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Il Vangelo della domenica

Maria custodiva e meditava nel suo cuore…

Dal Vangelo secondo           Luca 2,16-21

Pinturicchio1In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro. Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.

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In questa solennità ci soffermiamo insieme sul mistero di Maria che è madre di Dio. Il Vangelo che ci viene proposto è quello della Messa dell’aurora del giorno di Natale, cioè la visita dei pastori al bambino Gesù. Il brano però ha due piccole variazioni: viene eliminata la menzione degli angeli che si allontanano dopo aver dato l’annuncio ai pastori e al termine viene aggiunto il v. 21, che parla della circoncisione del Bambino e dell’imposizione del nome. I bambini ebrei infatti venivano sottoposti a questa pratica che era il segno della loro appartenenza al popolo di Israele e insieme ricevevano il nome con cui sarebbero stati riconosciuti per tutta la vita. Prima della riforma liturgica del Concilio Vaticano II in questo giorno si celebrava la festa della Circoncisione di Gesù e il Santo Nome. Con la riforma si è voluto spostare la festa dedicata a Maria riconosciuta come Madre di Dio, un dogma di fede che era stato affermato nel concilio di Efeso del 431.

(I pastori) andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. Invitati dagli angeli a rallegrarsi per la nascita del Salvatore e sollecitati a verificarne il segno (vv. 10-12) i pastori si muovono senza indugio, affrettandosi. E’ questo lo stesso atteggiamento che ebbe Maria nell’episodio della visitazione. Anche i pastori sono spinti da un motivo religioso: l’obbedienza alla parola che è stata loro annunciata. Il loro andare si conclude davanti al segno annunciato: il bambino. I pastori trovano Maria e Giuseppe. Luca ricorda per prima la madre di Gesù. Citando per prima Maria, nel nominare le persone che i pastori incontrano, Luca ci mostra la sua stima per la Madre di Gesù.

E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. 18. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. L’atteggiamento dei pastori è molto dinamico: prima ascoltano (vv. 10-11 e v. 15), poi si muovono e trovano il segno (v. 16), lo guardano e diventano a loro volta messaggeri, riferendo quanto avevano visto e udito. Il racconto supera il dato storico e diventa prefigurazione e modello della predicazione del vangelo. I pastori hanno accolto la parola della rivelazione, si sono lasciati portare a Gesù, hanno fatto l’esperienza iniziale della fede e quindi ora possono comunicarla agli altri. Inutile chiedersi chi siano coloro che udivano (non si sa se Maria e Giuseppe fossero rimasti soli dopo la nascita del bambino o vi fossero molte persone attorno a loro). Tutti quelli che udivano sono i futuri ascoltatori del vangelo, o meglio la stessa comunità cristiana che riflette sul fondamento della propria fede. Coloro che sentivano queste cose si stupivano. Lo stupore è la reazione dell’uomo dinanzi alle meraviglie di Dio, davanti all’azione di Dio che improvvisamente diventa manifesta nell’esistenza degli uomini.

Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. Davanti alle parole-evento di Dio però non ci si può fermare allo stupore. La rivelazione deve essere approfondita. E’ quello che ha fatto Maria, che “conservava tutte queste parole-evento (rhema)”. Maria cerca di penetrare il senso dei fatti che sta vivendo, delle parole dette dai pastori. Luca utilizza il verbo symballein (mettere insieme, avvicinare due parti di un intero, da cui il termine simbolo), che è stato tradotto con meditare. Si tratta di un’operazione di confronto che permette di far venire alla luce il senso profondo di un evento. Maria impegna la sua intelligenza e la sua volontà per penetrare eventi e parole che sono più grandi di lei, per capirli sempre meglio, con l’aiuto della grazia. Maria fin dall’inizio e per mezzo delle parole di rivelazione e degli eventi ai quali partecipa in prima persona viene formata alla fede e potrà diventare il modello del discepolo che ascolta la parola e la mette in pratica (Lc 8,21). Anche Maria giungerà alla fede piena solo alla Pasqua. Ma fin da ora si manifesta come il tipo della Chiesa che vive della parola che ha ricevuto da Dio.

I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro. Luca come è sua abitudine, termina il racconto con la partenza dei protagonisti. Come gli angeli, anche i pastori che hanno costatato la veracità della rivelazione ricevuta, glorificano Dio. Terra e cielo si uniscono per lodare Dio. Il canto di lode si ripete spesso nell’opera lucana e mostra come agli occhi dell’evangelista tale tipo di preghiera fosse profondamente legato alla sua comunità cristiana. I pastori tornano alle loro occupazioni. Non andranno in giro per il mondo ad annunciare la nascita di Gesù. Essi sono solo una prefigurazione dell’annuncio che si realizzerà compiutamente solo dopo la Resurrezione.

Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo. Questo versetto apre un nuovo paragrafo nei racconti dell’infanzia. Dopo essere stato annunciato ai pastori Gesù si sottomette alle prescrizioni della legge ebraica. Come tutti i bambini maschi del popolo di Israele all’ottavo giorno viene sottoposto al rito della circoncisione e all’imposizione del nome (cfr. Gn 17,12; Lv 12,3). Al quarantesimo giorno verrà portato al Tempio di Gerusalemme per la purificazione. E’ il brano che segue immediatamente questo versetto 21. Luca come ha fatto anche per la circoncisione di Giovanni (Lc 1,59) Luca si sofferma sul valore del nome del bambino, anche se qui il racconto è molto più breve e non riporta nemmeno i nomi dei genitori, neppure quello di Maria, che secondo le parole dell’angelo avrebbe dovuto imporre il nome al figlio (1,31). Tutto sembra procedere come per comando divino, per un bambino destinato ad una missione unica.

Monastero Matris Domini

In principio era il Verbo…

Dal Vangelo di Giovanni 1,1-18

puernatus1In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.

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Nel giorno di Natale ci viene proposto il prologo di Giovanni, il testo che più di tutti parla della preesistenza del Figlio presso il Padre al principio di ogni cosa. Giovanni nel redigere questo inno fa una sintesi tra la cultura greca, in cui vive, e quella ebraica, in cui si è svolta l’esistenza terrena di Cristo. Nell’inno infatti si parla del Logos, la Parola (che in italiano troviamo tradotto con Verbo), che nella cultura ellenistica di tipo stoico era la “ragione immanente al mondo”, che assicurava la coesione dell’universo e lo compenetrava nei suoi diversi aspetti. I testi biblici che sono stati modello del nostro inno sono invece Siracide 24 e Proverbi 8, che parlano della Sapienza personificata e della sua discesa dal cielo verso la terra. Lectio In principio era il Verbo, Giovanni per parlarci delle origini di Colui nel quale la comunità cristiana ha posto la propria fede, risale oltre gli antenati per fissarsi sull’inizio dell’universo. Giovanni ci porta alle soglie della storia, fin nelle profondità di Dio. Il principio di cui si parla in questo primo versetto è quello della Genesi “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gn 1,1). Ma qui non si parla di un’azione, ma di una esistenza che precede questo inizio. C’era il Logos. Non è stato creato, egli è al principio in modo assoluto. Non può essere catalogato tra le creature. e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Il Verbo è qualcuno di distinto da Dio, però è vicino a Dio. Al tempo stesso il Verbo è Dio, ma nell’originale greco in questa seconda parte della frase il termine Dio non ha l’articolo, quindi ci fa capire che il Verbo è Dio, ma in modo diverso da Dio.

Vi è una relazione tra queste due persone che non si può ancora chiamare Padre-Figlio (ciò avverrà solo con l’incarnazione). E’ una relazione dinamica in espansione. Solo la relazione caratterizza l’essere divino nella sua profondità. Egli era, in principio, presso Dio: Abbiamo dunque una prima localizzazione del Verbo. Egli stava sin dal principio presso Dio. E’ la Parola di Dio, un Dio che vuole dare una comunicazione all’esterno di se stesso. Dio non è mai stato senza Parola, senza la possibilità di comunicare se stesso. Ancora, il Logos è il modello di tutto ciò che verrà creato mediante la Parola. Accogliere il Logos significa disporsi, mediante lui, a esistere con Dio. All’inizio quindi vi è il mistero di Dio che risplende mediante il suo Logos e che pone ogni essere in dialogo con lui. Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. Questa frase completa la presentazione iniziale del Logos: pur essendo essenzialmente “presso Dio” in quanto parola è rivolto al “di fuori” di Dio, verso l’interlocutore, verso ciò che sta per essere chiamato all’essere “in principio”, verso lo sbocciare della creazione. Il Padre resta l’autore della creazione, ma ha creato tutto con la mediazione del Verbo. Nulla ha ricevuto l’esistenza se non mediante la presenza attiva del Logos. Quel tutto che è stato creato è la traduzione di panta, non solo il cosmo nel suo complesso, ma ogni singolo essere nella sua individualità e nella sua storia. La creazione però è una realtà dinamica, non è un atto originario limitato nel tempo, si rinnova continuamente. La Parola di Dio è presente e attiva lungo tutta la storia, con rivelazioni progressive del suo disegno e del suo ministero. La storia è dunque in cammino verso la salvezza definitiva ed è mediante il Logos che accade ogni evento. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; il Logos viene presentato ora come dono della vita. Si tratta dell’esistenza suscitata al momento della creazione, ma anche la partecipazione alla vita divina del Logos. Solo Dio è il vivente per eccellenza (cf. Sal 36,10) e tutto ciò che esiste è legato al suo soffio (Sal 104,28ss). Di conseguenza la vita che Dio ha suscitato per poter mantenersi deve rimanere senza interruzione in contatto con Dio, la sua sorgente. La vita implica anche una finalità da raggiungere, quel pieno sviluppo che corrisponderà al progetto di Dio sull’uomo. L’uomo è invitato a vivere fin da questa terra in accordo profondo, in comunione con Dio stesso. Però questo scopo non è raggiunto automaticamente: ci vuole la fede, che suscita un comportamento di giustizia e fedeltà basato sui valori che Dio propone. C’è un dialogo tra uomo e Dio fin dal principio, la dialettica dell’alleanza. La parola vita riguarda dunque l’esistenza, ma anche la relazione vivente, esistenziale con Dio stesso attraverso il Logos. Vi è dunque una vita che non è ancora assunta in pienezza, e che si sviluppa nella relazione con Dio. A tale riguardo il Logos-luce interviene per indicare all’uomo la via da percorrere, per crescere sempre più nella relazione con Dio. Questa luce riguarda valori essenziali di salvezza e anche un comportamento morale. Ciò era espresso anche nel libro della Sapienza: la Sapienza è detta riflesso della luce eterna (Sap 7,26). Gesù stesso nel vangelo di Giovanni si definirà in questi termini: “Io sono la luce del mondo chi segue me… avrà la luce della vita (Gv 8,12)”. La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Troviamo qui una coppia di nomi molto usata nella Bibbia: luce e tenebre. Ma le tenebre non sono preesistenti alla luce. Qui per tenebre dobbiamo intendere il caos, il non-essere presente prima della creazione. Su questo caos ha vinto la luce. Dopo il peccato originale però la tenebra è divenuta una potenza in azione, la possibilità di dire di no. Ecco che la luce risplende nelle tenebre e le tenebre non possono vincerla, come Gesù è sceso nel regno dei morti e non è stato vinto dalla morte. Chi rifiuta la parola di Gesù rimane nelle tenebre, resta cieco senza saperlo (Gv 9,39). Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Il discorso viene bruscamente interrotto da un nuovo personaggio: Giovanni il Battista. Si stava parlando della luce che non è stata vinta dalle tenebre. Non è stata una vittoria automatica. Il Dio di Israele, abituato a trovarsi sempre in giudizio con il suo popolo, ci tiene a portare a processo i suoi testimoni. Quindi anche qui nel prologo compare un personaggio che è chiamato a essere testimone del Logos presente nel mondo. Il testimone è “mandato da presso Dio”, dignità che il IV vangelo riserva solo a Gesù di Nazaret e al Paraclito. Questa qualifica rievoca le vocazioni dei profeti come Mosè, Isaia, Geremia, o il profeta atteso annunciato da Malachia (Ml 3,1.23). Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Un uomo di questo mondo viene dunque incaricato di proclamare agli uomini la presenza della luce del Logos, affinché gli uomini la riconoscano. La finalità di questa testimonianza è che tutti credano. Tutti devono riconoscere la luce che il Logos irradia nel mondo, la luce di vita. Cosa si intende per tutti? Il contesto universalistico in cui è immersa la prima parte del prologo invita a comprendere in questa parola non solo i contemporanei di Giovanni, ma gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Questa precisazione può rivelare la presenza di qualche polemica all’interno della comunità cristiana. Forse i seguaci di Giovanni affermavano fosse lui il vero Messia, quindi l’evangelista delimita la missione di Giovanni pur esprimendo per lui grande stima. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Il discorso ritorna sul Logos e si focalizza sul suo incontro con l’umanità. Il Logos qui è ricordato come “luce autentica”, in contrapposizione con le false luci che sarebbero apparse nel mondo, che non sono altro che ingannevoli idoli. Solo il Dio vivente è veritiero. Nella Bibbia si può leggere il desiderio della luce divina, ad es. Sal 4,7; 119,105; Is 9,1. Anche la Sapienza istruisce da sempre ogni uomo, rivela i misteri divini, ispira i saggi e i giusti donando loro il discernimento della volontà di Dio. Il Logos dunque illumina ogni uomo, ciascun uomo nella sua singolarità. Egli viene incontro a ciascun uomo, di ogni generazione, anche a quanti non appartengono al popolo di Dio (cf. Rm 1,19-21). Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Qual è stata la risposta del mondo davanti alla luce vera? Sebbene il mondo fosse stato creato per mezzo di lui, anche se gli uomini e le creature fossero in rapporto vitale con il loro Creatore, ebbene il mondo, le creature non hanno riconosciuto la luce che veniva a loro. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. Questo versetto precisa ancora meglio questo rifiuto: il Logos veniva nella sua “proprietà”, presso il popolo con cui aveva una relazione particolare. Qui ci sarebbe un riferimento a Israele. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome. C’è qualcuno però che ha accolto il Logos, la Parola di Dio. Sono gli uomini che hanno riconosciuto nel Logos il principio della loro esistenza e nelle sue promesse di vita il senso della loro storia: essi si lasciano illuminare da lui. Questa accoglienza è possibile a tutti. Il risultato dell’accoglienza è la fede nel “nome”. Il nome di Gesù Cristo, ma anche il nome di Dio, JHWH. A coloro che lo hanno accolto, il Logos ha dato il potere di divenire figli di Dio. C’è un dono che essi ricevono dal Logos, il potere, cioè la dignità, l’autorità di essere figli di Dio. Essere figlio di Dio indica un’appartenenza profonda a Dio, una vera salvezza vissuta nel presente, anche senza aver ancora la pienezza di grazia che annuncerà il v. 16. I quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. Coloro che hanno accolto il Logos quindi diventano figli di Dio, non appartengono più a un popolo particolare, non vengono più generati per il desiderio della sopravvivenza, ma provengono da Dio. La loro illuminazione coincide con il loro diventare figli di Dio. E il Verbo si fece carne. Questo versetto dà senso a tutto l’inno e ci introduce all’incarnazione del Logos, ultima tappa della storia di Dio che si comunica. Vi è una modifica nel modo della presenza e della manifestazione del Verbo. Il testo utilizza la parola carne invece che uomo, forse per non metterlo sullo stesso piano di Giovanni. Oppure si tratta di indicare in modo più incisivo la condizione nuova del Logos divenuto uomo. Il termine carne indica la condizione di fragilità, di miseria e di precarietà dell’essere umano. Forse qui indica già la morte con cui Gesù salverà il mondo. E venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, Letteralmente le parole greche sarebbero “e drizzò la propria tenda in mezzo a noi”. Questo dimorare è ricco di significato: si fa riferimento alla tenda del santuario portatile di JHWH nel cammino dell’esodo. Il Dio che si rendeva presente nell’arca dell’alleanza, cioè nella legge, ora si rende presente in una carne mortale. E’ una presenza che non riguarda solo Israele, ma “noi”, cioè ogni uomo. Così “noi” abbiamo potuto vedere la gloria del Logos. Questo noi indica soprattutto i testimoni della vita di Gesù di Nazaret, ma anche tutti coloro che nella fede si lasciano illuminare dalla luce del Logos. Nel Vangelo di Giovanni la gloria di Cristo si manifesta soprattutto nei segni (cf. Cana, Gv 2,11). Gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. Si tratta di una gloria particolare, poiché il Figlio è unigenito, è unico e irripetibile. Egli è veramente generato dal Padre e pertanto egli è la gloria del Padre. Il Logos si è incarnato: a partire da questo versetto Dio non viene più definito Dio, ma Padre. Il Figlio è uscito dal Padre affinché in Lui risplenda la gloria del Padre stesso. Il Logos incarnato poi è “riempito” di grazia e di verità. La grazia è il dono divino, la sua benevolenza, il suo favore (cf Rm 5,15). La verità si può intendere qui come la conoscenza di Dio. Il Logos può quindi comunicare la verità del Padre. Giovanni gli dà testimonianza e proclama: “Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me”. Giovanni dava testimonianza alla luce, ora ripete la sua testimonianza riguardo il Logos incarnato. Gesù è al di sopra di Giovanni. Questo verrà ripetuto nel prologo narrativo del IV Vangelo (Gv 1,27). Già prima di incontrarlo Giovanni conosceva la superiorità di Colui che sarebbe venuto e si sentiva indegno di essere suo schiavo.

Questa testimonianza di Giovanni non è stata fatta una volta per tutte, essa continua nel tempo. la sua parola si fa garante di una realtà che deve essere sempre nuovamente riconosciuta. Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Ora la parola torna ai credenti, non solo i testimoni diretti, ma la comunità dei discepoli che si sono moltiplicati. Noi abbiamo ricevuto, partecipiamo alla pienezza di Lui, alla pienezza di grazia propria dell’Unigenito di Dio. L’espressione “grazia su grazia” significherebbe una grazia che si sovrappone a un’altra. La prima grazia sarebbe la Legge ebraica, sulla quale si è posta la legge di Gesù che la porta a compimento. Ma per non restringere troppo il senso di questa affermazione, potremmo pensare alla prima grazia come quella della presenza universale del Logos non incarnato; la seconda è il dono della verità mediante l’incarnazione di Gesù Cristo. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Questo versetto presenta il superamento della legge di Mosè e dell’esperienza di Israele. Vi è un parallelismo tra Mosè e Gesù. Secondo la costruzione della frase in greco alla legge corrisponde la verità e al verbo “fu data” corrisponde la grazia. Al dono della legge corrisponde il dono della verità in Gesù Cristo. Tra i due membri della frase non vi è opposizione ma progressione e la progressione va dalla legge alla verità. Questa verità supera la legge che è soltanto una manifestazione incompleta, e rivela pienamente ciò che il Dio dell’Alleanza aveva voluto comunicare a Israele fin dalla sua elezione. Non vi è dunque contrapposizione tra Antico e Nuovo Testamento. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato. Al termine del poema Giovanni risale con uno slancio in verticale a colui presso il quale era il Logos: Dio in senso assoluto. Vi è un collegamento tra vedere/rivelare. Vedere Dio è l’aspirazione più profonda del credente, secondo la Bibbia. Ma salvo eccezioni quest’aspirazione deve attendere il cielo per potersi realizzare. Per questo lungo i secoli è stato trasportato nel culto l’incontro con Dio. Nel tempio si poteva soddisfare simbolicamente il desiderio di accostarsi al Signore, di fare esperienza diretta del Dio vivente. Secondo la tradizione biblica l’uomo non può vedere Dio a causa della sua condizione di peccatore e perché Dio è assolutamente trascendente. Solo in Cristo la gloria di Dio si lascia vedere. Il Figlio unigenito ce lo ha raccontato (è questa una traduzione più incisiva di exegeomai). E’ una manifestazione che implica quindi un ascoltare e un obbedire, secondo la tradizione sapienziale. Un’esperienza che coinvolge molto più profondamente che il semplice vedere. Di fatto il Logos, la Parola va ascoltata. Egli ci spiega il Padre nei minimi particolari. Ecco cosa siamo chiamati ad ascoltare nella lettura del Vangelo di Giovanni.

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Dal Vangelo secondo Giovanni        Gv 1,6-8.19-28

avvA3-w1Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaìa». Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo». Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.

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Meditiamo il testo con i Padri della Chiesa dai Sermoni di sant’Agostino, vescovo (Sermo, 293, 3 s.) Giovanni è la voce, ma il Signore “ da principio era il Verbo ” (Gv 1,1). Giovanni una voce per un tempo, Cristo il Verbo fin dal principio, eterno. Porta via l’idea, che vale piú una parola? Se non si capisce niente, la parola diventa inutile strepito. La parola senza un’idea batte l’aria, non alimenta il cuore. E anche mentre alimentiamo il cuore, guardiamo l’ordine delle cose. Se penso a ciò che devo dire, c’è già l’idea nel mio cuore; ma se voglio parlare con te, mi metto a pensare se sia anche nel tuo cuore, ciò che è già nel mio. Mentre cerco come possa giungere a te e fissarsi nel tuo cuore l’idea che è già nel mio, formo la parola e, ormata la parola, parlo a te: il suono della parola porta a te l’intelligenza dell’idea; è il suono che passa da me a te, l’idea invece, che ti è stata portata dalla parola, è già nel tuo cuore e non se n’è andata dal mio. Il suono, dunque, portata l’idea in te, non ti par che ti dica: “ Bisogna che lui cresca e che io venga diminuito?” Il suono della parola fece il suo ufficio e scomparve, come se dicesse: “ Questa mia gioia è completa ” (Gv 3,30). Afferriamo l’idea, assimiliamo l’idea per non perderla piú. Vuoi vedere la parola che passa e la divinità permanente del Verbo? Dov’è ora il Battesimo di Giovanni? Fece il suo ufficio e passò. Il Battesimo di Cristo ora è in voga. Crediamo tutti in Cristo, speriamo d’essere salvi in lui: questo disse la parola. Ma poiché è difficile distinguere tra parola e idea, lo stesso Giovanni fu creduto Cristo. La parola fu ritenuta idea, ma la parola si dichiarò parola, per non ledere l’idea. “ Non sono “, disse, “ Cristo, né Elia, né profeta “. Gli fu risposto: “ Chi sei, dunque, tu? Io sono “, disse, “ voce di colui che grida nel deserto: Preparate la via del Signore ” (Gv 1,20-23). “ Voce di uno che grida nel deserto “: voce di uno che rompe il silenzio. “ Preparate la via del Signore “: come se volesse dire: Io vado rimbombando per introdurlo nei cuori, ma non troverò un cuore nel quale egli si degni di entrare, se non preparate la via. Che vuol dire: “ Preparate la via “, se non supplicate convenientemente? che cosa, se non pensate umilmente? Prendete da lui esempio d’umiltà. Viene ritenuto il Cristo, dichiara di non essere ciò che è ritenuto, né si avvantaggia per il suo prestigio dell’errore altrui. Se dicesse: Io sono il Cristo, quanto facilmente sarebbe creduto, se, prima ancora che lo dicesse, già lo era ritenuto! Non lo disse Si ridimensionò, si distinse, si umiliò. Capí dove era la sua salvezza: capí che egli era una lucerna ed ebbe paura di essere spento dal vento della superbia… Gli occhi deboli hanno paura della luce del giorno, ma possono sopportare quella di una lucerna. Perciò la luce del giorno mandò innanzi la lucerna. Ma mandò la lucerna nel cuore dei fedeli, per confondere i cuori degli infedeli. “ Ho preparato “, dice, “ la lucerna al mio Cristo “: Giovanni araldo del Salvatore, precursore del giudice che deve venire, l’amico dello sposo.

Giovanni1

Dal Vangelo di Marco Mc 1,1-18

Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio. Come sta scritto nel profeta Isaia: Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri; vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».

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Il clima di attesa e vigilanza inaugurato domenica scorsa si arricchisce con la II e III domenica di Avvento di altri temi grazie alla figura di Giovanni il Battista, oggi con il testo di Mc 1,1-8 e la prossima settimana con il vangelo di Giovanni (Gv 1,6-8.19-28). Il Precursore è un testimone autorevole, è l’uomo che Dio, compiendo le sue promesse, ha scelto per preparare la via al suo Messia. Nella II domenica ci è proposto il prologo del vangelo di Marco, un testo molto denso, in particolare il v. 1, il quale costituisce come una lente attraverso la quale leggere tutto il vangelo. L’attenzione del lettore è attirata su Gesù, il più forte, verso cui devo convergere l’attesa e il desiderio, lui che battezzerà con Spirito Santo. Con questa espressione l’evangelista Marco intende tutta l’attività di Gesù Cristo (che sta per illustrare nel corso del suo scritto), un’opera di salvezza che purifica e santifica quanti la accolgono. Concentrare lo sguardo su Giovanni Battista significa allora, in questa seconda tappa del nostro cammino di Avvento, accogliere il suo invito a guardare Gesù come Messia (Cristo) e Figlio di Dio, per saperlo riconoscere a Natale nel fragile bambino, figlio di Maria. Significa pure mettersi in atteggiamento di conversione, allontanandoci dal male per percorrere la via che ci porta verso la comunione piena con Lui.

Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio. Il primo versetto in Marco è come un titolo apposto a tutto il suo vangelo e insieme una guida per la lettura di quanto sta per narrarci. Inizio (in greco arche) significa in questo contesto fondamento oltre che punto di parte e anche norma o regola. Solo Marco usa il termine vangelo senza altre qualifiche; esso è tipico del suo scritto in cui è usato di frequente (cfr. 1,1.14-15; 8,35; 10,29; 13,10, 14,9; 16,15). Per Marco e la sua comunità, il vangelo più che essere un messaggio che proviene da Dio e che riguarda Gesù, è l’azione stessa di Dio tra gli uomini attuata attraverso la vicenda storica di Gesù; da questo punto l’evangelista parte per rivolgersi al passato e ricordarne l’inizio (1,1) e per definire sotto questa luce l’esistenza cristiana (TOB). Perciò Gesù è definito Messia (Cristo) e Figlio di Dio; due titoli che ritornano nel vangelo. Figlio di Dio significativamente in Mc 15,39, segnando con un’inclusione tutto il racconto; tale titolo Cristologico appare in punti cruciali di questo vangelo (1,11; 9,7; 3,11; 5,7; 14,61-62; 15,39) ed esprime il pensiero di Marco: lo scopo del suo scritto però è di coinvolgere i lettori e di far nascere in loro la fede in Gesù. Anche il titolo di Messia, che spesso Gesù comanda di non divulgare, sarà compreso pienamente solo durante la sua passione (14,61-62). Nel I sec. vangelo ( dal greco euangelion, buona notizia) non indica ancora il genere letterario di cui l’opera di Marco è forse il primo esempio, ma l’annuncio degli apostoli e poi della comunità cristiana su Gesù, esso è fonte di gioia in quanto annuncia la salvezza. La specificazione di Gesù può riferirsi sia al soggetto sia all’oggetto di tale annuncio. Come sta scritto nel profeta Isaia: Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri, vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Introdotta dalla formula solenne come sta scritto che Marco utilizza in altri passi, la citazione combinata di Ml 3,1 e Is 40,3 prepara l’entrata in scena del Precursore e lo indica come colui che compie tali profezie. E’ proprio Giovanni il messaggero e la voce che annuncia l’arrivo del Messia (alterando i testi profetici l’evangelista li applica a Gesù). Preparate la via del Signore è un’espressione tipica del Deuteroisaia per indicare l’azione di Dio a favore del suo popolo (Is 40,3; 42,16.19; 49,11; 51,10) ed è spesso usata da Marco sia per indicare la strada per un viaggio (2,23; 4,4.15; 8,3; 10,17) sia nel senso metaforico di cammino per diventare discepoli (8,27; 9,33-34; 10,32.52; 11,8; 12,14). Il riferimento al deserto è un richiamo alle grandi opere compiute da Dio a favore del suo popolo e all’Alleanza sul Sinai (Es 19-24; Ger 2,2-3), ma anche luogo di tentazione e della ribellione di Israele (Es 16; Nm 11). Questi versetti, densi di richiami AT preannunciano anche gli eventi che stanno per essere narrati. L’uso dei testi biblici dimostra che l’evangelista condivideva la tensione universalistica del giudaismo postesilico. Il v. 3 segnala due attività di Giovanni: battezzare e proclamare; la prima indica una pratica diffusa sia nell’AT (esistevano diversi riti di purificazione, vedi Lv 14,5-6; Is 1,16), sia ai suoi tempi (vedi la comunità di Qumran). Ma Giovanni amministrava un battesimo che si riceveva una sola volta e comporta una conversione morale così che il suo battesimo è riconosciuto come originale e caratterizzato da una forte valenza escatologica.Si trattava infatti di un battesimo di conversione, dove conversione significa un’inversione, un tornare indietro, che richiama l’invito profeti al popolo a ritornare al precedente rapporto con Dio (prima del peccato). Lo scopo di tale rito è il perdono dei peccati, dunque il battesimo di “Giovanni è l’attuazione delle disposizioni interne del soggetto e il simbolo del perdono che questi spera di ricevere. Come mostrerà chiaramente il v. 5, la confessione dei peccati è il presupposto per ottenere il perdono”. (J. R. Donahue, D. J. Harrington). La seconda attività, proclamare crea un legame con Gesù e ai suoi seguaci. E’ un verbo che fa riferimento all’azione dell’araldo (keryx) che richiama l’attenzione dei presenti, un termine che Marco usa anche per indicare l’attività di Gesù (cfr.1,14) e dei discepoli. E’ questo un altro elemento tipico del prologo del suo vangelo: mettere in luce i rapporti tra Giovanni, colui che annuncia il Messia nella persona di Gesù. Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Sebbene tutti i sinottici presentino Giovanni e la sua attività (cfr. Mt 3,1-12; Lc 3,1-18) Marco accentua il successo di tale attività ( tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme) e lo fa in vista del riferimento successivo a Gesù (al v. 8); la popolarità di Giovanni il Precursore è attestata anche da Giuseppe Flavio. Un altro riferimento simbolico è il fiume Giordano, luogo che segna il passaggio dal deserto alla terra promessa. La confessione dei peccati, sia in privato sia in pubblico era diffusa nel giudaismo (cfr. Lv 5,5; Sal 32,5) ed era diventata anche una forma di preghiera (cfr. Dn 9,4-19; Bar 2,6-10). Il perdono, atteso come effetto della conversione, è inteso in questo brano, come un dono del Regno di Dio che viene. In questa descrizione possiamo cogliere anche l’eco dell’esperienza dei primi lettori di Marco. Anch’essi, facendo riferimento alle promesse AT, hanno creduto al vangelo di Gesù, attraverso un cammino che ha comportato la conversione e il battesimo nella nascente comunità cristiana. Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. Solo al v. 6 l’evangelista ci descrive l’aspetto di Giovanni con il chiaro intento di identificarlo come un profeta (in particolare Elia vedi 2Re 1,8; Zc 13,4). Il suo cibo è tipico di chi abita nel deserto. Secondo Ml 3,23; Sir 48,10-11 e altri, il profeta Elia doveva ritornare per un’ultima esortazione penitenziale alla vigilia del giudizio finale. L’attesa di un profeta degli ultimi tempi era diffusa in diversi ambienti (ai tempi di Gesù) e si appoggiava forse a Dt 18,15. (nota TOB). E proclamava: “Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Ora l’evangelista riferisce le parole della predicazione di Giovanni introducendole in modo solenne; al contrario di Matteo e Luca, il suo discorso non comporta parole di minaccia per il giudizio escatologico, ma si riferisce esclusivamente a Gesù, definito come colui che è più forte di me. L’attenzione è puntata su Gesù, che Giovanni annuncia; sebbene venga dopo di lui, esso è riconosciuto come più forte, con un richiamo al testo di Isaia (40,10) in cui il profeta afferma che Dio viene con potenza. Slegare i lacci dei suoi sandali era un’attività riservata allo schiavo: con questa affermazione Giovanni dichiara apertamente il divario tra lui e Gesù. Costui verrà subito descritto come un personaggio di grande forza, capace di sconfiggere l’uomo forte, Satana (cfr. Mc 1,22.27; 3,20.-27).

Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo”. La nostra pericope termina con un nuovo paragone tra Giovani e Gesù che ne sottolinea la disparità, indicando la differenza tra i rispettivi battesimi. Il battesimo del primo non è che una preparazione a quello di Gesù che realizzerà una profonda trasformazione, attraverso la potenza di Dio.

Il testo parallelo nell’AT più vicino a questo versetto è Ez 36,25-26, dove leggiamo che Dio rinnoverà il suo popolo purificandolo con l’acqua e infondendo uno spirito nuovo (cfr. Gl 2,28; Is 44,3; Ez 39,29). L’indicazione dello Spirito Santo (qui nel senso della presenza di Dio potente e operante) indica l’opera globale della salvezza, iniziata con Gesù, la quale sembra essere intesa come la purificazione e santificazione escatologica per opera dello Spirito (nota TOB).

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Fate attenzione…Vegliate

Vegliate1Dal vangelo secondo Marco              Mc 13, 33-37 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».

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Iniziamo con il tempo di Avvento un nuovo anno liturgico in cui ci accompagnerà il vangelo di Marco; il brano evangelico che apre il ciclo in preparazione al Natale del Signore in questo Anno B è la conclusione del capitolo 13 (vv. 33-37), la piccola apocalisse di Marco, in cui predomina il termine vegliare. Il testo ha degli agganci con il racconto della passione che segue subito dopo (Mc 14), e chiude un discorso con chiari riferimento all’apocalittica giudaica (in particolare al testo di Daniele), ma anche a temi importanti in questo vangelo; vi ritroviamo in particolare la Cristologia di Marco, con l’utilizzo del titolo Figlio dell’uomo. Come sempre l’Avvento, che ci prepara alla celebrazione e sul ricordo della venuta nella carne di Gesù, inizia il percorso con uno sguardo verso il futuro, ossia verso la venuta gloria del Cristo risorto alla fine dei tempi; solo con la seconda domenica di Avvento lo sguardo si pone all’interno della storia, con i testi relativi a Giovanni il Precursore. L’invito pressante rivoltoci in questa prima domenica è allora quello di vegliare, perché “quanto a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre” (Mc 13,32). Siamo alla conclusione del discorso escatologico che nel vangelo di Marco occupa tutto il capitolo 13; esso inizia al v. 5 dove Gesù risponde alla domanda di un piccolo gruppo di discepoli (vedi Mc 13,3-4); l’esortazione finale però, come vedremo al v. 37, è valida per ogni discepoli di Cristo. Non prendiamo in considerazione tutto il discorso ma solo questi versetti finali in cui predomina l’imperativo vegliate (gregoreite), ripreso praticamente ad ogni versetto, che presentano chiari rimandi anche al racconto della passione (vedi Mc 14,34.37.40). Nel versetto 33 il verbo vegliare è in coppia con l’altro verbo tipico di questo capitolo, fate attenzione (blepete), o state attenti, che pure ricorre diverse volte (vedi vv. 5.9.23) e poiché al v. 32 l’evangelista ha appena messo sulla bocca di Gesù la sorprendente affermazione “quanto a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre“, se ne capisce l’importanza: il modo migliore per vivere il presente, per un credente, è la vigilanza. Ma di quale giorno si sta parlando? Della venuta finale di Cristo risorto e del giudizio che concluderà la storia? Come tutti i testi di genere apocalittico anche questo è rivolto ad una comunità che soffre persecuzione e a cui si ricordano i motivi di speranza e insieme a cui si vuol recare consolazione. In esso non si possono facilmente dividere i diversi piani che si intersecano, ossia il presente, il futuro (la venuta finale del Cristo glorioso) e la rovina storica di Gerusalemme. Anche le immagini e i continui riferimenti all’AT sono espressione tipica del genere apocalittico. Notiamo che la sezione finale del discorso apocalittico di Marco (dal v. 28 al v. 37) è costruita in modo concentrico: una parabola (vv. 28-29), un detto relativo al tempo (v. 30); un detto circa l’autorità di Gesù (v. 31 centrale in questa piccola pericope); un nuovo detto sul tempo (v. 32), un’altra parabola (v. 33-37) che è il testo proposto per questa domenica. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino;

fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Ecco la piccola parabola (in coppia con quella del fico che occupa i vv. 28-29 dove l’attenzione è posta sui segni dei tempi); qui abbiamo un racconto per alcuni versi vicino all’incipit della parabola dei talenti di Matteo (Mt 25,14-15) o delle monete d’oro in Luca (Lc 19,12-13), ma con un diverso intento. Poiché il padrone ha dato un compito preciso a ciascun servo ognuno deve stare attento per poter ricevere un giudizio positivo al suo ritorno. L’accenno al portiere ha un richiamo verbale al v. 29 dove si parla del giudice che è alle porte, e inoltre ci riporta il verbo vegliare, parola chiave del nostro piccolo brano. Il v. 35 riporta le diverse veglie in cui i romani dividevano la notte, corrispondenti ai turni di guardia; il padrone di casa nel contesto di Marco potrebbe identificarsi con il Figlio dell’uomo, e il suo ritorno con il tempo del giudizio finale. Anche l’affermazione finale non vi trovi addormentati ha un significativo rimando al racconto della passione (Mc 14,37.40.41) dove i discepoli si addormentano. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!”. Con questa conclusione è esplicitata la potata universale dell’invito ad essere vigilanti (invito che caratterizza anche il discorso della passione, vedi 14,34.37.38) ed è una sintesi dell’atteggiamento etico che emerge dal discorso escatologico di Marco. Tutto il capitolo, ma in particolare i vv. 33-37 hanno l’intento di mantenere viva l’aspettativa del ritorno glorioso di Cristo, ma nello stesso tempo di frenare eccessive fantasie riguardo al come accadrà tale evento e al tempo in cui avverrà. La convinzione che il mondo sarebbe stato trasformato e che il piccolo gruppo dei cristiani avrebbe regnato con Cristo risorto nella gloria offriva un orizzonte di speranza alla comunità primitiva che veniva guardata con sospetto e spesso angariata, mentre l’insistenza sulla costante vigilanza la aiutava a trovare significato e direttive etiche nel suo comportamento nel tempo presente (J. R. Donahue e D. J. Harrington). Tutto questo vale anche per noi cristiani di oggi, chiamati a tenere viva la speranza e il riferimento al ritorno glorioso di Gesù Signore e a vivere con impegno il nostro presente; un invito quanto mai appropriato all’inizio di un nuovo anno liturgico e del cammino che ci prepara al Natale.

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Quando il Figlio dell’uomo verrà…

REUNIVERSODal Vangelo di Matteo 25,31-46

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».

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Il testo fa parte di un lungo discorso escatologico (24, 1-25, 46) pronunciato da Gesù sul monte degli Ulivi ai suoi discepoli in disparte (24, 3). Il discorso parte dall’annunzio della distruzione di Gerusalemme per parlare della fine del mondo. I due eventi si confondono come se fossero uno solo. Questa parte del discorso finisce con la venuta del Figlio dell’uomo con grande potenza e gloria. Egli manderà i suoi angeli a radunare tutti i suoi eletti (24, 30-31). A questo punto il flusso cronologico dei fatti annunciati viene interrotto con l’inserzione di alcune parabole sulla necessità di vegliare per non essere sorpresi alla venuta del Figlio dell’uomo (24, 24 – 25, 30). Il discorso escatologico trova il suo culmine letterario e teologico nel nostro testo che, riallaciandosi a 24, 30-31, torna a parlare della venuta del Figlio dell’uomo accompagnato dagli angeli. Il raduno degli eletti prende qui la forma di un giudizio finale.

Il Figlio dell’uomo

Figlio dell’uomo è una espressione semitica che significa semplicemente un essere umano (vedi ad esempio il parallelismo tra “uomo” e “figlio dell’uomo” in Sal 8, 5). Così la usa frequentemente il libro di Ezechiele dove Dio indirizza il profeta come “figlio dell’uomo” (2, 1.3.6.8; 3, 1.2.4.10.16+) per risaltare la distanza tra Dio che è trascendente e il profeta che è un semplice uomo. Però in Daniele 7, 13-14 l’espressione acquista un significato particolare. Il profeta vede “apparire sulle nubi del cielo uno simile ad un figlio di uomo” che riceve da Dio “potere, gloria e regno”. Si tratta pur sempre di un essere umano, che però viene introdotto nella sfera di Dio. Il testo è stato interpretato sia in senso personale che collettivo, ma sempre in senso messianico. Quindi, sia che si tratti di una sola persona sia che si tratti del Popolo di Dio nel suo insieme, il Figlio dell’uomo è il Messia che inaugura il Regno di Dio, un regno eterno e universale.

L’applicazione del titolo “Figlio dell’uomo” a Gesù sullo sfondo di Daniele 7, 13-14 è diffusissima nei vangeli. Si trova anche in Atti 7, 56 e Apocalisse 1, 13 e 14,14. Gli studiosi pensano che è stato Gesù stesso a darsi questo titolo. Nel vangelo di Matteo viene messo in bocca a Gesù particolarmente quando egli parla della sua passione (17, 12. 22; 20, 18. 28), della sua resurrezione come evento escatologico (17, 19; 26, 64) e del suo ritorno glorioso (24, 30; e 25, 31, inizio del nostro testo).

Gesù re, giudice e pastore

Matteo da’ anche il titolo di re a Gesù (1, 23; 13, 41; 16, 28; 20, 21). La regalità di Dio è un tema molto caro alla Bibbia. Perché è il Figlio di Dio, Gesù regna assieme al Padre. Nel nostro testo il re è Gesù ma egli esercita la sua regalità in stretta relazione con il Padre. Gli eletti sono i “benedetti del Padre mio” e il regno in cui sono invitati ad entrare è un regno preparato per loro da Dio come indica la forma passiva del verbo. Questa forma verbale, detta passivo divino, si trova spesso nella Bibbia e ha sempre Dio come soggetto implicito. In questo testo il regno sta a indicare la vita eterna.

Come in Daniele 7 (vedi in particolare i versetti 22, 26 e 27), anche nel nostro testo la regalità del Figlio dell’uomo è legata al giudizio. Il re, specialmente nell’antichità, è stato sempre considerato giudice supremo. Il giudizio che fa Gesù è un giudizio universale, un giudizio che coinvolge tutte le genti (vedi v. 32). Eppure non è un giudizio collettivo. Non sono i popoli che vengono giudicati ma le persone singole.

Ugualmente unito alla regalità è il simbolismo pastorale. Nell’antichità il re veniva spesso presentato come pastore del suo popolo. Anche l’Antico Testamento parla di Dio, re d’Israele, come pastore (vedi ad esempio Sal 23; Is 40, 11; Ez 34) e il Nuovo Testamento applica il titolo anche a Gesù (Mt 9, 36; 26, 31; Gv 10).

I pastori della Terra Santa al tempo di Gesù pascolavano greggi misti, composti da pecore e capri. La sera però li separavano perché le pecore dormono all’aperto mentre i capri preferiscono mettersi al riparo. Nel nostro testo le pecore rappresentano gli eletti perché sono di valore economico maggiore dei capri e anche per il loro coloro bianco che nella Bibbia spesso indica la salvezza.

“I miei fratelli più piccoli”

Tradizionalmente si interpretava questo brano evangelico come l’identificazione di Gesù con i poveri e gli emarginati. Gesù giudicherebbe tutti, e particolarmente quelli che non hanno avuto l’opportunità di conoscere il suo vangelo, sulla misericordia che hanno dimostrato per i bisognosi. Tutti hanno l’opportunità di accoglierlo o rifiutarlo se non personalmente, almeno nella persona dell’indigente con cui si identifica.

L’esegesi contemporanea tende a leggere il testo in senso più ecclesiologico. Mettendolo in stretto rapporto con Matteo 10, 40-42, gli esegeti insistono che qui non si tratterebbe di filantropia ma della risposta al vangelo del Regno che viene portato dai fratelli di Gesù, non solo dai capi della Chiesa ma anche da ogni fratello, anche il più insignificante.

Le nazioni, cioè i pagani, sono quindi invitati ad accogliere i discepoli di Gesù che predicano loro il vangelo e soffrono per esso, come se stessero accogliendo lo stesso Gesù in persona. I cristiani, da parte loro, sono invitati all’ospitalità generosa con i loro fratelli che si fanno predicatori itineranti per causa del vangelo, soffrendo persecuzioni (vedi 2 Gv 5-8). Così dimostrerebbero l’autenticità del proprio impegno di discepolato.

Nel contesto del vangelo di Matteo questa seconda interpretazione è probabilmente più precisa. Eppure nel contesto della Bibbia tutta intera (vedi ad esempio Is 58, 7; Gc 2, 1-9; 1 Gv 3, 16-19) non si può scartare completamente la prima.

Prendi parte alla gioia…

Dal Vangelo secondo Matteo          Mt 25,14-30

TALENTI

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».

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L’uomo, immagine vicaria di Dio, riceve fiducia da Colui che è Signore della sua vita e che ha di lui la cura. Dio consegna i suoi beni a ciascuno di noi, secondo un suo criterio. Si parla di talenti. E noi abbiamo sempre interpretato che bisogna vivere in base ai talenti ricevuti, pensando che talenti siano le qualità e abilità che abbiamo. Leggendo attentamente possiamo dire che non è così. Le qualità e abilità sono in origine, ognuno ha le sue. I talenti sono i beni di Dio che egli ci affida. Quindi cose a noi estranee che non ci appartengono, ma che siamo chiamati a custodire attivamente secondo la logica della vita: la crescita. Lì dove c’è vita, c’è crescita. Ogni arresto di crescita è una sorta di morte o di alienazione. Chi vive secondo la propria umanità non potrà che accrescere i beni da Dio ricevuti. E quali sono questi beni? Le ricchezze di Dio sono i suoi figli! E allora forse potremo dire talenti le occasioni di amore in cui gli altri da estranei diventano fratelli. I servi dell’Amore non possono che amministrare AMORE. Quindi: A uno il Signore dà cinque amori, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità. Quale capacità? Quella del cuore. A chi più è in grado di amare, più occasioni sono date per amare. Quale sarà il compito del servo di fronte alle occasioni di amore ricevute? Il compito è del guadagno. L’amore si investe, e allora si moltiplica. Se l’amore si nasconde nella buca nel cuore, resta tale e quale, non si accresce. Al ritorno del padrone l’uomo che ha guadagnato è chiamato servo buono e fedele, fedele nel poco, quindi degno di autorità su molto, capace di partecipare alla gioia del suo Signore. Non importa se il guadagno sia di cinque o di due, è importante che sia il doppio del ricevuto. Vale a dire: guadagno massimo possibile. L’uomo che invece ha nascosto le occasioni di amore nella buca del cuore per paura della durezza del padrone e restituisce quanto ricevuto senza guadagno è chiamato dal padrone servo malvagio e infingardo. Seppure il timore poteva impedirgli di guadagnare attivamente, almeno poteva egli pensare a una custodia intelligente del bene ricevuto, una custodia che comunque portasse frutto, il minimo… La via dell’abbondanza si apre a chi ha… chi nasconde ciò che ha ricevuto, viene privato della gioia del l’investire per accrescere, della gioia della fedeltà e del partecipare alla gioia del suo padrone. Afflizione e sofferenza amara sono riservate ai servi fannulloni che mettono sotto terra le occasioni ricevute.

Monastero Janua Coeli

Vegliate…

Vergini1Dal Vangelo di Matteo 25, 1-13

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le lampade, ma non presero con sé olio; le sagge invece, insieme alle lampade, presero anche dell’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e dormirono. A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro! Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. E le stolte dissero alle sagge: Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono. Ma le sagge risposero: No, che non abbia a mancare per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene. Ora, mentre quelle andavano per comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici! Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora».

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La celebre parabola delle dieci vergini è narrata da Matteo dopo il discorso escatologico e serve ad illustrare il detto di Mt 24,42: “ Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà!” (così come il precedente, Mt 24,45-51). L’accento è posto sulla necessità di essere pronti per non essere esclusi dal banchetto eterno. Il racconto ha sicuramente un senso allegorico, ma ciò non significa che ogni particolare ha un preciso riferimento a qualcosa d’altro. L’attesa nel testo evangelico è volta al ritorno del Cristo glorioso, applicando a lui l’immagine dello sposo che l’AT aveva utilizzato per Dio. Anche la prima lettura ( Sap 6,12-16) esorta ad essere saggi, a coltivare il desiderio di Dio (come il Sal 62). Allora il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Nel primo evangelista dopo il discorso escatologico, che si sviluppa in modo ampio (vedi 24,1-31), abbiamo una serie di parabole; quella delle dieci vergini è la seconda; esplicitamente Gesù dice che il regno dei cieli sarà simile a, intendendo tutto il racconto e non solo le dieci vergini. La parabola fa riferimento al modo in cui si svolgevano le nozze nella Palestina del I secolo d.C. durante il quale un corteo di ragazze (il termine vergine qui ha questo senso) accompagnava gli sposi, di solito verso sera (ciò spiega l’impiego delle lampade). Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. Il gruppo viene descritto da Matteo nei vv. 2-4 e diviso in due categorie; le vergini sono sagge o stolte come coloro che costruiscono sulla roccia o sulla sabbia (cfr. 7,24-27). Lo sposo si recava nella casa della promessa sposa per condurla nella sua, ma prima doveva concludere con il padre di lei gli accordi del contratto nuziale. Non era escluso che ci fossero degli elementi da discutere e che le cose andassero per le lunghe. Le cinque sagge mostrano di essere previdenti e pronte ad affrontare ogni evenienza, portando con sé dell’olio per alimentare le loro lampade, nel caso l’attesa fosse diventata più lunga del previsto. E’ quest’attenzione all’imprevisto che distingue i due gruppi e non la vigilanza: infatti il v. 5 ci dice che si assopirono tutte e si addormentarono, quando l’eventualità del ritardo si verificò. A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”. Tutte le ragazze si svegliano al grido “ Ecco lo sposo! Andategli incontro!“; ci possiamo chiedere a questo punto chi si nasconde sotto il personaggio dello sposo; nell’AT di solito l’immagine è utilizzata per indicare Dio (vedi Ger 31,32; Is 54,5; Os 2,18), ma nel NT è ben attestato il riferimento a Cristo (cfr. Mt 9,15; Gv 3,29; 2Cor 11,2; Ef 5,21-33; Ap 21,2.9; 22,17). La parabola sulla bocca di Gesù intendeva l’arrivo imprevedibile del regno di Dio (lo sposo), ma nel contesto matteano lo sposo è sicuramente il Figlio dell’uomo, che si identifica con Gesù (del resto da 24,29 a tema è proprio il ritorno glorioso di costui). Di fronte all’arrivo delle sposo le vergini stolte si rendono conto di aver bisogno di olio, ma si scontrano con il rifiuto delle sagge e sono costrette a recarsi dai venditori. Trattandosi di un racconto non deve sorprenderci che si dia per scontato che i negozi siano aperti a tutte le ore del giorno e della notte! Il netto rifiuto opposto dalle sagge sconcerta un po’, ma nei versetti successivi diverrà più chiaro il senso di questo diniego e anche di cosa sia simbolo l’olio. Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. 11 Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. Eccoci all’epilogo del racconto: con lo sposo entrano al banchetto le vergini che erano pronte, mentre le altre restano chiuse fuori. L’immagine della porta chiusa ha un che di ineluttabile e definitivo che richiama il tenore apocalittico dell’avvertimento. Le escluse però non si danno per vinte e implorano da fuori: Signore, signore, aprici!Ma la risposta dello sposo, chiamato Signore, è molto dura: In verità io vi dico: non vi conosco (il v. 12 ha un parallelo in 7,23 e Lc 13,25-27). L’espressione significa in questo contesto: non voglio avere nulla a che fare con voi (come in Mt 26,74, nel rinnegamento di Pietro) (Jeremias). L’atteggiamento superficiale, poco vigilante, delle cinque ragazze ha causato la loro impreparazione nel momento cruciale dell’arrivo dello sposo e l’esclusione dalla festa di nozze, ossia dal Regno. E’ chiaro che la mancanza dell’olio (del v. 8) va identificata con un atteggiamento esistenziale negativo, condannato dall’evangelista nel suo insegnamento rivolto alla comunità giudeo-cristiana, preoccupata per il ritardo della parusia, del ritorno del Figlio dell’uomo. Così commenta p. Dalmazio Mongillo op: La lampada è comune a tutte le vergini, l’olio che le une rifondono è dono che esse hanno accolto da Colui che lo accresce. Ogni vergine deve amorosamente alimentare il rapporto con colui che viene, prima che l’olio dell’amore venga meno. Per questo non può essere trasferito dall’una all’altra, può essere solo ricevuto da chi può darlo a tutti. L’olio del rapporto d’amore non può essere acquistato e vissuto per interposta persona. Lo dona lo Sposo che ne è la riserva e che lo travasa in vasetti piccoli. La cosa importante non è averne molto, ma vigilare perché non venga meno e la lampada resti accesa fino all’arrivo dello sposo. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora. La parabola si conclude con un’esortazione (che riprende 24,42.44) e valida per tutti i tempi. La vigilanza va intesa come un atteggiamento vitale complessivo fatto di desiderio e attenzione, di amore operoso e di speranza.Riletta nella prospettiva del fine ultimo, la parabola ne illumina aspetti di grande rilievo. Lo Sposo ama per primo, l’attesa non è causa dell’incontro, ma esso non si realizza senza l’attesa. (D. Mongillo in Per lo Spirito in Cristo al Padre, Ed. Qiqajon, pag. 16-19)

Monastero Matris Domini

Cristo-Redentor1Da Vangelo di Matteo 23,1-12

In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente.

Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».

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Gesù parla apertamente alla folla e ai discepoli di persone che in Israele esigono per sé il titolo di “maestri”: persone degne di stima in quanto appassionati nello studio delle Scritture e della tradizione profetica, ma povere di testimonianza. La sapienza diventa per loro motivo di onore più che sentiero da percorrere, parola da incarnare insieme a tutti. E quando la Parola di Dio invece che essere servita, viene usata per sé, diventa non solo sterile, ma motivo di condanna. Ecco perché Gesù, Parola vivente del Padre, Scrittura fatta carne, può apertamente additare la loro vita come non confacente a ciò che proclamano. Chi ama non ha bisogno di leggi perché il pensiero di dispiacere alla persona amata le consente di vivere in maniera a lei gradita. E non c’è nulla che non sia scritto nel vocabolario dell’amore. La necessità di norme e precetti nasce quando il legame con Dio e con gli altri è un legame di timore, di potere o di soggezione. Le vie del regno sono tracciate nella libertà e nella gratuità, aprono orizzonti sconfinati agli sguardi innamorati, offrono meraviglie da contemplare e l’attesa è già piena della presenza della persona amata, Gesù Signore. Non esiste il dovere per chi ama, perché l’amore chiede una sana curiosità: si sta lì ad apprendere tutto ciò che può essere gradito all’altro; come in una gara si cercano tutte le possibilità perché l’altro si sorprenda e viva il dono di una premura senza fine. Nell’amore nessuno è maestro se non Colui che è Amore. Tutti siamo figli in crescita. La legge dell’amore è quella di chi si china: basta vedere una mamma che non si sente umiliata quando si abbassa alla statura del suo bambino per accudirlo. Quando la paternità di Dio passerà in noi al punto da dare agli altri la percezione di essere amati senza misura, allora potremo accettare di essere chiamati padri e madri. Ma finché il nostro amore conosce limiti e condizioni, potremo dire a noi stessi di non aver gustato fino in fondo l’abbraccio dalla misericordia del Padre. Forse perché in qualche modo ci sentiamo capaci di amare e non ci accorgiamo di quanto sia inquinato il nostro bene per gli altri. Sia il nostro desiderio imparare ad amare, lasciandoci amare…

CONTEMPLAZIONE

Signore, crocifisso dall’Amore, insegnaci la mansuetudine e la passione di chi sa che nulla e nessuno può essere “nemico” quando si ama. Il cuore di Dio non conosce altro che figli, creature da sostenere e accompagnare. Fa’ che guardando al tuo amore, al tuo abbandonarti con fiducia nelle nostre mani, possiamo imparare ad allargare le braccia a chiunque per stringere in un abbraccio amicale i fratelli tutti, i più bisognosi e i più saggi, i più deboli e gli eroi, tutti. Ognuno porta in sé una richiesta di amore. Che io possa ascoltare, come fai tu, il cuore di chi mi passa accanto per non lasciare vuoti di amore. La tua disponibile presenza che silenziosamente si offre all’uomo narra la bontà del tuo essere per noi. Tu, maestro, ci nutri di te e ci insegni ad essere figli. Anche tu sei stato e sei Figlio del Padre. Nel dono di un reciproco sguardo che ricrei possano i nostri vincoli ristorarsi alle fonti della tua Vita.

Monastero Janua Coeli

 

Dal Vangelo di Matteo 22, 34-40

IMMXXX2In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Gli rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

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Nel racconto dell’ultima settimana di Gesù, la liturgia salta il discorso che Gesù fece con i sadducei (Mt 22,23-33). Si tratta della famosa questione della donna che aveva sposato uno dopo l’altro sette fratelli senza averne figli, questione direttamente collegata con la risurrezione, che i sadducei non ammettevano. Nel brano di oggi i nemici di Gesù tornano alla carica. Si tratta ancora dei farisei e il motivo è sempre quello di trarre in inganno Gesù. Essi lo interpellano su una delle questioni fondamentali dell’insegnamento farisaico: quale è il più grande dei comandamenti? La risposta di Gesù inizialmente avrebbe dovuto trovarli d’accordo: anch’essi pensavano che l’amore verso Dio valesse più di tutti gli altri comandamenti. Ma poi nella seconda parte della sua risposta Gesù li mette con le spalle al muro: il secondo comandamento, il più simile al primo è l’amore per il prossimo, ed essi che stavano complottando per togliere di mezzo Gesù non stavano certo dando un buon esempio! I farisei non sembra abbiano replicato alle parole di Gesù. Matteo continua la narrazione con una domanda che Gesù stesso rivolge loro (Mt 22,41-46), riguardante il Figlio di David. Evidentemente si sono sentiti scoperti e non avevano più nessun argomento per giustificarsi.

In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme, Gesù era riuscito a vincere anche le cavillose argomentazioni dei sadducei. I farisei non si danno per vinti. Si radunano insieme. Il verbo usato è synago, dal quale viene il termine sinagoga. Si tratta forse di un accenno ironico al riunirsi dei giudei, per fare del male e non per ascoltare la Parola del Signore. e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: I farisei mandano avanti uno dei loro campioni, un dotto, esperto nella Legge di Mosé. Ma il loro intento viene subito dichiarato: si interroga Gesù per metterlo alla prova. «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». La questione era molto sentita e dibattuta in ambito farisaico. In particolare nella corrente che faceva capo al maestro Hillel si ammetteva una gerarchia tra i precetti (che distingueva tra precetti “leggeri” e “gravi”) e anche la possibilità di riassumere tutto il contenuto della Torà in un unico principio, il grande precetto. Gli rispose: «”Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. 38Questo è il grande e primo comandamento. Nella sua risposta Gesù sembra dire cose già risapute. Egli richiama due precetti che nella Legge avevano già grande importanza. Il primo era parte integrante dello Shemà Israel, il credo fondamentale del popolo di Dio. Con il termine “tutta la tua mente” Matteo sostituisce il termine che trovava nella bibbia greca dei Settanta “con tutte le tue forze”.4l secondo poi è simile a quello: “Amerai il prossimo come te stesso”. La novità introdotta da Gesù è quella di aver messo in relazione diretta il comandamento dell’amore di Dio con quello del prossimo. Sebbene i due precetti fossero ricordati nella Torà nessuno li aveva mai paragonati. Egli li ha affermati “simili”. Su questo punto si poggia la polemica antifarisaica di Matteo. Sull’amore di Dio i farisei erano pienamente d’accordo con Gesù, ma egli citando il secondo comandamento dell’amore del prossimo li accusa di non rispettare nemmeno l’amore per Dio. I due comandamenti si completano e si rispecchiano a vicenda. Non c’è vero amore di Dio se non c’è amore verso il prossimo. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». Tutta la Torah, ma anche i Profeti (altra punta polemica verso i farisei che non avrebbero mai abbassato la Legge al livello dell’insegnamento dei Profeti) sono appesi a questi due comandamenti. Potremmo immaginarli come i due cardini sui quali si regge e gira una porta, un cardine in basso e uno in alto. La porta ha bisogno di entrambi i cardini per funzionare correttamente! Queste parole così dure (confrontate i due brani paralleli di Mc 12,28-34 e Lc 10,25-28), rispecchiano la situazione che la comunità di Matteo stava vivendo al tempo della stesura del Vangelo. Si era infatti dopo il 70 d.C., dopo la distruzione del tempio e questo periodo fu segnato da forti contrasti tra i farisei e i cristiani provenienti dal giudaismo. Queste tensioni fecero sì che Matteo indicasse i farisei come i più fieri oppositori di Cristo.

Meditiamo

– Mi capita mai di voler mettere alla prova qualcuno con l’inganno?

– Quale è per me il più grande comandamento del Signore?

– Quali sono le caratteristiche del mio amore verso il prossimo (e, di riflesso, verso Dio?)