Via Giuseppe Zanardelli, 32

00186 Roma - Italia

+39 06 6840051

Fax +39 06 56561470 segreteria@usminazionale.it

Il Vangelo della domenica

E come Mosè innalzò il serpente nel deserto…

mosè1E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.

Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.

E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio.

……………………………………………………………

Il cammino quaresimale è quasi compiuto, e, con esso, ci siamo inoltrati nel Mistero di Cristo, il Figlio di Dio, fatto uomo, morto, e risorto per la nostra salvezza; questo, il cuore di un mistero di amore, del quale Gesù stesso parla come di una ‘necessità’: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, sono le parole del Maestro, così, è necessario che sia innalzato il Figlio dell’uomo…”.

La frase, fa parte del lungo colloquio notturno tra Gesù e Nicodemo, un fariseo osservante, che faceva parte del sinedrio, quindi, di coloro che, a suo tempo, avrebbero giudicato Gesù; di lui, che sicuramente è una figura storica, parla, solo, Giovanni, l’evangelista attento ai simboli; infatti, Nicodemo, come altri personaggi, è l’icona di quanti sono in ricerca, e si affannano ad uscire dalle tenebre del dubbio, per raggiungere la luce della verità, che non è semplicemente un fatto conoscitivo, ma riguarda tutto il vissuto, fatto di scelte operative: “..chi opera la verità, dice Cristo a Nicodemo, viene alla luce, poiché le sue opere sono state fatte in Dio.”

Nicodemo, andò da Gesù, di notte, precisa il Vangelo; e la notte, in Giovanni, è, spesso, sinonimo di tenebra e di male: Giuda uscì dal cenacolo, mentre era notte; e, alla morte di Gesù, scese la tenebra sulla terra; una tenebra e una notte, che indicano assenza di Dio, lontananza da Lui, o rifiuto di lui, come recita il Prologo del racconto evangelico, rifiuto del Verbo, che è il Figlio di Dio, che si è incarnato per la redenzione di ogni uomo, ma che:” le tenebre non hanno compreso…”(1,5). Nicodemo, dunque, come ogni uomo in ricerca, interroga Gesù, e tra loro si svolge lungo, interessantissimo, dialogo, del quale, oggi, la liturgia della Parola ripropone solo le battute finali, quelle, appunto, che mettono quest’uomo, come ogni altro l’uomo, di fronte allo “ scandalo della croce”, la sfida drammatica, che farà dire a Paolo: “… mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza Dio e sapienza di Dio.” (1Cor 1,22-25).

La croce, centro del Vangelo di oggi, è il segno della sapienza di Dio che ama, segno della potenza dell’infinita misericordia del Padre, pienamente rivelata nel Figlio Gesù: il Redentore dell’uomo.

Ora, Cristo, in questo mirabile dialogo notturno, che parla dell’innalzamento del Figlio di Dio, svela all’anziano membro del sinedrio, il grande mistero dell’amore che salva: “Dio, infatti, sono le sue parole, ha mandato Il Figlio nel mondo, non per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui…”, si salvi, con la salvezza che viene dalla croce: il tragico innalzamento del Cristo, che agli occhi degli uomini parve infamia, ma che, nell’economia di Dio, è inizio della Resurrezione, che include gli uomini e l’intera creazione, la quale, come scrive Paolo: “… nutre anch’essa la speranza di essere liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella gloria dei figli di Dio…”(Rm 8,20-23).

Noi non sappiamo, perché il Vangelo non ne parla, quale presa abbia avuto il discorso di Gesù, sul cuore di Nicodemo; egli, infatti, scompare dal racconto; ma, le parole di Gesù sono, oggi, rivolte a noi, che, ancora, siamo in cammino, noi, sempre alla ricerca della verità, noi bisognosi di salvezza e di amore, e sono, ancora, parole che parlano di croce e, insieme, di misericordia:“ Dio, infatti, ha tanto amato il mondo, da dare il suo Figlio unigenito, perché, chiunque crede in lui, non muoia, ma abbia la vita eterna”.

A queste parole del Signore Gesù, fanno da commento quelle dell’apostolo Paolo, che rileggiamo proprio in questa domenica.

“Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così, bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo…”; la croce di Cristo, e la sua morte su essa, egli stesso la definisce: “necessità”; una necessità difficile da comprendere, se riferita all’onnipotenza dell’Altissimo, ma che si fa’ chiara nella logica di quell’amore, del quale Cristo stesso ha detto: “non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici “(Gv 15,13).

La croce di Cristo è, così, il segno dell’amore che salva, e, come tale, esige una resa, una resa fiduciale da parte dell’uomo, che crede nel Figlio di Dio, Gesù di Nazareth; una resa, che è un profondo atto di fede, come quella che fece esclamare al centurione romano, presente sul Calvario: “Veramente costui era il Figlio di Dio!” (Mt 27,54).

“E’ necessario che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”; guardare a Cristo, accoglierne il dono d’amore, credere ed affidarsi a Lui, è via di salvezza, è dono gratuito che, tuttavia, impegna, a vivere come lui ha vissuto, camminando sui suoi passi, e amando come lui ci ha amati.

Amare come Cristo ci ha amato, può sembrare cosa impossibile alla limitatezza umana; ma così non è, perché, proprio lui, il Maestro, ce ne ha insegnato il modo, in quella sera di Pasqua, quando, davanti ai discepoli stupiti, ” si alzò da tavola, come racconta Giovanni, depose il mantello, prese un panno, se ne cinse, e, versata l’acqua in un catino, incominciò a lavare i piedi dei discepoli…” (Gv13,4ss); un gesto, col quale il Signore insegna, concretamente, ai suoi, e a tutti gli uomini, il dovere di “lavarsi i piedi gli uni gli altri” per amore; l’amore, infatti, è servizio, e si piega sul bisogno dei fratelli, secondo il comandamento dell’amore, che il Maestro ci ha lasciato in eredità, in quella sera, in cui si congedò dai suoi, per andare incontro alla passione e morte: una morte per la resurrezione, una morte, che segna per gli uomini la vera Pasqua, di una vita che si fa nuova in Cristo.

La Pasqua, infatti, per l’evangelista Giovanni, è lì, sul Calvario, dove, il Figlio di Dio morente, effonde sul mondo il suo Spirito (Gv 19,30); è lì, dove ogni uomo rinasce, lì dove lo Spirito ci rigenera; perché è lì, davanti al Crocifisso, che si compie la scelta fondamentale della vita: o con Cristo, o contro di Lui, o la luce o le tenebre,

o l’amore o la condanna, quell’autocondanna, alla solitudine amara, di un’esistenza senza Dio, senza verità, senza amore e senza felicità: quella che viene dal Signore crocifisso e risorto, che ci fa’, assieme a lui, figli di Dio.

 sr Maria Giuseppina Pisano o.p.

Non fate della casa del Padre mio un mercato…

tempioDal Vangelo di Giovanni     Gv 2,13-25

Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divorerà.

Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.

Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.

………………………………………………………

La liturgia ci fa continuare il nostro itinerario quaresimale con alcuni brani del vangelo di Giovanni. Per quest’anno (ciclo B) saranno Gv 2,13-25, il brano odierno, con la descrizione della cacciata dal tempio dei venditori e la promessa da parte di Gesù di un nuovo tempio; nella IV domenica la seconda parte del discorso notturno con Nicodemo, Gv 3,14-21 e la V domenica la richiesta di alcuni greci di vedere Gesù, Gv 12,20-33. Un itinerario volto ad approfondire alcuni aspetti importanti per la fede cristiana, in riferimento alla Pasqua del Signore Gesù. Il testo odierno segue immediatamente il racconto del segno di Cana (Gv 2, 1-12) con cui forma un dittico, ed entrambi si concludono con la fede dei discepoli (cfr. vv. 11 e 22), ed è seguito dall’incontro con Nicodemo (di cui ascolteremo una parte nella IV domenica). La pericope si compone di un versetto introduttivo (v. 13), il racconto del fatto (vv. 14.16), la discussione che ne segue con la richiesta di un segno (vv. 18-22) e un sommario conclusivo (vv. 23-25) che prepara i brani seguenti. Al centro dell’attenzione sta Gesù che si propone come il Figlio di Dio Padre e come il nuovo tempio in cui adorare Dio in spirito e verità (cfr. il testo della samaritana, Gv 4,1-42, proposto nella III domenica nell’anno A).

La liturgia della Parola si completa con il brano di Es 20,1-17 (il testo del decalogo) e la lettura paolina da 1 Cor 1,22-25 dove ci viene ricordato che in Cristo crocifisso troviamo la sapienza e la potenza divina. Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. L’introduzione della pericope fa menzione della Pasqua dei Giudei, espressione tipica di Giovanni, che intende porre una netta separazione tra la festa ebraica e la pasqua cristiana. Per Gesù la festa ebraica era scaduta nel suo significato, passando dal ricordo della liberazione ad un evento di mercato (il commercio degli animali per il sacrifico, favorito dai sacerdoti per il guadagno che comportava). Secondo l’evangelista Giovanni Gesù andò tre volte a Gerusalemme per celebrare tale festa, quella del testo odierno è la prima pasqua (la seconda è narrata in 6,4 in riferimento alla moltiplicazione dei pani; la terza la troviamo in 11,55, appena prima della passione e morte, come nei sinottici, cfr. Mc 14,1ss e paralleli). L’attività di Gesù si svolge nel quarto vangelo soprattutto nella città santa a differenza dei sinottici che invece ambientano il ministero pubblico in Galilea e lo fanno salire a Gerusalemme (la città è situata su una collina) per l’unica pasqua menzionata quella della sua passione, morte e resurrezione. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, 16e ai venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”. Di fronte allo spettacolo poco edificante e ancor meno religioso del commercio nel cortile del tempo, come pure dell’andirivieni di gente ed animali che usavano il cortile riservato ai pagani (dei gentili) come scorciatoia pur raggiungere il monte degli ulivi (cfr. Mc 11,15-17), Gesù richiama il senso profondo del tempio e dell’attività che vi si deve svolgere. Quello di Gesù è un gesto che si rifà a Ml 3,1: “ecco, io manderò il mio messaggero a preparare la via davanti a me e presto entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate” e Zc 14,21: “in quel giorno non vi sarà più mercante nel tempio del Signore“; altri testi profetici deplorano il culto solo esteriore ( Am 5,21-24; Is 11,11-17; Ger 7,21-26). Siamo nella linea dell’escatologia giudaica in cui il Messia avrebbe purificato il tempio. A differenza dei sinottici non definisce il tempio casa di preghiera, ma casa del Padre mio . Si tratta di un distinguo importante: il tempio come dimora di Dio è un dato tipico e tradizionale nell’AT (cfr. Es 25,40; 1Re 6,1; Sal 122,1) e di conseguenza centro del culto a lui dovuto. In questo testo per la prima volta Gesù chiama Dio Padre mio e indirettamente si proclama suo Figlio; affermazione sconcertante per un israelita e che ci fa comprendere quanto Gesù dice sul suo rapporto con Dio contenute nel quarto vangelo (5,17-26; 6,32.37.40; 10,30; 14,10). Se Dio è Padre allora il culto a lui dovuto non può consistere solo in sacrifici materiali, ma dovrà essere un culto spirituale e interiore da vivere nell’amore, secondo le esigenze dell’alleanza stipulata da Dio con il suo popolo (cfr. 1Re 19,10.14). (G. Zavini).

I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divorerà. Questo commento redazionale ci fa capire che il testo è raccontato dall’evangelista alla luce della resurrezione (cfr. Sal 69,10) e in senso profetico; infatti il mutamento di tempo del verbo dal passato al futuro indica che tutta la vicenda di Gesù, che l’evangelista sta per narrare, si svolgerà nel segno dello zelo per Dio. La sua è una vita tutta volta a compiere la volontà del Padre, sino alla fine e in questo senso il testo diventa anche un annuncio della passione di Gesù. Mentre per i sinottici questo episodio è il motivo addotto per condannare Gesù (cfr. Mc 11,18; Lc 19,47-48), in Giovanni è preludio della sua morte. Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: “Quale segno ci mostri per fare queste cose?”. Rispose loro Gesù: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Gli dissero allora i Giudei: “Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?”. Come altrove nei vangeli ( cfr. Mc 8,11; Mt 12,38; 16,1; Lc 11,16,29-30) davanti ai gesti profetici di Gesù (in questo caso l’autorità esercitata sul tempio e su quanto vi accade) i giudei, o più in generale i suoi avversari, chiedono un segno prodigioso a garanzia dell’autorità di Gesù. Ma il segno proposto da Gesù si pone su di un piano completamente diverso: non un prodigio strepitoso, segno di potenza, ma un gesto profetico: Giovanni gioca intenzionalmente sull’ambiguità del verbo farò risorgere (in greco eghéiro che significa sia innalzare un edificio, sia far risorgere un morto). Indicando la sua resurrezione afferma che avrebbe trasformato il vecchio tempio (di pietre) in uno nuovo che avrebbe rivelato la sua divinità. Il tempio si identifica così con il suo corpo; è il segno di Giona di cui parlano anche i sinottici (cfr. Mt 12,38-39; 16,1-4; Mc 8,11-13; Lc 11,16.29; 12,54-56). La risposta del v. 20 ci mostra l’equivoco in cui sono caduti i giudei: essi si riferiscono ai lavori nel tempio, voluti da Erode il Grande; la costruzione era infatti cominciata nel 20/19 a.C. (come attesta Flavio Giuseppe,Ant . XV, 380). Da ciò ricaviamo che l’evangelista pone l’attività di Gesù nel 27/28, data in cui i lavori non erano ancora ultimati anche se la parte essenziale era compiuta. Ma egli parlava del tempio del suo corpo. 22 Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. Ancora due versetti redazionali: l’evangelista precisa il senso delle parole di Gesù come profezia della sua pasqua. Ilcorpo, l’umanità di Gesù, è il luogo della presenza e della manifestazione di Dio in mezzo all’umanità, dunque è il vero tempio. Il culto dovrà d’ora in poi fare riferimento alla sua persona (Gv 1,14; 1,51; 4,20-24). Giovanni parla del corpo di Gesù solo in questo versetto e nei due testi in cui questa profezia si compie: alla deposizione di Gesù dalla croce (tempio distrutto) e alla scoperta del sepolcro vuoto, dopo la sua resurrezione (Gv 19,38; 20,12). Alla luce di tale evento e per l’azione dello Spirito santo, i discepoli ricorderanno queste parole del Maestro: Cristo risorto è il nuovo Tempio, il solo luogo della presenza salvifica di Dio tra gli uomini, il Tempio spirituale. (G. Zevini) La fede nella Scrittura è posta dall’evangelista sullo stesso piano di quella nella parola detta da Gesù, a significare che solo dopo la resurrezione i discepoli compresero appieno la portata delle parole e dei gesti, di tutta la vita di Gesù. Se la morte di Gesù è il segno del suo zelo per Dio, la sua resurrezione inaugura il tempio nuovo, spirituale, in cui si vive una fede senza limiti né barriere, come diceva Isaia (Is 56,7). Per Giovanni il nuovo tempio, sempre attuale e duraturo, è il corpo di Cristo risorto dai morti. Di qui Giovanni conserva la destinazione primordiale del tempio: il luogo della presenza di Dio tra il suo popolo. (Van Den Bussche). Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. 24 Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo. Questi tre versetti costituisco un sommario, come se ne trovano anche nei sinottici, che riassume l’attività di Gesù e ne anticipa il senso, dove si valuta l’uomo sotto l’aspetto della fede e dell’incredulità. Il tema della fede infatti verrà sviluppato nei due capitoli successivi con il racconto del colloquio con Nicodemo (3,1-21), la testimonianza del Battista (3,22-36), la samaritana (4,1-42) e la guarigione del ragazzo (4,43-54 che apre ad una universalità della fede). Per l’evangelista ci sono diversi tipi di fede: alcuni insufficienti, come la fede nel taumaturgo Gesù: molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome (v. 23), che ritroviamo anche in Nicodemo. Altri che si aprono ad un approfondimento (la samaritana che dimostra una fede messianica) ed infine la vera fede nel Figlio di Dio (il Battista, 3,22-36; Maria e i discepoli 2,11.22), quella a cui bisogna approdare. Gesù conosce l’intimo dell’uomo, le sue fragilità e non si lascia ingannare dall’entusiasmo superficiale che segue i suoi segni; egli ha la conoscenza propria di Dio e sa distinguere coloro che accettano appieno le sue parole e la sua persona, senza lasciarsi condizionare dalle apparenze (cfr. Gv 21,17; 1Gv 3,20). Egli attende la risposta di ciascuno e nei capitoli 3 e 4 l’evangelista ci mostra tre esempio significativi: Nicodemo, rappresentante del giudaismo ortodosso, la samaritana appartenente al giudaismo eretico e l’ufficiale romano un pagano. Il segno del tempio che Gesù ha appena offerto, è un gesto che ci richiama all’autenticità del rapporto con Dio, liberando dall’esteriorità in cui il sistema dei sacrifici l’aveva rinchiuso. Il percorso quaresimale è anche per noi un tempo propizio per purificare e rafforzare la nostra fede e vivere il culto a Dio nella libertà e nella verità del vero tempio, che è l’umanità di Gesù Cristo.

Monastero Matris Domini

Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo

Dal Vangelo di Marco           9,2-10

trasfigu1Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

…………………………………………………………………………..

L’episodio evangelico della Trasfigurazione di Gesù è certamente uno dei più studiati, commentati, approfonditi; ben a ragione, data la sua importanza nella vicenda di Gesù e per la nostra spiritualità.

Con tre dei suoi discepoli (Pietro, Giacomo e Giovanni), Gesù sale su un alto monte (probabilmente il Tabor, alto 582 mt.), e lì “fu trasfigurato”, letteralmente “fu trasformato”: le sue vesti divennero bianchissime e accanto a Lui apparvero Mosè ed Elia. In quel momento cioè Egli diventa il Signore luminoso e magnifico esaltato dal Salmo 75/76, a.5: Splendido tu sei, magnifico su montagne di preda) e muta il suo aspetto come Mosè il cui volto fu glorificato mentre parlava con Dio (cfr. Es.34,29) e come sarà per i giusti nel mondo futuro (Apoc. Baruch 51,3-10).

v.3 le sue vesti divennero splendenti, bianchissime……..; il primo termine si può rendere ancor meglio con “sfolgoranti”, perché il verbo greco corrispondente è riferito nell’A.T. allo splendore del sole e delle stelle (cfr. Dan.12,3); quindi è uno splendore accecante; quanto poi al colore bianco, ricordiamo che esso è simbolo dell’appartenenza al mondo celeste.

L’apparizione di Elia e Mosè (cioè i Profeti e la Legge o Pentateuco) accanto al Nazareno ha un’estrema importanza: essi testimoniano che Gesù è il compimento di tutto l’Antico Testamento, che promesse e profezie sono pienamente realizzate in Lui, che egli è il Messia tante volte annunziato e tanto atteso.

La glorificazione di Gesù è poi completata dalla voce del Padre che esce da una nube (consueto simbolo biblico della presenza di Dio), e che proclama: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!” (v.7 b)

I discepoli vedono dunque in Gesù, che fino a quel momento aveva condiviso con loro in semplicità la vita quotidiana, nientemeno che lo splendore della gloria di Dio e ne restano estasiati.

Ora, sulla scorta di alcuni fondamentali criteri di lettura e interpretazione della Bibbia, circa la pagina di Marco possiamo notare quanto segue.

L’episodio della Trasfigurazione richiama evidentemente altri due episodi di Cristofania (=

manifestazione di Cristo): il Battesimo (cfr. Mc.1,9-11 e paralleli) dove lo Spirito scende su di Lui

e il Padre lo proclama suo Figlio amato, e la Resurrezione, testimoniata dalle apparizioni di Cristo.

Questi tre episodi sono collocati all’inizio, al centro e al termine della missione di Cristo. Tale disposizione, unita al n° 3 (simbolo di totalità) vuole indicare come quella gloriosa e divina sia una dimensione fondamentale e permanente del rabbi di Nazareth.

Sempre ad uno sguardo complessivo della struttura del vangelo marciano, salta agli occhi un altro elemento ripetuto tre volte: i preannunci della passione, che troviamo in Mc.8,31, 9,31 e 10,33-34 (e nei passi paralleli dei sinottici): essi scandiscono l’unità letteraria di Mc.8,27 – 10,52 incentrata sui temi della identità di Gesù e della sua sequela. Dunque abbiamo ancora un elemento ripetuto 3 volte e ancora in punti-chiave del vangelo. Evidentemente si tratta di qualcosa di importanza pari a quella dei 3 episodi di glorificazione. Non solo, ma la loro disposizione diciamo così “interposta” o inframmezzata li mette in collegamento.

Ne deriva che la gloria di Gesù trasfigurato è intimamente legata alla gloria che Gesù otterrà, in forza della sua morte, nella resurrezione. E anche la sua messianicità è strettamente vincolata all’evento della croce e della resurrezione: al di fuori di quell’evento Gesù non può essere né capito né proclamato (di qui il famoso “segreto messianico” del vangelo di Marco).

Morte e resurrezione costituiscono infatti un mistero unitario da non scindere, pena la riduzione del Cristo alla sola umanità sia pure eroica (la morte) o alla sola divinità separata e lontana dall’uomo (la gloria pasquale). La trasfigurazione è quindi un’apparizione pasquale anticipata, destinata come quelle post-pasquali ad illuminare e a svelare alla Chiesa il mistero della morte e resurrezione di Cristo.

La lezione che emerge da questa pagina evangelica è davvero fondamentale per ciascuno di noi ed è di grande aiuto per affrontare adeguatamente uno degli scogli più duri e resistenti della nostra esistenza: il dolore, la sofferenza, le difficoltà che purtroppo segnano la vita di ogni uomo.

Ebbene, nella sua straordinaria misericordia, Dio ha voluto donarci una “carta di riserva”, un sostegno, una straordinaria consolazione: il pensiero che il dolore, il negativo, il male, prima o poi finiscono, mentre quella gloria-gioia indefettibile che è simboleggiata dalla luminosità sfolgorante di Gesù nella Trasfigurazione, è la sola che ha davvero l’ultima parola, sullo sfondo di una Vita che – come ha dimostrato il Signore nelle apparizioni – alla fine è sempre vittoriosa sulla morte e sullo sfondo di una gloria che sarà propria di tutti i giusti

 

 

Convertitevi e credete al Vangelo…

Dal Vangelo di Marco  Mc 1,12-15

desrtoE subito lo Spirito lo sospinse nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.

Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».

…………………………………………………

In questa prima domenica di Quaresima sembra che Gesù ci indichi come vivere il grande dono della Quaresima. Un tempo davvero di grazie che non può essere consegnato alla normalità, troppe volte senza senso.

E per ottenere che questo tempo, e non solo, sia vissuto bene, il Vangelo ci avverte:

“In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto ed egli vi rimase quaranta giorni, tentato da satana: stava con le fiere e gli angeli lo servivano. Dopo che Giovanni (Battista) fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il Vangelo di Dio, e diceva: ‘Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al Vangelo” (Mc. l, 12-15)

Un programma denso di significato, ma che Gesù riassume con due parole dal contenuto difficile ma innovativo: convertirsi e credere al Vangelo!

Ma sapremo, in ogni modo, pone al centro della nostra vita, in questo tempo santo, l’urgenza di una necessaria conversione, con la guida del Vangelo? Lasciamoci condurre dalle parole a noi sempre preziose di Paolo VI.

“Dobbiamo dunque convertirci al Signore. Qui sarebbe necessaria un’analisi previa. Che cosa vuol dire questa parola «conversione», alla quale la nostra mente moderna è così poco disposta, fino quasi a cancellarla dal dizionario stesso della vita spirituale? Qual è il vero significato di tale richiamo? A cominciare da quello etimologico, molto semplice, convertirsi vuol dire cambiare strada, scegliere una direzione, un indirizzo. Ebbene la Quaresima chiama tutti a rivolgersi a Dio; a tracciare fra noi e il Signore una linea diretta, quella completa attenzione che molte volte è distratta dalle cose profane, con le faccende quotidiane, gli affanni della vita.

Occorre, invece, che risplenda su tutta questa esperienza così complessa, talvolta confusa e talvolta non del tutto limpida, lo splendore del raggio di immediatezza che ci indica Iddio.

E non si tratta di muoverci verso di Lui materialmente, fisicamente: sarebbe già gran cosa, perché ciò implica la pratica degli esercizi che a Dio ci portano.

C’è assai di più. Sappiamo tutti che la parola «conversione» indica un senso di mutamento, di rivolgimento, di metànoia: il rinnovarsi, cioè. Ora ed è ciò che più conta – tale rivolgimento non tocca tanto le cose esteriori, le abitudini, le vicende a cui è legata la nostra esistenza, bensì, invece, la cosa tanto nostra, e tanto poco nostra: il cuore.

C’è non poco da cambiare dentro di noi: è necessario rimodellare la nostra mentalità; avere il coraggio di entrare fin nel segreto della nostra coscienza, dei nostri pensieri, e là operare un cambiamento. Questo, inoltre, deve essere così vivo e sincero da produrre – e siamo ancora al contenuto della parola «conversione» – una novità.

Qui sta l’esigenza prima del grande esercizio ascetico e penitenziale della Quaresima. Allora ci chiediamo: che cosa fare per ottenere un tale risultato e come comportarci?

La risposta è ovvia: entrare in se stessi, riflettere sulla propria persona, acquisire una nozione chiara di quel che siamo, vogliamo e facciamo; e, a un certo momento – qui la frase drammatica, ma risolutiva – convertire, rompere qualche cosa di noi, spezzare questo o quell’elemento che magari ci è molto caro ed a cui siamo abituati, sì da non rinunciarvi facilmente.

Il termine «conversione» entra in queste profondità e dimostra queste esigenze.

E non è tutto. Stabilito il rinnovamento, è d’uopo incominciare di nuovo, far sorgere in noi un po’ di primavera, di rifioritura; una manifestazione anche esteriore del fenomeno verificatosi all’interno del nostro essere. Si diceva poco fa’ che ricordare queste nozioni a chi già conosce le vie del Signore, ha ormai vissuto le ore decisive ed ha orientato nella maniera giusta la sua vita, sembrerebbe cosa superflua, convenzionale e quasi retorica. Così non è: perché tutti abbiamo sempre bisogno di convertirci.

C’è un bel paragone, addotto da esperto maestro di spirito. Esso si riferisce al navigante il quale deve, di continuo, rettificare la guida del timone, e perciò guardare che la direzione sia sempre quella esatta indicata dalla bussola. Per sua natura, la nostra vita è incline a deviare. Siamo volubili, fragili; i nostri stati d’animo sono contraddittori, successivi, complicati, e soggetti agli stimoli esteriori, al punto che la nostra rettitudine interiore ne risulta compromessa.

È perciò logico, indispensabile ad ogni stagione ed anno, ad ogni Quaresima, riportarci al buon cammino primitivo se già fu determinato; trovare la direzione giusta se non fosse ancora allineata perpendicolarmente verso il Signore. A così alta finalità mirano i doni e i carismi che la santa Quaresima ci offre. Come si fa a convertirsi?

Il primo passo – tutti lo sappiamo – consiste nell’ascoltare, sentire il richiamo e orientare la nostra mente là donde parte la voce. Questa voce è la parola di Dio, che deve risuonare sempre nuova, e quale eco personale che il Signore suscita nelle nostre anime.

Oh, come piacerebbe sostare in conversazione con ciascuna delle persone qui presenti e chiedere se hanno questa capacità di udito, se ascoltano la parola divina, a cominciare da quella che arriva dal di fuori con la sacra predicazione, che ora, nella Quaresima e nella riforma liturgica, diviene tanto organizzata, premurosa, sollecita, urgente. Abbiamo tutti questa indispensabile ricettività? o non forse imitiamo anche noi tanti superficiali, allorché mormorano: sono cose già note, già sentite, non sono per me… e così via? (3 marzo 1965). “Pregare non significa macinare ‘avemaria’ e poi essere lontani dalla legge del Signore; non è fare una doppia vita: fare delle scelte comode. Pregare significa soprattutto aderire alla volontà di Dio;

entrare nella logica del Vangelo che è la logica della povertà, la logica della accoglienza, la logica del servizio, la logica della fiducia, la logica della speranza.

Logica di SPERANZA .. soprattutto nei momenti difficili, quando le cose vanno di traverso, quando la salute non c’è più.

Coltivare la speranza significa non darsi mai per vinti: significa sapere che Dio è più forte di tutti i nostri problemi, e che alla fine la spunta; significa sapere infine che la morte non è l’ultimo capitolo della vita .. Questo significa preghiera e speranza”. (Tonino Bello)

 

Se vuoi, puoi purificarmi!

Dal Vangelo di Marco                      Mc 1,40-45

lebbra1Venne da lui un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.

……………………………………………….

Con questo miracolo ha termine il capitolo primo del vangelo di Marco. Al termine della giornata tipo di Gesù a Cafarnao abbiamo un altro miracolo che è narrato un po’ come una risurrezione. Con il capitolo secondo avremo poi le cinque controversie galilaiche (2,1-3,6), in cui Gesù si pone apertamente in contrasto con le tradizioni del suo popolo (remissione dei peccati, prendere cibo con i peccatori, il digiuno, il sabato).

In quel tempo venne da lui un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Veniva considerata lebbra qualsiasi malattia della pelle che si manifestasse con macchie bianche, pustole o altre manifestazioni esterne persistenti. Per evitare un eventuale contagio e in base ai rigidi principi di purità rituale richiesti dalla religione ebraica ai tempi di Gesù, il lebbroso veniva escluso da qualsiasi attività sociale e dai contatti con le persone sane. I lebbrosi erano costretti a rimanere al di fuori dei centri abitati, dovevano velarsi il volto come per il lutto e se qualcuno si avvicinava loro dovevano avvertirlo della loro triste condizione e gridare “Impuro, impuro!” (Lv 13,45, che fa parte della prima lettura di questa domenica). Si trattava davvero di una condizione di “morti viventi”, drammaticamente sottolineata dalla degenerazione delle loro membra dovuta alla malattia. Per di più, secondo la mentalità biblica, essa veniva vista come il castigo per peccati particolarmente gravi, quindi sul malato gravava anche il peso del senso di colpa. Il lebbroso di questo brano di Vangelo sa bene tutte queste cose eppure osa avvicinarsi a Gesù. Riconosce la superiorità del Signore poiché si inginocchia davanti a lui e lo supplica. Chiede di essere purificato, cioè di vedere la sua pelle e la sua carne integra, ma anche di essere perdonato dai suoi peccati, liberato da tutto ciò che lo tiene lontano da Dio e dagli uomini.

Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». In quattro verbi vediamo l’azione di Gesù nei confronti della lebbra. Gesù ha compassione di lui, letteralmente “ha viscere di tenerezza”. Come in altri episodi del vangelo di Marco, Gesù si lascia coinvolgere dalla situazione di miseria in cui si trova l’uomo. In alcuni codici invece della compassione è scritto che Gesù si adirò. Egli si sarebbe dunque sdegnato e avrebbe lottato contro il male. La seconda azione è “tese la mano”, il gesto del Dio liberatore nell’Esodo. La mano del Signore che si stende per agire è potente e può compiere grandi cose. Il terzo verbo è “lo toccò”. Gesù sapeva bene di toccare un lebbroso e che questo gesto lo avrebbe reso impuro. Eppure lo compie, prendendo su di sé la malattia, il peso del peccato, l’emarginazione di quell’uomo. Infine Gesù parla, afferma la sua volontà di guarire l’uomo. Questo modo di fare (gesto e parola) è stato ripreso nella celebrazione dei sacramenti. E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. La lebbra scompare subito, la pelle del malato ritorna sana e integra. Il gesto di Gesù è potente e scaccia anche una malattia terribile come la lebbra. E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito. E’ strano questo atteggiamento di Gesù. Egli rimprovera l’ex-lebbroso e lo manda via e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». Colui che guariva dalla lebbra doveva andare dal sacerdote, che costatata la guarigione reintegrava la persona nella sua famiglia e nella vita sociale. Gesù si mostra così osservante delle tradizioni ebraiche, anche se nelle controversie galilaiche si vedrà come è libero nei confronti dei peccatori e dell’osservanza del sabato, tanto per fare un esempio. Troviamo qui per la prima volta il segreto messianico richiesto anche agli uomini e non solo ai demoni. Gesù dice al lebbroso di non raccontare il miracolo di cui è stato beneficiario. La vera identità di Gesù si riconosce sulla croce e non dai suoi miracoli.

Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte. Ovviamente il lebbroso non tace e la fama di Gesù guaritore si diffonde, tanto che egli non può più rimanere in città.

Monastero Matris Domini

La fece alzare prendendola per mano…

Dal Vangelo di Marco       Mc 1,29-39

suoceraE subito, usciti dalla sinagoga, andarono nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.

Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.

Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.

……………………………………………………………………………………

Si conclude con questo brano la giornata di Gesù che Marco ha iniziato al versetto 1,16, chiudendo la descrizione dell’azione potente e della predicazione di Gesù, visti come un tutto. Il piccolo sommario costituito dal versetto 39 ce lo una conferma. Appaiono nel testo altri nuovi temi tipici dell’evangelista: la casa e l’incomprensione dei discepoli. Il brano si divide in tre episodi: 29-31 guarigione della suocera di Simone; 32-34 sommario con guarigioni; 35-39 preghiera di Gesù e partenza da Cafarnao.

 In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. Tutto il brano è composto da brevi frasi collegate tra loro dal kai greco (e); l’evangelista stabilisce un collegamento con l’episodio precedente annotando che Gesù e coloro che lo accompagnano, hanno lasciato la sinagoga; essi entrano ora nella casa di Simone. I discepoli sono gli stessi citati ai versetti 16-20 così che si ha l’impressione che il testo abbia in origine seguito da vicino l’episodio della loro chiamata. Il riferimento alla casa ha comunque un sapore ecclesiale: in Marco la casa è il luogo in cui Gesù parla ai discepoli. Inoltre la chiesa primitiva aveva nelle case il luogo dell’incontro liturgico e della catechesi.

La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Si pensa che Simone, originario di Betsaida (cfr. Gv 1,44), si fosse stabilito dopo il matrimonio nella casa della suocera a Cafarnao; entrati in casa i discepoli mettono al corrente Gesù della situazione della donna. Il verbo utilizzato per indicare lo stato della malata katakeimai (usato raramente, in Mc anche in 2,7) indica una malattia grave; la stessa idea è suggerita dal fatto che essa avesse la febbre (cfr. Gv 4,52).

Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Gesù non parla, ma agisce: si avvicina, le prende la mano e la fa alzare (uso del verbo della resurrezione egheiro), guarisce per forza propria, senza neppure l’uso di una preghiera.

L’immediato recupero della salute è indicato dal fatto che essa si mise a servirli (tutti i presenti); abbiamo qui l’unico caso nei vangeli di un miracolo in ambito familiare, privato per così dire, il cui ricordo è forse legato alla figura di Pietro.

Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Terminato il giorno di sabato, gli abitanti di Cafarnao vengono alla casa di Simone. L’indicazione temporale è tipica di Marco e collega i vari avvenimenti in un’ideale giornata che per l’evangelista acquisita un valore particolare per indicare chi è e cosa fa Gesù. Il v. 33 è nello stile di Marco, come l’utilizzo di diversi termini nei vv. 32-34 (città, malattie, curare e naturalmente il divieto di parlare per i demoni, vedi pericope precedente). La notizia della guarigione nella sinagoga provoca l’arrivo di tutti i malati.

Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano. E’ importante notare che se tutti i malati vengono a Gesù egli ne guarisce molti. Se nell’azione potente di Gesù si manifesta la basileia di Dio non è però sufficiente andare da lui per ricevere la guarigione, né tantomeno per capire chi è e la rivelazione che egli porta. Il piccolo sommario costruito da Marco ripresenta sinteticamente le guarigioni appena narrate (la suocera di Pietro e l’indemoniato della sinagoga) ed è schematico e generico. Forse rispecchia anche la situazione in cui si vennero a trovare i discepoli nella loro predicazione dopo la resurrezione di Gesù.

Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Il terzo brano del testo che stiamo esaminando ci presenta Gesù in preghiera, un aspetto importante e non ancora messo in luce. Anche qui l’evangelista usa un’indicazione temporale duplice e indica un luogo particolare. La preghiera di Gesù, sembra suggerire Marco, è strettamente legata alla predicazione.

Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». L’azione dei discepoli, indicata con un verbo che ha una connotazione negativa, e la loro richiesta mettono in luce la loro incomprensione della missione di Gesù da una parte e dall’altra delle motivazioni non proprio chiare. Questo tema verrà ripreso da Marco ed è un elemento che ci fa riflettere anche sul nostro modo di comprendere il Signore Gesù e il suo vangelo.

Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». è Gesù ha spiegare qual è la sua missione: la predicazione (cfr. 1,14-15) che non può limitarsi ad un solo luogo. La portata dal verbo uscire usato nel testo, è discussa, certo significa più che lasciare la città di Cafarnao, ma non sembra giungere al significato trinitario (la processione del Verbo dal Padre).

E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni. Siamo così giunti al versetto finale di questa sezione. Una breve sommario in cui riappare la Galilea, come orizzonte dell’azione di Gesù, e la sua predicazione. Interessante la precisazione nelle loro sinagoghe che ha sicuramente un riferimento alla situazione della prima comunità cristiana più che a Gesù stesso. Sarà infatti l’attività missionaria della prima generazione ad avere la sinagoga come punto di partenza (cfr. Atti)

Monastero Matris Domini

 

Taci! Esci da lui!..

Dal Vangelo di Marco     Mc 1,21-28

SpiritoGiunsero a Cafàrnao e subito Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!». La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.

……………………………………………

La pericope odierna continua la descrizione dell’azione di Gesù, soffermandosi sul suo insegnamento e su di un episodio di esorcismo, che ha un significato molto particolare per l’evangelista Marco. Egli infatti vi riconosce un’attività specifica del Messia e il segno chiaro dell’instaurarsi della basileia divina che vince il potere del male. Ed entrano a Cafarnao; ed (egli) subito, entrato di sabato nella sinagoga, insegnava. L’azione si sposta dal lago (1,16ss) alla cittadina di Cafarnao, luogo in cui abita Simone e che diventerà in un certo senso la città di Gesù. Come ogni pio israelita egli partecipa al culto del sabato, ogni adulto poteva essere chiamato a commentare il testo della Scrittura letto nella sinagoga. L’evangelista ci informa che egli insegnava: l’insegnamento di Gesù ha caratteristiche particolari, sembra un suo atteggiamento tipico (vedi anche il testo degli altri vangeli sinottici). E stupivano del suo insegnamento; infatti, insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. Si tratta di un insegnamento nuovo e fatto con autorità (exousia); visto che il contenuto dell’insegnamento è già stato indicato in 1,15 ora non sono riportate le parole di Gesù. La novità sta forse nell’autorità che caratterizza il suo insegnamento? Oppure nel contenuto? Sembra che la forza delle parole di Gesù venga da una parte dalle azioni potenti che le accompagnano (vedi il seguito del brano), sia dal fatto che Gesù parla per diretta autorità e non si limita a spiegare la legge e a riportare la tradizione (vedi più avanti in Marco 2,1ss) come fanno gli scribi. Dopo aver notato, nell’episodio della chiamata dei discepoli, la novità del discepolato con il rabbino Gesù, ora l’evangelista indica esplicitamente la differenza tra il suo insegnamento e quello degli scribi, gruppo di rilievo al tempo di Gesù, non solo per il loro ruolo di guide religiose. In Marco gli scribi sono sempre contrapposti a Gesù, sia quando sono citati da soli (2,6; 3,22; 9,11, ecc.), sia quando sono affiancati da farisei (2,16; 7,1.5) o sommi sacerdoti (8,31;10,33; 11,27, ecc.). Questi primi due versetti si collegano a quello conclusivo di questa pericope e il valore del v. 22 si distende su tutta la sezione (che si conclude a 3,12). E subito, c’era nella loro sinagoga un uomo con uno spirito immondo, e gridò 24 dicendo: “Che c’è tra noi e te, Gesù Nazareno? Sei venuto per farci perire? So chi sei tu, il Santo di Dio!”. L’attenzione si sposta subito su un indemoniato, ma più che all’uomo posseduto è sullo spirito immondo che si concentra il testo. Esso si sente minacciato da Gesù, dalla sua venuta e ne svela il nome; abbiamo qui un riferimento a testi dell’A.T. (Gdc 11,12; 2 Sam 16,10; 1 Re 17,18; 2 Re 9, 18) dove si mette in luce la contrapposizione che gli spiriti impuri stabiliscono con l’interlocutore. La denominazione spirito immondo è tipica in Marco (ricorre 12 volte) insieme a demonio. Il titolo “Santo di Dio” sembra far riferimento all’attività carismatica di Gesù che si mostra negli esorcismi. La forza della basileia di Dio si manifesta appieno nel confronto con i demoni e per questo Marco indica l’esorcismo come la prima azione potente che accompagna l’insegnamento di Gesù. L’insistenza dell’evangelista sugli esorcismi attuati da Gesù attesta l’importanza che egli vi attribuisce, ma anche la storicità di questa attività. Inoltre ricordiamo che proprio in base alla sua attività di esorcista (in Marco 3,22 e paralleli) Gesù sarà accusato dai suoi avversari. E Gesù lo minacciò, dicendo: “Fa silenzio ed esci da costui!”. Ci troviamo per la prima volta di fronte alla consegna del silenzio sull’identità di Gesù, che caratterizza la prima parte del testo di Marco (il cosiddetto segreto messianico); in riferimento ai demoni esso ha però un carattere specifico. Infatti essi non intendono fare una professione di fede, ma manipolare il potere del suo nome divino. Comunque questa affermazione risulta come una manifestazione dell’identità di Gesù. I verbi usati mettono in rilievo la contrapposizione tra Gesù e il demonio che viene costretto, con un comando imperioso (e dunque solo con la parola), prima a tacere e poi ad andarsene.

Alcuni esegeti vedono qui un collegamento con l’autorità di JHWH in quanto viene usato il termine minacciare (epitiman che rivedremo in 4,39 e 9,25) usato nella bibbia greca (dei LXX) per indicare il rimprovero d’autorità (J. Ghilka). E lo spirito immondo uscì da lui, contorcendolo e gridando a gran voce. Risulta interessante il confronto con il testo parallelo di Lc 4,31-37, in cui si afferma (v. 35) che il demonio uscì da quell’uomo: “senza fargli alcun male“. Marco ci mostra in modo drammatico il potere del male e la vittoria di Gesù accentuando la forza dello scontro. Ritroviamo questo accento anche in occasione del ragazzo epilettico (9,14-29, in particolare i vv. 26-27). La sconfitta del demonio attesta l’arrivo della basileia, della signoria di Dio e l’azione potente di Gesù rende esplicita la sua parola (DV 2), la buona notizia. E tutti restarono stupiti, tanto che si chiedevano tra loro, dicendo: “Che è questo? Un insegnamento nuovo, (fatto) con autorità! Comanda anche gli spiriti immondi, e gli obbediscono!” Viene ripresa la constatazione del v. 22, che bisogna notarlo, è di natura generale e non si riferisce solo all’episodio appena narrato. L’autorità di Gesù è messa in riferimento esplicito all’azione di esorcismo; i presenti si domandano con stupore e interesse chi è Gesù. La prima letture proposta in questa domenica (Dt 18,15-20) è un riferimento implicito a vedere in lui il profeta pari a Mosè, atteso da Israele. L’impegno di Gesù contro le forze del male non è riferito solo all’episodio appena narrato, ma nell’intenzione dell’evangelista si estende a tutta la sua attività (vedi v. successivo) e alla sua missione. E la sua fama uscì subito ovunque, in tutta la ragione intorno della Galilea. Abbiamo di nuovo una sottolineatura dell’evangelista per la Galilea e un’amplificazione dello stupore che dai presenti si estende alla regione.

Monastero Matris Domini

E subito lasciarono le reti e lo seguirono.

Dal Vangelo di Marco   Mc 1,14-20

reti1

Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».

Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.

……………………………………………………..

La liturgia ci propone in questa terza domenica dell’anno B la pericope che segue immediatamente la trilogia iniziale (predicazione di Giovanni Battista, battesimo di Gesù e tentazioni nel deserto) e che apre la prima sezione di questo vangelo 1,14- 3,7a). Il testo si compone di due parti: un sommario introduttivo a questa sezione (vv.14-15) e la chiamata dei primi quattro discepoli (vv. 16-20) che costituisce il parallelo del testo giovanneo che abbiamo meditato la domenica scorsa (Gv 1,37-42). Si tratta del primo episodio o quadro di una tipica “giornata di Gesù” che Marco ci descrive nei vv. 16-39 del primo capitolo. Appaiono alcune caratteristiche tipiche dell’evangelista tra le quali sottolineiamo la collocazione in Galilea e il Regno di Dio. E dopo che Giovanni fu consegnato, Gesù venne nella Galilea, predicando il vangelo di Dio L’evangelista si premura di sottolineare che Giovanni è uscito di scena prima di parlare dell’attività di Gesù che viene situata in Galilea, luogo geografico ma soprattutto teologico in Marco. L’uso del verbo consegnare serve però a creare un legame tra Gesù e il suo precursore, che hanno in comune l’attività di predicare e il destino di morte. Mentre al v. 1 si parlava di vangelo di Gesù Cristo, qui il vangelo predicato da Gesù in persona è detto di Dio e ciò costituisce un interessante collegamento tra il vangelo stesso e la persona di Gesù. e dicendo: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo”. Il contenuto sintetico del versetto precedente è in certo modo spiegato ora dove due dittici ne esplicitano il contenuto: il tempo (kairos) è giunto al suo termine alla pienezza, ossia è giunto il momento fissato da Dio per l’avvento della sua signoria, infatti essa, il regno (basileia) è vicino. Gli esegeti discuto se questa affermazione sia da intendere in senso escatologico: è iniziato il tempo in cui si instaura il regno che avrà la sua compiuta realizzazione alla fine dei tempi; oppure in senso attuale: siamo già nel tempo ultimo. Parrebbe che le due cose siano entrambe vere: con la presenza di Gesù si rende effettivamente presente il regno di Dio, anche se esso attende ancora la sua pienezza: il già e non ancora che anche la liturgia ci fa sperimentare ogni giorno nella chiesa. Alla chiesa spetta il compito di tener viva la consapevolezza della presenza del regno di Dio e insieme la sua attesa. Infatti Marco non usa il termine kronos per parlare di questo tempo, ma appunto kairos, il tempo propizio, della salvezza; nello stesso tempo non si può affermare che il tempo della chiesa, della comunità che crede in Gesù, sia equivalente al regno di Dio o si identifichi con esso. Il riferimento a Is 52,7 e 61,6 è importante per comprendere lo sfondo biblico di questo annuncio del regno e il ruolo di Gesù. Come la pienezza del tempo sta al regno di Dio, così la conversione sta al credere (J. Gnilka). L’invito alla conversione sarà ripreso, nel testo di Marco, anche dei dodici (6,12) e il termine scelto metanoia ha un riferimento profetico e indica non un semplice cambio di opinione, ma un mutamento radicale della vita, imposto dalla presenza del regno di Dio, e la richiesta più impegnativa è quella della fede. Credere al vangelo è un tema proprio del vangelo di Marco che si traduce in un rapporto personale e di fiducia del credente con Gesù. E’ interessante notare che convertirsi è sempre preso in assoluto, senza un riferimento specifico e in questa domenica è pure il tema della prima lettura (Giona 3,1-5.10). Abbiamo in questo versetto un eco delle parole stesse di Gesù? Gli esegeti discutono, ma in questo versetto possiamo cogliere il contenuto della sua predicazione su regno (basileia). E mentre passava lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, il fratello di Simone, che gettavano (la rete) nel mare: erano, infatti, pescatori. Dopo il sommario l’evangelista sembra voler esplicitare l’attività di Gesù e cosa significa convertirsi e credere e lo fa presentando una giornata tipo contrassegnata da diverse attività: chiamata dei discepoli (il testo odierno), esorcismi e guarigioni, preghiera e predicazione itinerante, che vedremo nelle prossime domeniche. Il contesto della chiamata dei discepoli nel brano di Marco è molto diverso da quello che abbiamo meditato domenica scorsa in Giovanni e anche l’andamento dell’episodio richiama la nostra attenzione su aspetti differenti. La presenza del fatto in tutti i vangeli ne conferma la realtà storica; ogni evangelista tuttavia guarda la chiamata da un punto di vista specifico. Qui il racconto è ben costruito e mette al centro Gesù (che prende l’iniziativa) che chiama i quattro in una situazione quotidiana (mentre lavorano). Il testo richiama lo schema di vocazione dell’A.T. (per esempio la chiamata di Eliseo 1Re 19) anche se vi sono delle differenze. La chiamata può essere collegata alla missione che Gesù darà ai dodici in 6,7, inviati in coppia; Simone la riceverà una seconda volta (8,33) dopo un episodio critico; è comunque Simone il primo discepolo nominato da Marco che lo cita nuovamente al termine del vangelo (16,7). E disse loro Gesù: “Venite dietro a me, e vi farò diventare pescatori di uomini”. Gesù passa, vede e chiama con un comando: vediamo il modo tipico dell’evangelista di raccontare attraverso la descrizione del comportamento umano. Pescatori di uomini è un’espressione quasi sicuramente di Gesù e riflette la prassi missionaria della prima comunità cristiana: i chiamati sono destinati all’attività di reclutare altri uomini e donne. La definizione dei credenti come pesci entrerà nel linguaggio della comunità cristiana delle origini (vedi Lc 5,6 e Gv 21,6). E subito, lasciando le reti, lo seguirono. Appare sorprendente questo modo di procedere, molto probabilmente la conoscenza di Gesù fu graduale, ma ciò non toglie che la sequela di lui ha caratteristiche specifiche. A differenza dei rabbini è Gesù che chiama con autorità e i discepoli imparano a conoscere lui e la sua dottrina (8,34). Del resto la citazione dei nomi propri, del luogo e del lavoro fanno pensare ad un evento reale anche se il racconto è schematizzato. E, avanzando un po’, vide Giacomo (figlio) di Zebedeo e Giovanni, suo fratello, anche loro nella barca, mentre rassettavano le reti; La seconda coppia di fratelli si affianca alla precedente in una frase ben costruita che evidenzia come il testo abbia una sua armonia e se pur precedente alla composizione di Marco, sia stato sin dall’inizio un tutto. L’evangelista sembra aver introdotto il luogo e il tempo, dandoci una specie di modello ideale della chiamata. e subito li chiamò; ed (essi), lasciando il loro padre Zebedeo nella barca, con i salariati, andarono dietro a lui. La citazione dell’abbandono del padre, pur mitigata dalla presenza di persone che lavoro con lui, sottolinea la radicalità della scelta dei due discepoli. Lo schema della chiamata si ripeterà più avanti con con Levi (2,14). Ricordiamo anche che i due discepoli, con Pietro, avranno lungo tutto il vangelo un ruolo importante e di primo piano (trasfigurazione 9,2ss, discorso escatologico 13,3.26; ma anche 5,37 e 14,33).

Monastero Matris Domini

Venite e vedrete

Dal Vangelo di Giovanni       Gv 1, 35-42

14 gennaio1Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa Maestro –, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio.

Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro.

……………………………………………..

II tema di oggi è quello della chiamata. Già nella prima lettura vediamo il giovane Samuele che, nella notte, si sente chiamare tre volte per nome e pensa che sia il profeta Eli, ma questi capisce che a chiamarlo è il Signore e gli dice: “Vattene a dormire e se ti chiamerà ancora, dirai: Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta”. E Samuele fece così e divenne poi un grande profeta.

“Andate, seguite Lui!”

Ogni esistenza è già una prima chiamata: Dio ci ha tratti dall’abisso vertiginoso del nulla e, dandoci l’essere, ci ha dato anche un progetto da compiere, un disegno da realizzare che è addirittura disegnato “sul palmo delle sue mani” (Isaia 49). E’ questo il senso della nostra vita: collaborare a un grande progetto che Dio ha da tutta l’eternità su ognuno di noi.

Il Vangelo ci parla della chiamata di Giovanni e Andrea: “Il giorno dopo il Battista stava ancora là con due dei suoi discepoli e fissando lo sguardo su Gesù che passava disse: Ecco l’Agnello di Dio! E i due discepoli, sentendolo parlare così seguirono Gesù”. Stupefacente questa umiltà del Battista: prima si era definito solo una voce che grida nel deserto e ora è solo più un dito puntato che indica un Altro. E lo indica a due dei suoi discepoli che lo abbandonano per seguire il nuovo Maestro. Avrà sofferto nel vederli andar via, ma non fa nulla per trattenerli, sa che lui deve diminuire per lasciar crescere il vero Maestro. Sa che lui è solo l’amico dello sposo, ma lo sposo è un altro. Quale esempio di sovrana libertà e di totale distacco da se stesso! Sublime grandezza di Giovanni!

“Dove abiti?”

E i due discepoli del Battista iniziano a seguire quel Nazareno che trasformerà totalmente la loro vita. Per questi uomini di Galilea inizia qualcosa di radicalmente nuovo: la salvezza è entrata nella loro vita e non ne uscirà mai più! Quella forza nuova che è entrata nel mondo, continuerà a rimanervi fino alla fine dei secoli. Quella stessa voce che ha chiamato i primi discepoli continuerà a chiamarne infiniti altri, di ogni razza, popolo, lingua e nazionalità. Continuerà a risuonare fra gli uomini e donne di tutti i tempi e ad attraversare i secoli senza che questi possano coprirne il suono o offuscarne il ricordo, ma la rivestiranno di un manto di universalità senza confini.

“Gesù allora si voltò e vedendo che lo seguivano disse: che cercate? Rabbì dove abiti? Venite e vedrete”. Ecco Dio che entra nella storia degli uomini. E vi entra mentre stanno vivendo la loro vita di sempre, si presenta alla loro riva per invitarli a diventare collaboratori del suo piano di salvezza.

“Venite e vedrete”. E noi?

E si presenta alla nostra riva, a noi discepoli di oggi per rinnovare il suo invito. Anche a noi dice: “venite e vedrete!” E’ sempre Lui che si presenta per primo, ma siamo sempre noi che dobbiamo lasciare le nostre reti e i nostri appigli per seguirlo. Vedremo in seguito che anche altri apostoli, appena ebbero udito la voce del Maestro, lasciarono subito la barca, le reti e il padre, per seguirlo. Segno che da Gesù emanava veramente un fascino straordinario, assolutamente unico, che faceva vibrare le corde nascoste del cuore umano. Incontrando il Suo sguardo, quei primi discepoli capirono sicuramente di essere infinitamente amati e sentirono che valeva la pena di lasciare tutto pur di continuare a incontrare quello sguardo e sentire quella voce, unica al mondo, che veniva da “oltre”. E parlava un linguaggio divino. Di colpo capirono che Colui che li chiamava non era più soltanto l’Uomo di Galilea, ma lo splendore della gloria del Padre, l’eletto, l’inviato, Colui che, solo, aveva parole di vita eterna. Andarono dunque e si fermarono presso di Lui. Per sempre!

Monastero Juana Coeli

Tu sei il Figlio mio, l’amato…

battesimoDal Vangelo secondo Marco            Mc 1,7-11

In quel tempo, Giovanni proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo». Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».

……………………………………………….

Riprendiamo il vangelo di Marco, di cui avevamo letto l’inizio la seconda domenica di Avvento. La nostra lettura ripete gli ultimi due versetti del primo capitolo (vv. 7-8), quelli in cui è riportata con discorso diretto la predicazione di Giovanni Battista e continua con il racconto del battesimo di Gesù. Marco è troppo breve e sintetico per poterci accompagnare passo passo per tutto l’anno liturgico. Già nel tempo di Natale non lo abbiamo potuto leggere e di nuovo domenica prossima dovrà essere integrato con il vangelo di Giovanni. Oggi, festa del Battesimo di Gesù, ci soffermiamo dunque sulla breve cronaca che Marco ci fornisce di questo evento. Si tratta di un aspetto della vita di Gesù un po’ imbarazzante per la comunità cristiana: Gesù si mette in fila con i peccatori per ricevere un battesimo di conversione e di purificazione. Se fosse stato davvero Dio non avrebbe avuto bisogno di purificazione! Eppure è stato proprio così e il fatto che tutti e quattro i vangeli riportino il fatto è garanzia della sua storicità. Gesù ha scelto di cominciare la propria vita pubblica con un gesto penitenziale, si sottopone egli stesso al battesimo di conversione predicato da Giovanni. Questo atto con cui Gesù si adegua alla sua natura umana diventa un’epifania, una manifestazione della sua grandezza. Il Padre lo dichiara il Figlio amato, e facendo scendere su di lui lo Spirito Santo lo investe della sua potenza affinché possa cominciare la missione che è stato mandato a compiere.

In quel tempo, Giovanni proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Giovanni parla di uno che viene dopo di lui. Il linguaggio utilizzato è quello dei cortei trionfali. Chi viene per ultimo è il personaggio più importante ed è preceduto da musicisti, banditori servitori. Giovanni si dichiara suo schiavo. Il compito di legare o sciogliere i sandali di un uomo importante infatti era affidato agli schiavi. Giovanni si dichiara addirittura indegno di compiere questo gesto già di per sé umile.

Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo». Infatti in questo versetto Marco mette in luce la differenza sostanziale tra il battesimo di Giovanni e quello che darà Gesù. Giovanni ha battezzato, quindi la sua azione è ormai compiuta. Ha battezzato con acqua, un elemento naturale, simbolo di vita e di purificazione. Gesù battezzerà, la sua azione sta per iniziare. Battezzerà in Spirito Santo, cioè porterà una purificazione più radicale, la santificazione definitiva realizzata dallo Spirito Santo, quella che era attesa da alcuni gruppi spirituali di Israele (ad esempio la setta di Qumran).

Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. Entra dunque in scena Gesù, colui che Giovanni stava annunciando. E’ interessante notare che Gesù veniva da Nazaret, dalla Galilea e non da Gerusalemme e dalla Giudea come tutti coloro che si stavano recando da Giovanni (v. 5). Egli viene da una zona più lontana, considerata un po’ ai margini, se non addirittura eretica. Ancora si dà un’indicazione geografica e storica. Gesù non viene dal nulla, ma da un luogo ben preciso. Segue la notizia del battesimo. Sembra che Marco voglia dire esattamente ciò che è successo senza abbondare troppo in particolari. La precisazione del fiume Giordano può essere un riferimento all’entrata di Israele nella terra Promessa. Si sta aprendo una nuova era nella storia del popolo di Dio.

E subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. La manifestazione della Trinità dopo il battesimo è introdotta con un “e subito“, un intercalare tipico di Marco (che lo usa 42 volte nel vangelo). L’attenzione del lettore viene diretta non tanto al battesimo, quanto a ciò che è avvenuto dopo. Cosa è successo? I cieli si sono aperti. E’ una risposta al desiderio espresso in Is 63,19b (Se tu squarciassi i cieli e scendessi!): Dio si fa vicino, superando la barriera posta tra cielo e terra. Un altro squarcio è avvenuto alla morte di Gesù (Mc 15,38): il velo del tempio si è squarciato in due, annullando la separazione tra lo spazio sacro riservato a Dio e quello degli uomini. Lo Spirito discende su Gesù come una colomba. Per indicare lo Spirito si usa il simbolo della colomba, che ha diversi richiami nel testo biblico. La ritroviamo in Gn 1,2: lo Spirito che aleggia sulle acque prima della creazione. Gen 1,2: la colomba che annuncia la fine del diluvio in Gn 8,11. In Os 11,11 è simbolo di Israele. Nel Cantico dei Cantici (1,15) è uno dei modi in cui viene chiamata la sposa. Il simbolo della colomba rimane qui un po’ difficile da decifrare. Lo Spirito Santo accompagna l’investitura di Gesù. Il rappresentarlo come colomba significa forse che qualcosa di nuovo sta cominciando.

E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento». Tutto quello che avviene dopo il battesimo sembra abbia come testimone soltanto Gesù e non Giovanni, né tantomeno altre persone presenti. Anche queste parole che vengono dal cielo sono sentite da lui solo. Si tratta delle parole che accompagnano la sua investitura. Egli è riconosciuto come figlio (come il discendente di Davide nella profezia di Natan, 2Sam 7,14). In lui Dio ha posto il suo compiacimento, come nel servo di Jahvé di Isaia (Is 42,1, il servo sofferente). Ancora si può pensare a Isacco, figlio prediletto di Abramo, che Dio chiese in sacrificio. In questo versetto troviamo condensate le caratteristiche più importanti della figura di Gesù.

Monastero Matris Domini