui. 3 E se qualcuno vi dirà: “Perché fate questo?”, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito”.”. Andarono e trovarono un puledro legato vicino a una porta, fuori sulla strada, e lo slegarono. Alcuni dei presenti dissero loro: “Perché slegate questo puledro?”. 6 Ed essi risposero loro come aveva detto Gesù. E li lasciarono fare.

Lo svolgersi del racconto ci sorprende perché l’evangelista spende ben 7 versetti per parlarci dell’animale che Gesù utilizza per il suo ingresso nella città santa, un puledro (che da Mt 21,5 sappiamo essere un asinello). Un fatto analogo, apparentemente privo di significato, ma a cui è dato ampio spazio, è narrato in Mc 14,12-16, quando i discepoli saranno incaricati di preparare la pasqua (ossia la cena pasquale con il Maestro). In realtà il brano racchiuso tra il 2° e il 6° versetto ha molte risonanze messianiche: Gesù cavalcando un asinello si mostra come colui che realizza diverse profezie legate al re Messia (Zc 9,9;14,4-5; Gn 49,9.11), mentre i vv. 7-8 si riallacciano ad episodi AT di intronizzazione (1Re 1,30-40; 2Re 9,13). Una domanda sorge spontanea: perché Gesù si serve di un asinello? Questo indica un bisogno: il Signore ha bisogno dell’aiuto dei discepoli che glielo procurano, e anche della disponibilità dei proprietari. La sua non è una signoria regale, al contrario. Vi è pure una novità in quanto l’animale è giovane e su di esso nessuno è ancora salito; il giungere del suo regno, di Gesù come Messia non si impone, egli compie le profezie senza clamore e senza pretese. Infine abbiamo una promessa perché tutto ciò che Gesù dice si compie puntualmente (cfr. anche 14,12-16); i lettori di Marco sono invitati a riflettere su quanto accade e a considerare che il senso degli eventi è più profondo di quanto si potrebbe pensare ad uno sguardo superficiale. Quello di Gesù non è un ingresso come tanti, lui non è un pellegrino qualsiasi che si reca nella città santa per la Pasqua, ma qualcosa di più. L’evangelista lo presenta come il Messia che fa il suo ingresso solenne come gli antichi re; è probabile che Gesù abbia voluto compiere questo gesto simbolico al suo ingresso in Gerusalemme (per il vangelo di Marco Gesù si reca una sola volta nella città santa) per indicare la sua identità e il senso di quanto gli stava per accadere, il senso della sua missione e della sua prossima morte.

Lo svolgimento dell’azione, dal ritmo lento, sembra poi guidata dall’esterno: tutto si compie come aveva detto Gesù . Si tratta di una profezia o di un fatto legato ad un accordo previo con i proprietari? Comunque sia tutto avviene secondo le parole di Gesù. e più in profondità secondo il disegno che un Altro ha stabilito. Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra. 8 Molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde, tagliate nei campi. 9 Quelli che precedevano e quelli che seguivano, gridavano: “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! 10 Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!”. Dopo che Gesù è salito sul puledro l’attenzione si sposta da lui a quanto accade intorno a lui; sugli astanti che gettano i mantelli sul puledro e ai suoi piedi (altri riferimenti regali, vedi 1Re 1,30-40; 2Re 9,13), insieme adelle fronde, particolare questo più adatto alla festa delle Capanne che alla Pasqua. Alcuni precedono ed altri seguono (ad indicare la folla anche se non dobbiamo pensare che ci fosse tutta la città) e tutti insieme acclamano: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore . La citazione del salmo 118,25-26 ai vv. 9-10, di per sé era divenuta un saluto abituale per i pellegrini che si recavano a Gerusalemme, anche se l’aggiunta del nostro padre Davide! (citando il salmo 2; la ritroviamo nel NT solo in At 4,25) dà un carattere messianico all’acclamazione. Ma stranamente Gesù non è più al centro dell’attenzione, la sua presenza è minimale: non sappiamo cosa fa’, se dice qualcosa, come reagisce alle acclamazioni; il messaggio però è chiaro. Con questo ingresso solenne e il gesto della cacciata dei venditori dal tempio (subito dopo ai vv. 15-17) egli pone due azioni cariche di significato e che hanno a che fare con il motivo della sua morte (cfr. Mc 14,58). Colui che entra in città è il Messia figlio di Davide anche se il seguito del racconto ci mostrerà che Gesù è un Messia sofferente, che porta su di sé il peccato del mondo e che in obbedienza al volere salvifico di Dio Padre, si umilia sino alla morte di croce (cfr. la seconda lettura Fil 2,6-11). La pericope si conclude con il v. 11 che la liturgia odierna sopprime, ma che è importante nella dinamica della sezione dei capitoli 11-13, dove leggiamo: “Ed entrò a Gerusalemme, nel tempio. E dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l’ora tarda, uscì con i Dodici verso Betània.” Sarà infatti il tempio lo scenario delle cinque dispute di Gesù e dell’insegnamento sul dono della vita che leggiamo in Mc 12,41-44 ad indicare la logica che guida il cammino stesso del Messia, figlio di Davide.

Monastero Matris Domini

Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore…

Dal Vangelo di Giovanni      Gv 12,20-33

18 marzo1In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.

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 “Levate l’ancora, diritta avanti tutta, questa è la rotta questa è la direzione questa è la decisione”. Sono le parole conclusive di una canzone di Jovanotti dove si parla del coraggio e della libertà di fronte una missione da compiere. Parole che possano aiutarci ad entrare nel tema del vangelo di questa domenica. Gesù infatti, nella sua libertà, decide e indica la rotta della sua missione verso la croce e apre ai suoi discepoli la direzione da prendere nella vita, ma andiamo con ordine:

Gesù svela la rotta della sua missione: l’episodio del vangelo avviene subito dopo l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, il contesto è quello della festa della Pasqua e da lì a poco Gesù affronterà la sua passione e la sua morte in croce (il capitolo successivo si apre infatti con la l’ultima cena e la lavanda dei piedi). “E’ venuta l’ora che il figlio dell’uomo sia glorificato”, sono le parole che Gesù pronuncia di fronte la richiesta di alcuni greci di incontrarlo. Tutta la missione di Gesù nel vangelo di Giovanni è orientata verso l’ “ora” cioè il momento dove egli manifesterà la gloria di Dio Padre. Questa “ora” si compie proprio sulla croce che assume un tono di regalità e di vittoria di Dio sul “principe delle tenebre”. L’ora della croce di Gesù è l’ora in cui il chicco di grano, caduto in terra e morendo, produce molto frutto. Troppo spesso, una frettolosa applicazione morale, ha fatto di questa parabola del chicco di grano una metafora per la nostra vita mostrando il fianco a derive ascetiche severe e autoreferenziali. Gesù non sta parlando di noi ma sta parlando della sua missione, della sua croce: il chicco di grano è lui che, attraverso la sua morte, offre a tutti gli uomini i frutti della sua passione! Il vangelo di oggi ci ribadisce ancora una volta il punto di partenza della nostra fede, il punto di partenza per vivere la festa della Pasqua ormai alle porte cioè che è sempre Gesù compie il primo passo nella nostra vita. Senza la croce e la morte di Cristo la nostra vita non potrà portare frutto. La nostra fecondità o sterilità non dipende dalla capacità di fare sacrifici, dalla capacità di sopportare la sofferenza ma dipende innanzitutto dalla capacità di accogliere i frutti della croce di Cristo! Gesù muore in croce per restituirci il frutto della liberazione da tutto ciò che ci confonde, da tutto ciò che è menzogna e che ci rende schiavi.

Gesù muore in croce perché noi potessimo godere del frutto della misericordia infinita di Dio che ci riscatta dal peccato e ci rialza da qualunque situazione pagando lui il prezzo delle nostre colpe. Gesù muore in croce per donarci il frutto della Chiesa chiamata a portare un messaggio di fiducia e speranza a tutti gli uomini. In questi pochi giorni che precedono la Pasqua fermiamoci un po’ di tempo davanti al crocifisso per mettere sulle spalle di Cristo tutto ciò che soltanto con la sua grazia può morire nella nostra vita, tutte quelle scelte di amore che richiedono sofferenza e sacrificio, perché la sua morte doni frutti di libertà e ci riscatti da una vita mediocre.

Gesù ci lascia una direzione e una decisione da prendere: Dopo aver svelato l’ora della sua missione e della sua gloria, Gesù parla ai suoi discepoli “chi ama la propria vita, la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuol servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore”. Gesù nel vangelo di oggi interpella la nostra libertà mostrandoci la direzione per diventare suoi discepoli. E’ una direzione che corre attraverso un terribile e magnifico paradosso: perdere per vivere! Gesù desidera farci dono della sua stessa gloria, non la gloria vana del mondo ma quella autentica che apre la nostra vita alla verità di ciò che siamo chiamati ad essere. Qui il termine “vita” è legato al significato di “amor proprio”.

La nostra vita sarà autentica quando sceglieremo di passare da una logica di possesso, da una logica incentrata su noi stessi, sui nostri progetti, sulle nostre soddisfazioni, sui nostri diritti ad una logica della “perdita”, del dono. C’è una parola che Giovanni usa a differenza degli altri vangeli che funge da presupposto per seguire Gesù: servire! Prima di seguire Gesù dobbiamo decidere di trasformare la nostra vita, con la sua grazia, in servizio, in missione.

Decidere di cominciare a vedere la nostra vita in funzione degli altri, delle persone che il Signore ci ha affidato. La mia vita, i miei amori diventeranno autentici e fruttuosi quando non cominceranno più dalla ricerca del mio bene ma partiranno dalla ricerca del bene dell’altro!

La mia vita sarà autentica quando non partiremo più dai nostri progetti ma dalla ricerca della volontà del Signore portando gli stessi frutti sorprendenti e abbondanti che Gesù compie con la sua morte in Croce!

Il Signore Gesù ci doni la grazia di accogliere i frutti della sua croce e decidere di prendere con coraggio la direzione che apre alla nostra vita!

a cura di Paolo Matarrese