Via Giuseppe Zanardelli, 32

00186 Roma - Italia

+39 06 6840051

Fax +39 06 56561470 segreteria@usminazionale.it

Il Vangelo della domenica

E’ lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?

DATE A CESARE1Dal Vangelo di Matteo, 22,15-21

In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

………………………………………..

Matteo continua a raccontarci cosa sia avvenuto nell’ultima settimana che Gesù ha trascorso su questa terra. Dopo le tre parabole che egli aveva dedicato ai capi dei sacerdoti e agli anziani, vi sono tre dispute architettate per cogliere in fallo Gesù. La prima, quella di questa domenica (Mt 22,15-21) è escogitata dai farisei in collaborazione con gli erodiani, e riguarda il rapporto del credente con il potere civile (in quel caso addirittura il potere straniero che occupava Israele). La seconda, che la liturgia salta (Mt 22,23-33), riguarda la risurrezione dei morti ed è provocata dai sadducei. La terza vede un’altra volta i farisei salire sul ring per chiedere a Gesù quale sia il precetto più grande di tutta la Legge (Mt 22,34-40) e se ne parlerà domenica prossima.

In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi. Gesù è stato molto duro con i capi dei sacerdoti e gli anziani. Ha raccontato loro tre parabole il cui senso era quello del rifiuto e dell’indegnità del popolo di Israele. Qui si parla di farisei che se ne vanno. Si tratta certo dei sacerdoti che facevano parte di questo gruppo. Se ne vanno a complotto per cercare il modo di cogliere in fallo Gesù. L’espressione “tennero consiglio” (symboùlion) è il termine tecnico per indicare la convocazione del sinedrio, convocato dai sommi sacerdoti, di cui si parlerà più tardi nel corso del racconto della passione (Mt 27,1.7; 28,12). Matteo lo anticipa qui, per ricordarci che la condanna di Gesù era stata architettata già da tempo. L’espressione che troviamo “cogliere in fallo” letteralmente si traduce con “prendere al laccio con una parola”: è un semitismo molto espressivo che ci fa comprendere come possa bastare una parola sola per mettere nei guai una persona. Matteo usa questo termine solo in questa occasione. E’ evidente l’atteggiamento ostile dei farisei nei confronti di Gesù.

Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni a via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. I capi dei farisei non vanno direttamente da Gesù (ci andranno per la terza disputa, cf. Mt 22,34-40). Mandano i loro discepoli. Non solo: c’è anche la presenza degli erodiani. Questa si spiega con la natura della disputa. Erode era un collaborazionista del potere dei romani su Israele. Qualora Gesù avesse espresso delle parole di disapprovazione nei confronti dei romani e del loro pretendere delle imposte essi sarebbero stati i primi a denunciarlo presso gli occupanti come un sovversivo. Erodiani e farisei erano nemici: gli uni collaboravano con il potere dei romani, gli altri lo consideravano un castigo di Dio. Però quando si tratta di mettere in difficoltà Gesù si mettono d’accordo! Il preambolo della domanda è fin troppo adulatorio, sembra quasi una provocazione e di fatto ottiene da parte di Gesù delle parole di biasimo (“ipocriti”). Il dire “non guardi in faccia agli uomini” potrebbe sembrare un’istigazione a sfidare il potere di Cesare.

Dunque, dì a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Il tributo di cui i farisei parlano era la tassa pro-capite imposta dai romani dopo l’occupazione della Palestina avvenuta nel 6 a.C. (il cui nome tecnico era census). Questo veniva richiesto a tutti gli abitanti della Giudea, Samaria e Idumea (uomini, donne, schiavi) dai dodici fino ai sessantacinque anni. Il Cesare di cui si parla è Tiberio Cesare, imperatore di Roma dal 14 al 37 d.C. Il tributo era di un denaro d’argento a testa, ossia la paga quotidiana di un bracciante. Il pagamento di questo tributo era una condizione essenziale per poter vivere in pace come sudditi dell’impero romano ed esercitare i diritti derivanti da questo stato.

Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Non c’è bisogno di avere la conoscenza del cuore umano che aveva Gesù per capire che quel lungo preambolo e la domanda che gli veniva posta non erano altro che tentativi cattivi di incastrarlo. Gesù sa bene che qualunque sua risposta diretta lo avrebbe messo in una posizione difficile. Se avesse detto che il tributo era lecito avrebbe avuto contro di sé gli zeloti e tutti coloro che mal sopportavano l’occupazione romana. Se avesse detto di no, gli erodiani lo avrebbero denunciato ai romani. Quindi è legittima la sua protesta: perché mi tentate, perché mi mettete alla prova? Essi sono davvero dei falsi (ipocriti).

Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Ma Gesù, risponde alla domanda in modo indiretto. Sposta l’attenzione sul fatto oggettivo, in se stesso. Esisteva una moneta speciale, coniata dai romani, per pagare questo tributo e il fatto che gli interlocutori di Gesù gliela possano mostrare subito significava che vi era una certa facilità nel reperire e maneggiare tale tipo di denaro. Secondo un’interpretazione stretta del secondo comandamento (Es 20,4) una moneta recante un’immagine e l’iscrizione che divinizzava l’imperatore dovevano considerarsi idolatriche. Eppure anche i farisei ne facevano uso in modo piuttosto disinvolto. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio!». La moneta portava l’immagine dell’imperatore Tiberio, e l’iscrizione che diceva Tiberio Cesare, augusto figlio del divino Augusto, sommo sacerdote. Dall’altro lato vi era sua madre Livia, raffigurata come dea della pace. Gesù mette la sua risposta su di un piano di appartenenza. Se la moneta riporta l’immagine di Cesare è da dare a Cesare. Tutti i vantaggi che il popolo di Israele godeva grazie alla presenza dei romani sul suo territorio dovevano essere riconosciuti e ripagati con questo tributo. Ma il potere di Cesare per quanto grande non poteva essere assoluto. Vi è anche una “moneta” che porta l’immagine di Dio, cioè l’uomo (Gn 1,26). Quindi ciò che porta l’immagine di Dio va reso a Dio, deve dedicarsi a Lui. Durante la storia cristiana si ha avuto la tendenza a usare questo testo come base della dottrina dei rapporti tra «Chiesa e Stato», giungendo spesso alla conclusione che si tratta di due sfere separate. Matteo per conto suo era più interessato a mostrare la capacità di Gesù di evitare i tranelli tesigli dai suoi avversari e alla sua esortazione a prestare altrettanta (e anche maggiore) attenzione a “quello che è di Dio” rispetto a “quello che è di Cesare”.

Meditiamo

– Mi capita mai di cercare di mettere Dio con le spalle al muro davanti alle mie richieste?

– Quale è il mio atteggiamento verso il potere politico? – In quale modo sono chiamato/a arealizzare il “dare a Dio quello che è di Dio”?

Monastero Matris Domini – Bergamo

Tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze…

6905_750_1Dal vangelo secondo Matteo      Mt 22,1-14

In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole e disse: «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero.

Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”.

Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali.

Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

…………………………………………….

Termina oggi la trilogia di parabole pronunciate da Gesù ai capi dei sacerdoti e agli anziani, nel tempio di Gerusalemme. Questo dialogo, lo ricordiamo, avvenne all’indomani dell’entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme e qualche giorno prima della sua condanna a morte. Anche in questa parabola l’argomento principale è il rifiuto da parte di Israele di entrare a fare parte della gioia di Dio. Qui non si parla più di vigna, ma di nozze regali. Il banchetto era già dal tempo dei profeti il simbolo della pienezza della vita in Dio (cf. la prima lettura, Is 25,6-10a). Ad esso viene aggiunta la caratteristica delle nozze e del figlio del re, tutti elementi che per i cristiani significano la vera vita insieme a Gesù. E’ lui il vero sposo (cf. Mt 9,15). Ma tutta questa feste e questa gioia può essere rifiutata. Gli invitati hanno dei comportamenti molto strani: si dedicano alle loro faccende oppure oltraggiano e uccidono i servi. Allora il re rivolge il suo invito a tutti, cattivi e buoni. Tutti possono entrare nel regno di Dio, però il quadro finale riguardante la veste di nozze ci ricorda che vi è un cambiamento da operare, bisogna avere l’abito della festa, il desiderio di essere più puliti, più presentabili, per poter entrare nell’amicizia e nella comunione con Dio. In quel tempo, Gesù riprese a parlare con parabole, ai capi dei sacerdoti e ai farisei e disse: Il discorso ha ancora gli stessi interlocutori: i capi dei sacerdoti e i farisei. «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Questa parabola ha il suo parallelo nel vangelo di Luca (14,15-24), ma diversi particolari vengono caricati di significato (là era un semplice uomo a dare una cena speciale, qui un re che dà un banchetto per le nozze del figlio) e viene aggiunto il quadro finale dell’uomo senza la veste nuziale. Matteo ha dato maggiore risalto all’allegoria della storia dei rifiuti di Israele. Con l’appendice vi è però un ammonimento anche alla comunità cristiana di Matteo. Coloro che ricevono il regno di Dio al posto di Israele non lo ricevono passivamente. Anche loro devono mostrare il desiderio di esserne degni, devono disporsi ad entrarvi con la disponibilità di cambiare vita. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono stati già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Matteo raddoppia l’invio dei servi, forse per simboleggiare sia l’invio dei profeti prima di Cristo, sia quello degli apostoli dopo la risurrezione di Cristo. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. A differenza dei vignaioli della parabola precedente, gli invitati mostrano due atteggiamenti diversi: l’indifferenza, il seguire i propri interessi e la violenza. Il parallelismo con gli inviati di Dio lungo i secoli è chiaro. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Qui c’è un allusione alla distruzione del tempio di Gerusalemme avvenuta a opera dei Romani nel 70 d.C.. Matteo legge questa disgrazia come un preciso castigo di Dio nei confronti del suo popolo che non ha voluto accogliere i missionari cristiani. Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; Anche in questa parabola vi è la condanna di Israele. Israele non ha aderito all’amore di Dio, ebbene, la sua eredità, il regno dei cieli sarà dato a un altro popolo. L’indegnità non è altro che il rifiuto. Chi rifiuta i discepoli di Cristo, rifiuta anche il Signore. La “dignità” è una categoria fondamentale del discorso cristiano. Vi sono coloro che sono degni di accogliere il Vangelo e coloro che non si dimostrano degni di accoglierlo (cf. Mt 10,11ss). Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Il rifiuto di Israele è inspiegabile e sconcertante, ma d’altra parte si rivela provvidenziale, poiché apre la via alla missione presso i pagani, ossia all’invito rivolto a tutti. Gli incroci delle strade sono quelli di città ma anche di campagna. L’invito è esteso a una zona molto vasta. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. I servi radunano quelli che trovano per strada. Nella Chiesa sono stati chiamati gli indegni, quelli che non erano in alcun modo preparati (coloro che non provenivano dal popolo eletto di Israele e perciò non attendevano minimamente il Messia). Non solo, ma tra di essi vi sono i buoni, ma anche i cattivi: la mescolanza di buoni e cattivi all’interno della Chiesa è il riflesso della gratuità dell’invito. Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Anche qui troviamo l’appellativo “Amico” in tono di rimprovero. E’ come se il re (e anche il padrone della vigna di Mt 20,13) si dimostrasse sorpreso da questa offesa fatta da una persona cara: ti ho invitato ma tu non ti sei dato neanche una ripulita prima di entrare alla festa! Anche se l’invito è gratuito, anche nella Chiesa, nuovo Israele, c’è ancora qualcosa da fare. Bisogna prepararsi per la festa, indossare la veste delle nozze. I padri della Chiesa vi vedono il vestito battesimale, vestito di fede e di opere corrispondenti: “la veste di lino sono le opere giuste dei santi” (Ap 19,8). Gli stessi rabbini parlano della veste bianca, dell’abito pulito, come di un segno di penitenza e di opere buone. Allora il re disse ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Anche i membri della Chiesa saranno quindi giudicati, come Israele, sulle opere degne del regno di Dio. L’espressione “pianto e stridore di denti” è molto usata in Matteo. Indica la condizione di coloro che sono stati esclusi dal banchetto delle nozze, dalla festa di Dio. Il pianto è di chi troppo tardi si pente e ammette il proprio errore. Lo stridore di denti è di chi si rode dalla rabbia per avere fatto la scelta sbagliata e dall’invidia per coloro che invece sono stati trovati degni di partecipare alla festa. Poiché molti sono i chiamati, ma pochi eletti». La chiamata non garantisce l’elezione: tra la vocazione gratuita e il giudizio escatologico permane la questione aperta della dignità cristiana. Tutti sono chiamati alla salvezza: l’esservi ammessi o meno dipende dalla nostra cooperazione alla grazia di Dio.

Meditiamo

– Mi è mai capitato di rifiutare l’invito di Dio per dedicarmi ai miei campi o ai miei commerci?

– Chi sono i cattivi e i buoni che fanno parte della mia comunità cristiana?

– Perché quando siamo invitati a nozze ci andiamo puliti e ordinati, con un abito bello ed elegante?

Monastero domenicano Matris Domini

Sarà dato a un popolo che ne produca i frutti…

Dal Vangelo di  Matteo     21, 33-43

VANGELO_8_101In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre.

La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo.

Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo».

E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi? Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».

………………………………………………………………………..

Il brano di questa domenica è strettamente seguente a quello di domenica scorsa. Gesù nel tempio sta parlando ai capi dei sacerdoti e agli anziani e con tre parabole sta dicendo loro che il popolo di Israele con i loro capi (essi stessi) non hanno accolto il Messia che attendevano e ne subiranno le conseguenze. Il brano di questa domenica è la seconda parabola, quella comunemente chiamata “dei vignaioli omicidi”. Veramente in questa storia non si parla di vignaioli ma di georgoi, cioè di contadini, di agricoltori. Più che di una parabola si tratta di un’allegoria storica: ogni elemento è simbolo di una realtà ben precisa (gli agricoltori-Israele, il padrone-Dio, i messi-i profeti…). Non sembra poi essere un esempio tratto dalla realtà. E’ inverosimile che dei contadini si comportino in questo modo nei confronti dei messi e del figlio del loro padrone. La parabola però sarà molto efficace, poiché nei 45-46, che la liturgia non ci fa leggere, si dice: “I sommi sacerdoti e i farisei, avendo udito le sue parabole, capirono che parlava di loro. E cercavano di arrestarlo, ma ebbero timore delle folle, perché lo consideravano un profeta”. Il rifiuto di Gesù continua e si spinge alle sue estreme conseguenze.

In quel tempo Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. Gesù dunque, dopo la parabola dei due figli chiamati nella vigna, che gli aveva dato l’occasione per ricordare ai sommi sacerdoti che avevano sbagliato a non accogliere Giovanni, rincara la dose e racconta loro un’altra parabola. Questa è ancora più esplicita. I capi di Israele non hanno accettato nemmeno i profeti, li hanno trattati male, li hanno uccisi, e stanno per uccidere anche il Figlio. Questo versetto è la ripresa di un cantico di Isaia, che leggiamo nella prima lettura di questa domenica (Is. 5,1-7). Citando queste parole, che i suoi uditori conoscevano bene, egli pone subito con chiarezza la sua allegoria. Infatti Isaia durante il cantico affermerà: “La vigna del Signore è la casa di Israele; gli abitanti di Giuda la sua piantagione preferita” Quindi il Signore cambierà i vignaioli (le guide del suo popolo), ma non abbandonerà il suo popolo.

Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Gli agricoltori messi nella vigna non erano mezzadri, bensì semplici braccianti, quindi dovevano consegnare al padrone tutti i frutti. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Ma i braccianti non vogliono saperne di fare il proprio dovere. Mentre il parallelo di Marco parla di servi inviati singolarmente che subiscono violenza in modo graduale, Matteo parla di diversi servi mandati insieme e sottoposti subito ai più duri trattamenti. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. Con queste due riprese Matteo sembra alludere ai due gruppi di profeti della storia di Israele, i profeti anteriori e quelli posteriori, secondo la suddivisione della Bibbia ebraica. Comunque tutti questi vengono trattati allo stesso modo. I contadini non lavorano né per amore del padrone né per amore della vigna, vogliono solo accaparrarsi di questa a spese del proprietario. A differenza del cantico di Isaia 5 in cui era la vigna a non dare frutto, qui non si parla dell’entità del raccolto. La colpa è dei contadini che non vogliono proprio saperne del padrone e dei suoi inviati. Il simbolo è evidente. Gli agricoltori sono le guide del popolo di Israele che invece di portarlo a una vera comunione con Dio, lo sfruttano per il proprio interesse e il proprio prestigio.

Da ultimo mandò loro il proprio figlio, dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. L’espressione che troviamo tradotta da ultimo, alla fine, è un’espressione di aggancio che ci riporta al vangelo di domenica scorsa (vv. 21,29 e 32): con la stessa espressione di parla del primo figlio che poi si pentì e andò a lavorare. I capi dei sacerdoti e gli anziani non si sono pentiti nemmeno “alla fine”. Alla fine dunque il padrone decide di rischiare il tutto per tutto e a inviare il proprio figlio.

Ma i contadini, visto il figlio, dissero fra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità”. Questa parabola è come una sceneggiatura drammatica di tutta la storia della salvezza dall’Antico Testamento fino a Gesù. Egli viene dopo i profeti. Egli è l’erede, a cui spetta la vigna. Nella Scrittura c’è una relazione stretta tra l’erede e l’eredità, tra la vigna e il Figlio (cf. il salmo della vigna 80,15-16). Potrebbe darsi che i vignaioli progettino di uccidere il figlio perché pensino che il padrone fosse morto e che il figlio stesse venendo per prendersi la sua eredità. Questo non attenua la loro ferocia. La scena ricorda anche Gen 37,18-20: i figli di Giacobbe che vedono da lontano arrivare il loro fratello Giuseppe e si accordano per ucciderlo. Lo presero, lo cacciarono fuori della vigna e lo uccisero. Anche il modo in cui viene raccontato l’omicidio del figlio è simbolico. La vigna è simbolo di Gerusalemme. Il figlio, come Gesù viene uccise fuori della vigna, cioè fuori della città santa di Gerusalemme (cf. Eb 13,12).

Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Ora Gesù coinvolge nella storia i suoi uditori e fa emettere loro la condanna che i colpevoli si meritano. Come il profeta Natan fece con Davide, anche Gesù si mette su un piano di giustizia umana e fa sì che i colpevoli si condannino da soli.

Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo». La sentenza è equa. In greco suona come un gioco di parole Kakous kakos apolesei, i cattivi farà perire in modo cattivo. Il male commesso doveva essere punito con un male della stessa entità.

E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: “La pietra che i costruttori hanno scartato è la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”? Gesù non loda né rimprovera i suoi interlocutori. Risponde loro con un passo della scrittura che dà la chiave di interpretazione a tutto il suo racconto. Poiché le guide di Israele non hanno consegnato i frutti che avrebbero dovuto far crescere e consegnare, il Signore si rivolgerà ad altri, a coloro che i capi di Israele hanno disprezzato (soprattutto Gesù). In questa citazione sembra leggersi anche il fatto che gli agricoltori non erano stati capaci nemmeno di far produrre frutti alla vigna del loro padrone.

Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti». Ecco quindi la sentenza finale nei confronti dei sommi sacerdoti. La vigna, il regno di Dio, sarà loro tolto. Egli lo darà a una “nazione” ethnos che lo farà fruttificare. Chi è questo ethnos? Potrebbero essere i pubblicani e le prostitute della parabola precedente (Mt 21, 31) oppure i “cattivi e buoni” che sostituiranno gli invitati della parabola seguente (Mt 22,10), cioè coloro che hanno accolto l’annuncio che invece i capi di Israele hanno disprezzato. In questo modo ethnos può essere identificato con la Chiesa, il nuovo Israele che prenderà il posto di quello originario. Essa è formata da coloro che, nonostante provengano da situazioni di peccato e di lontananza da Dio, hanno creduto in Gesù e lo hanno seguito. Essi avranno così il privilegio di poter entrare nella vigna prediletta di Dio, di ereditare il Regno dei cieli.

Meditiamo

– Che opere mi ha chiesto il Signore di compiere quando mi ha mandato nella sua vigna?

– Cosa significa sfruttare la vigna per i miei interessi o per il mio prestigio?

– Quando e perché ho respinto coloro che il Signore mi ha mandato per avere i miei frutti?

– Chi sono i nuovi vignaioli che daranno al padrone il frutto a suo tempo?

Monastero Domenicano Matris Domini

 

Pentitosi, andò. I pubblicani e le prostitute vi passano avanti…

Dal Vangelo  di Matteo       Mt 21, 28-3

XXVI domenica1In quel tempo, disse Gesù ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, và oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Dicono: «L’ultimo».  E Gesù disse loro: «In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.  E` venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli». 

……………………………………………………………….

 

Domenica scorsa abbiamo visto l’invidia dei primi credenti verso coloro che arrivavano al cristianesimo dal paganesimo o da una vita disordinata. Con il vangelo di questa domenica inizia una trilogia, che seguiremo per tre domeniche, in cui si incontra una realtà ancora più amara: i primi credenti, cioè gli Israeliti, il popolo dell’alleanza, non vuole accettare Gesù. Gesù entrato trionfalmente a Gerusalemme (Mt 21,1-11) si mette a insegnare nel tempio. Si avvicinano a lui i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo per chiedergli con quale autorità egli insegni. Ma Gesù risponde con una domanda a trabocchetto, chiedendo loro se il battesimo di Giovanni provenisse dal cielo o dagli uomini. Questo mise gli interlocutori in difficoltà perché la loro risposta avrebbe messo a nudo la loro vera opinione riguardo a Giovanni Battista. Così essi scelsero di non rispondere e furono disarmati nella loro offensiva (Mt 21,23-27). Allora Gesù continua il proprio insegnamento con tre parabole. 1. I due figli mandati a lavorare nella vigna (il vangelo di questa domenica) 2. I vignaioli omicidi (Mt 21,33-46) 3. Gli invitati alle nozze che rifiutano l’invito (Mt 22,1-14) In queste tre parabole si sottolinea il costante rifiuto della salvezza da parte dei capi d’Israele. E’ come una sintesi di tutta la storia di Israele. Il rifiuto si ripete sistematicamente, davanti a tutti gli inviati di Dio: Giovanni Battista, i profeti dell’Antico Testamento, il Figlio di Dio, i profeti del Nuovo Testamento, i missionari cristiani. Nella prima parabola, quella dei due figli, il rifiuto è verso il Padre e l’accento viene posto sul fatto che i pagani e i peccatori in fondo sono migliori del popolo eletto di Dio, poiché hanno accolto il messaggio di Giovanni Battista e poi di Gesù stesso. In quel tempo Gesù disse ai capi dei sacerdoti e degli anziani del popolo: 28«Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: «Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna». Gesù, come suo solito, raccontando la parabola coinvolge i propri uditori ad emettere un giudizio. I suoi interlocutori qui sembrano essere in primo luogo i sommi sacerdoti e gli anziani con cui aveva avuto un piccolo dialogo sul battesimo di Giovanni Battista nei versetti precedenti. Già con questa domanda d’inizio (che ve ne pare?) li avverte che saranno chiamati in causa. Come nella parabola del figliol prodigo (Lc 15,11ss.) i due figli ci mostrano il modello di due comportamenti opposti che vengono esasperati per farci comprendere meglio il messaggio. Il figlio viene invitato “oggi” a lavorare nella vigna. L’oggi sottolinea l’importanza di aderire subito all’invito del Signore ad accoglierlo e a seguirlo. La vigna lega questa parabola con quella seguente dei vignaioli omicidi. La vigna nell’Antico Testamento è uno dei simboli più importanti per indicare Israele, il popolo prediletto da JHWH. Ed egli rispose: «Non ne ho voglia». Ma poi si pentì e vi andò. La risposta del primo figlio è secca e un po’ irrispettosa, come capita spesso nei dialoghi tra genitori e figli. Però, alla fine, si pente e va nella vigna, cambia direzione. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: «Sì, signore». Ma non vi andò. Il padre rivolge la stessa domanda anche al secondo figlio. Costui risponde affermativamente, ma in un modo un po’ inusuale. Dice “Io, Signore!”, mettendo in risalto la propria buona volontà, la propria bravura. Ricorda un po’ l’atteggiamento del fariseo in Lc 18,9-14. Si può riflettere sul perché il secondo figlio dica di sì e poi non obbedisca. Forse teme troppo il padre/padrone, non crede che lui sappia rispettare la libertà del figlio, dice di sì per paura, non si prende la responsabilità delle sue azioni. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». Entrambi i figli sono stati incoerenti con quello che hanno detto. Però viene preferito colui che ha fatto ciò che era giusto, piuttosto di colui che lo aveva solo detto. Il fare è ciò che conta, il dire rimane sempre ambiguo. L’interpretazione che Gesù dà della parabola però va ancora più oltre. Non sottolinea soltanto il fare, ma il “pentirsi” (il verbo usato è metamélomai, proprio di Matteo, un po’ più debole di metanoeo, convertirsi). E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli». La parabola di Gesù provoca un rovesciamento inatteso nei destinatari del regno. “Pubblicani e prostitute vi precedono nel regno di Dio”, ciò significa che essi prendono il posto dei capi di Israele. Esattori di imposte e prostitute non erano soltanto “pubblici peccatori”, ma anche i peggiori collaborazionisti col potere d’occupazione romano, e i meno preoccupati di raggiungere il Regno di Dio. Ma almeno “alla fine” si sono pentiti, e pentendosi hanno fatto di più per il regno di tutti quegli osservanti che vi hanno creduto solamente a parole. La sfida del regno si gioca dunque a partire dall’accoglienza e dall’adesione alla predicazione penitenziale del Battista (cf. le parole di Mt 11,12 sui “violenti” che si impadroniscono del Regno). Anche se la venuta di Giovanni è distinta da quella di Gesù nei tempi e nei modi, tuttavia esse sono strettamente legate. Rifiutare l’una significa rifiutare l’altra. Nel v. 32 viene ripetuto tre volte il verbo “credere”. In questo contesto significa “obbedienza” alla “via della giustizia” predicata da Giovanni, che è la stessa “via di Dio” insegnata anche da Gesù (Mt 22,16), cioè la volontà del Padre che è nei cieli. Gesù e Giovanni sono coloro che hanno compiuto “ogni giustizia” (cf. Mt 3,15). La mancanza di fede in Giovanni è una mancanza di fede in Gesù, e questa parabola – con la sua attualizzazione è la migliore spiegazione alla controdomanda che Gesù aveva fatto ai sommi sacerdoti e agli anziani: “Il battesimo di Giovanni proveniva dal cielo o dagli uomini?”.

Meditiamo

– Come vedo Dio padre? Come un padrone severo, pronto a dare ordini e a punire?

– Qual è il mio atteggiamento verso la Parola di Dio? La vedo come un insieme di comandamenti da rispettare o come una storia di salvezza che entra nella mia vita?

– Mi è mai capitato di pentirmi dei “no” che ho detto al Signore? Al contrario, mi è mai capitato di parlare tanto della volontà di Dio, ma poi di non compierla nella mia vita?

Monastero Matris Domini – Bergamo

Sei invidioso perché io sono buono?

Dal vangelo secondo Matteo          Mt 20, 1-16

Domenica XXV1In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

……………………………………………..

Questo vangelo si pone quasi come una nota esplicativa nella lunga scia di reazioni provocata dalle parole di commento di Gesù dopo l’incontro con il giovane ricco che aveva rifiutato di seguirlo. Gesù aveva pronunciato la famosa frase “E’ più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli” (Mt 19,24). I discepoli rimangono sconcertati. Anche Pietro ha una reazione e chiede: “Noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne otterremo?”. Gesù risponde “Nel giorno della nuova creazione siederete su dodici troni attorno al Figlio dell’uomo assiso nella sua gloria e che già nel tempo presente riceverete cento volte le ricchezze e gli affetti che hanno abbandonato. Tutto questo però ha una condizione: “Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi primi” (Mt 19, 30). Questa affermazione si troverà anche al termine del brano di questa domenica. Tale inclusione ci avverte che la parabola degli operai inviati nella vigna serve proprio a spiegare questa specie di proverbio. Gesù rispondendo a Pietro, lo avverte: i primi (i primi chiamati, ma anche quelli che occupano i posti più importanti nella Chiesa, tra questi anche i Dodici) devono fare attenzione a non assumere atteggiamenti esclusivi o discriminatori. Nel giorno della nuova creazione le logiche puramente umane saranno completamente rovesciate. Infatti… e così comincia la parabola che stiamo per leggere.

Lectio

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna.

Questa parabola ci porta nella vita quotidiana dei campi in Palestina. La giornata lavorativa era lunga 12 ore, dalle sei del mattino alle sei di sera. L’attività agricola per eccellenza della zona mediterranea, in una terra sassosa e scoscesa è quella della vite. L’uomo padrone di casa è il proprietario terriero che assume i propri operai con un contratto giornaliero.

Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Matteo non si dilunga molto sul dialogo tra il padrone e i suoi lavoratori. Egli promette loro il pagamento di un denaro e li manda a lavorare. L’accento è posto sulla rettitudine delle operazioni. Il prezzo negoziato, un denaro d’argento per un giorno, era una buona paga.

Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: «Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò». Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre, e fece altrettanto.

Gli operai che il padrone incontra durante la giornata se ne stanno disoccupati, argoi, cioè “senza opere”. A costoro il padrone non quantifica un salario, ma promette quello che è giusto. Ciò crea un effetto di suspence: quanto sarà la loro ricompensa? A cosa corrisponde un “salario giusto”? Alle ore effettivamente lavorate o a cos’altro?

Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: «Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?». 7Gli risposero: «Perché nessuno ci ha presi a giornata». Ed egli disse loro: «Andate anche voi nella vigna».

Con l’ultimo gruppo di operai c’è un dialogo un po’ più esteso. Il padrone chiede il perché del loro rimanere inoperosi. La risposta è amara, nessuno li ha voluti prendere a giornata. L’eccesso di manodopera produce una certa disoccupazione. A costoro il padrone dà una parola di speranza (vi prendo io a giornata, nonostante sia già tardi) senza parlare del salario che intende dare loro. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: «Chiama i lavoratori e da’ loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi».

Incomincia la seconda parte del racconto, quella in cui tutto viene ricapitolato, in cui i nodi verranno al pettine. La sera era il momento di dare la paga agli operai (cf. Lv 19,13; Dt 24,15). Stavolta il padrone viene chiamato “il signore della vigna” (un’espressione Cristologica ed ecclesiale). Anche qui si sottolinea la sua correttezza: egli consegna la paga al tempo stabilito. Entra in scena un terzo personaggio: l’amministratore. Nei racconti evangelici che parlano delle scene di giudizio talvolta interviene questo intermediario. Per il pagamento si segue l’ordine inverso, per sottolineare ancora di più la scelta del padrone. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro.

Negli operai della prima ora si crea l’attesa di “ricevere di più”. Anche noi ragioniamo esattamente come loro. Se “quello che è giusto” per gli operai dell’ultima ora risulta essere un denaro al giorno, non sarebbe giusto che i primi ricevano di più? E invece ricevettero anch’essi un denaro: è questo il vertice narrativo della parabola, con un capovolgimento totale dell’aspettativa.

Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone Gli operai della prima ora cominciano a mormorare (gonghyzo), verbo quasi onomatopeico. In Matteo viene usato solo in questa occasione, in Luca è un’azione attribuita ai farisei che mormorano davanti alle azioni non del tutto ortodosse di Gesù. Cf. Lc 5,30).

dicendo: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo». Comincia qui il dialogo a cui è orientato tutto il racconto. Gli operai della prima ora brontolano non perché hanno ricevuto meno di quanto era stato loro promesso. Si indignano per essere stati “fatti uguali” a coloro che in fondo disprezzano perché non hanno lavorato il loro stesso numero di ore. Si tratta di una situazione che poteva essere avvenuta all’interno della Chiesa: come si accennava all’inizio, i primi all’interno della comunità non volevano essere considerati come gli ultimi arrivati, facevano discriminazioni, si sentivano superiori.

Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro?

Il padrone di casa si rivolge a uno di loro chiamandolo “amico”. Questo potrebbe essere inteso come un’espressione di famigliarità, di vicinanza. Però se si tiene conto degli unici altri due passi in cui questa parola viene utilizzata, il suo significato assume un colore particolare. In Mt 22,12 amico viene chiamato l’uomo che entra al banchetto di nozze del figlio del re senza avere l’abito nuziale. In Mt 26,50 Gesù chiama amico Giuda che gli ha dato il bacio nell’orto del Getsemani, segno convenzionale per coloro che lo avrebbero arrestato. Come si può intuire si tratta di due situazioni estreme, in cui chi chiama “amico” l’altro di fatto di fargli comprendere in modo familiare che ha compiuto qualcosa di sbagliato, anche se ormai è troppo tardi. Anche in questo caso il tono è di rimprovero.

Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: Il rimprovero diventa un invito a togliersi di mezzo. Il padrone ha voluto trattare tutti gli operai allo stesso modo.

non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?». Nessuno può dire al padrone come si deve comportare. Dio ha le sue logiche e non possiamo imporgli le nostre. In questo versetto vi è una contrapposizione: l’occhio cattivo (modo orientale di indicare l’invidia) e il padrone che è buono. L’occhio cattivo è quello geloso dei beni propri o invidioso dei beni altrui. E’ questo il vero problema degli operai della prima ora: non accettare che altri diventino partecipi dei loro stessi beni, della loro stessa eredità. Il padrone che è buono ricorda quel “uno solo è buono” di Mt 19,17, poco più sopra.

Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi». Dio ha dunque stravolto tutte le nostre logiche. All’interno della comunità cristiana delle origini vi erano i giudeo cristiani che pensavano di avere più importanza dei cristiani provenienti dal paganesimo poiché avevano servito il Signore da molto più tempo e provenivano da una lunga storia di fedeltà al Dio di Israele. Matteo li ammonisce: i primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi. E’ necessario essere buoni come il Signore, come il padrone della vigna. Egli vuole che tutti siano salvi e che tutti si accettino tra di loro come fratelli.

Meditiamo

– Quali sentimenti suscita in me la parabola degli operai chiamati alla vigna?

– Mi capita mai di sentire invidia o rancore per qualcuno che riscopre la fede dopo una vita “disordinata”?

– Quali fatiche trovo nell’accogliere gli altri come fratelli e sorelle?

– Cosa significa per me “lavorare nella vigna”?

Monastero Matris Domini – Bergamo

Quante volte dovrò perdonare mio fratello?

Dal Vangelo di Matteo 18,21-35

17_1

In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.

Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.

Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

………………………………………………………………………………

Pietro, chiedendo a Gesù la misura del perdono, cerca il limite per la comprensione dell’altro. È una domanda che può apparire di buon senso e che comunque vuole superare l’istintivo occhio per occhio e dente per dente. Pietro è pronto a sopportare il torto subìto più di quanto richiesto. Gesù rispondendo abolisce ogni misura. Il perdono è come l’amore, senza limiti e senza confini. E impone a Pietro e ai discepoli di disporsi ad un perdono illimitato: settanta volte sette. Cioè sempre. La parabola narrata da Gesù contrappone alla logica del calcolo e della vendetta quella dell’amore e del perdono senza limiti. Nel Vangelo è chiara la convinzione che solo in tal modo si disinnesca il meccanismo che rigenera continuamente il peccato, la divisione e la vendetta tra gli uomini. La forza perversa del male, dell’odio, della guerra, non irretisce solo i violenti, essa rende tali tutti coloro che ne sono raggiunti. E li imprigiona in una logica dalla quale non si esce neanche con una misura pure abbondante di perdono quale sono le sette volte di Pietro.

Gesù, vedendo la perplessità di Pietro, parla di un re che fa i conti con i servi. Uno ha un debito catastrofico: diecimila talenti. Il servo abbozza una promessa che in verità non potrà mai mantenere. Questo servo non è una eccezione, è la norma. Tutti infatti siamo dissipatori di beni non nostri. Quel che abbiamo è frutto di grazia e dei talenti affidatici. Siamo perciò debitori, come quel servo, ed abbiamo accumulato verso il padrone un debito enorme. Come? Anzitutto credendoci padroni di quello che ci è stato solo affidato. E poi con l’attrazione adolescenziale e sconsiderata per il rischio, che finisce per non dare valore a niente. Oppure con l’ubriacatura dell’abbondanza, che porta solo a consumare le cose come una droga, divenendo succubi della logica della soddisfazione. Gesù ci ricorda che siamo tutti debitori e che solo la compassione del padrone può sanare il debito. Se questa coscienza diventa personale come accadde a un altro “debitore” del Vangelo qual era il figliol prodigo che “rientrò in se stesso”, ecco che si può trasmettere ad altri la misericordia che viene usata, in un contagio opposto a quello della violenza e del male. Ma se, come per questo servo descritto da Gesù, si ritorna rapidamente prigionieri della stessa mentalità che permette di accumulare un debito enorme, ecco che si guarda con durezza gli altri che domandano qualcosa. Noi che siamo rapidi a difendere noi stessi, sappiamo essere esigenti e inflessibili davanti alle richieste degli altri. La condanna di quel servo è durissima. Infatti, mentre a lui vengono rimessi i suoi debiti, lui non ha nessuna pietà per il suo conservo. Non è questa la giustizia che vuole Gesù. Egli stesso si comporta con ben altra magnanimità con noi, dissipatori incoscienti di tanti beni affidatici. Se pensiamo alla sproporzione tra quanto ci è affidato e all’avarizia con cui cerchiamo di aiutare gli altri, comprendiamo quale senso abbia per noi la parabola raccontata da Gesù. La condanna di quel servo fu durissima, perché analogo fu il suo comportamento. Egli stesso si autoescluse dalla misericordia e dalla compassione. Facciamo fatica a comprendere il grande debito che abbiamo, accecati dalla difesa di noi stessi e dei nostri presunti diritti. Difficilmente trova spazio in noi il diritto dell’altro. Quanto invece la vita degli uomini sarebbe migliore se si applicasse la legge della misericordia illimitata richiesta da Gesù! Il regno di Dio viene così, imitando il Signore che usa verso di noi la sua misericordia in misura sovrabbondante, senza porsi alcun limite. Per questo ci fa dire: “rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”.

Mons. Vincenzo Paglia

Se tuo fratello peccherà contro di te…

Dal Vangelo di Matteo 18, 15-20Gesù

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.

In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».

………………………………………….

Il brano di questa domenica appartiene al capitolo 18 di Matteo, in cui troviamo un discorso che alcuni studiosi chiamano “ecclesiale” perché tratta della cura pastorale verso i più piccoli (la pecora smarrita) e dall’insegnamento del perdono, che è la legge su cui si edifica la chiesa (parabola del Signore misericordioso e del servo spietato). è un discorso rivolto a chi si distingue dai più “piccoli” e che è invitato ad avere cura di loro, molto probabilmente i pastori della comunità (i dodici). Chi sono i “piccoli”? Nella comunità di Matteo, composta per la maggior parte da cristiani provenienti dal giudaismo, i piccoli erano gli altri, la minoranza degli ex-pagani che non conosceva bene la legge di Mosè e quindi la trasgrediva più facilmente. In senso più ampio possiamo considerare i “piccoli” come i peccatori, coloro che nella comunità erano più inclini a compiere qualcosa di sbagliato. Vengono chiamati piccoli perché i pastori nei loro confronti dovevano avere maggiore attenzione, avere molta più pazienza, per aiutarli a superare le loro difficoltà e a sentirsi pienamente parte della comunità cristiana. Il vangelo di questa domenica si ferma in modo particolare sull’atteggiamento da assumere nei confronti dei membri della comunità che sbagliano. “Se tuo fratello peccherà contro di te…”: certamente il problema era sentito in modo molto forte. Qui vengono dunque ricordati alcuni elementi fondamentali di cui tenere conto in questi frangenti.

Lectio

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; Il peccato di cui si tratta è certamente un peccato pubblico e grave, non solo di un’offesa personale. Alcuni manoscritti aggiungono “contro di te”, ma si tratta forse di un adeguamento al “contro di me” che troveremo nella domanda di Pietro in 18,21. Attingendo alla tradizione mosaica, la comunità di Matteo aveva una prassi ben precisa da seguire nei confronti di chi all’interno della comunità compie un’azione riprovevole. Si tratta di una prassi graduale e rispettosa della dignità di colui che ha compiuto il peccato. La prima fase di questa prassi è la correzione personale. Il verbo “correggere” ha molta importanza nel Pentateuco (soprattutto Lv 19,17). Tale prassi si ispira al comandamento dell’amore verso il prossimo e all’aiuto da dare anche a coloro che commettono degli errori. Se il tentativo della correzione personale ha successo, si ha “guadagnato” un fratello, cioè i legami con lui diventano più forti. Ma vi è anche un senso “tecnico”, relativo alla crescita della comunità cristiana: si “guadagna” e “non si perde” un altro fedele, un’altra persona che è stata giudicata degna di fare parte del Regno di Dio. Se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. La seconda fase è molto più seria e attinge al diritto mosaico: vengono chiamati in causa dei testimoni, non uno solo, ma almeno due, perché il peccato sia riconosciuto in modo autorevole e affinché il colpevole si renda conto della gravità della propria situazione. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. La terza fase è la proclamazione del reato davanti a tutta la comunità cristiana, la chiesa. Ecco perché si pensa che questa prassi faccia riferimento a qualcosa di più grande di una semplice offesa personale. Qualora il peccatore non voglia ammettere il suo reato nemmeno davanti a tutta la comunità cristiana scatta la scomunica. E’ questo il senso di “sia per te come il pagano e il pubblicano”: vengono citate due categorie di persone che notoriamente non erano ammesse a far parte della comunità giudaica (qui la comunità cristiana mantiene ancora numerose categorie della mentalità ebrea).

In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. Gesù attribuisce qui alla comunità cristiana il potere di legare e sciogliere che aveva già affidato a Pietro. Bisogna però ricordare che la scomunica deve essere l’extrema ratio e il potere di legare e sciogliere riguarda soprattutto il perdono, la misericordia, la pazienza, l’attenzione nei confronti di chi sbaglia. Di fatto il pagano e il pubblicano furono sempre dei soggetti privilegiati all’interno della predicazione e dell’opera di Gesù. Così anche la comunità cristiana si deve rivolgere ai pagani e ai pubblicani per “guadagnarli” al Regno di Dio. Ancora di più deve esplicare questo suo sforzo anche nei confronti di coloro che si sono allontanati o sono stati allontanati dalla comunità.

In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. I versetti 19 e 20 parlano della preghiera in comune e non sono messi qui a caso. Al v. 16 venivano chiamati in causa due testimoni. Cosa dovevano testimoniare, il peccato del fratello o il suo rifiuto a convertirsi? Non è chiaro. Adesso però si dice una cosa che essi possono fare, sempre e comunque: “accordarsi” per domandare a Dio, nella preghiera, non “qualunque cosa”, ma “un affare qualsiasi”, “affare” (pragma) è termine tecnico per indicare una controversia all’interno della comunità. Si tratta quindi dell’ “affare” precedente. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro». Per risolvere le controversie all’interno della comunità l’espediente più efficace è la preghiera comune. Perché, quando c’è unanimità nella preghiera, è come se il Signore stesso fosse presente e giudicasse in mezzo alla comunità. A queste condizioni la preghiera è certamente efficace perché è la preghiera stessa di Gesù al Padre. Matteo dunque sembra suggerirci che prima di giungere a soluzioni estreme, non occorre solo aver tentato ogni via possibile per recuperare il peccatore: bisogna soprattutto aver pregato a lungo e unanimemente.

Meditiamo

– Chi sono i “piccoli” che mi sono stati affidati e a cui devo dedicare più attenzione e pazienza?

– In base a cosa posso affermare che un mio fratello/una mia sorella ha compiuto un peccato?

– Per chi e per cosa prego? Mi sono mai “accordato” con altri per pregare per un “affare qualsiasi”? Per quale intenzione?

Preghiamo O Padre, che ascolti quanti si accordano nel chiederti qualunque cosa nel nome del tuo Figlio, donaci un cuore e uno spirito nuovo, perché ci rendiamo sensibili alla sorte di ogni fratello secondo il comandamento dell’amore, compendio di tutta la legge. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Il regno dei cieli è simile…

Dal Vangelo secondo Matteo       Mt 13, 44-52

La-parabola-del-tesoro-nascostoIn quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra. Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

 ……………………………………………..

Con questa 17a domenica del tempo ordinario, termina la lettura delle parabole del capitolo 13 del vangelo di Matteo.

Le ultime quattro parabole paragonano il regno di Dio a un tesoro, a una pietra preziosa, a una rete gettata nel mare. La parabola della rete è una variazione del tema già affrontato nella parabola della zizzania e del buon grano, mentre le parabole del tesoro e della perla ci ricordano la necessità di fare uso anche delle ricchezze terrene pur di poter entrare nel regno dei cieli e gioire di questa appartenenza.

In Palestina accadeva di trovare un tesoro nascosto in vasi di argilla sotterrato e poi abbandonato forse per morte prematura del proprietario; esso consisteva spesso in monete.

Colui che lo scopre, per potersene impossessare deve comperare il campo in cui si trova il tesoro. Sicuramente per fare ciò è costretto a vendere tutto o buona parte di quello che ha. Rinuncia ai beni che già possiede per poter avere qualcosa che egli considera più grande e prezioso. Così pure colui che trova la perla preziosa!

Al centro dei versetti non ci sono i sacrifici che devono fare coloro che scoprono ciò che è più prezioso di ciò che già possiedono, ma la decisione di acquistare rispettivamente il tesoro o la perla preziosa, nonostante la necessità a tale scopo di disfarsi di tutti i loro beni.

Pieno di gioia”: ecco l’atteggiamento del discepolo che ha scoperto il tesoro, ha incontrato Gesù, ne è rimasto attratto e affascinato e con determinazione investe ciò che ha acquisito fino a quel momento e lo converte in un bene più grande: “Tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno” dice San Paolo nella seconda lettura. La gioia in questi versetti è l’acceleratore delle decisioni, è nella vita del cristiano quel di più che giustifica e sostiene il cammino di conversione, o meglio lo stato di conversione continua.

Senza dubbio il regno è un dono, ma la parabola sottolinea che per riceverlo il discepolo deve fare una scelta coraggiosa che avrà conseguenze decisive anche per il futuro. Ma in cambio ottiene una gioia che il possesso dei beni terreni non può dare. La parabola della rete gettata in mare si rifà all’esperienza della pesca, ma nel contenuto è simile alla parabola della zizzania, come abbiamo già detto sopra. Qui come in quella viene adottato il modello apocalittico che comporta, nel futuro escatologico, il giudizio universale e la separazione dei buoni dei cattivi. Anzi alcune espressioni usate nella spiegazione della parabola della zizzania vengono riprese testualmente anche qui. Questa volta il regno dei cieli è paragonato a una rete gettata in acqua che raccoglie ogni tipo di pesci. Alla fine della pesca il pescatore separa i pesci buoni da quelli cattivi. Non tutti i pesci infatti sono commestibili. Nel lago di Galilea vivevano diverse specie di pesci. Di alcuni il consumo era vietato dalla Legge, perché privi di pinne e di squame e perciò considerati impuri.

La spiegazione della parabola viene subito data: alla fine dei tempi vi sarà una separazione tra i buoni e i cattivi. Anche qui come nella parabola della zizzania il momento del giudizio è alla fine dei tempi e c’è un tempo dedicato alla penitenza. La libertà e la gioia che ne conseguono non sono atteggiamenti superficiali, leggerezza emotiva, essi nascono dall’offerta generosa di sé secondo il modello della sequela: i tornanti del calvario, direbbe Tonino Bello!

“Avete compreso tutte queste cose?”. Gli risposero: “Sì”. La comprensione delle parabole da parte dei discepoli è fondamentale. Essi devono comprendere “tutte queste cose”, cioè i misteri del regno, le cose nascoste ma rivelabili in parabole. Qui pare, come dicono alcuni esegeti, che Matteo faccia riferimento alla sua esperienza di scriba che dopo l’incontro col Volto e la Voce di Gesù si è messo al suo seguito avendo trovato la Perla, il Tesoro e la pesca buona più abbondante. Ora la sua missione di seguace del Cristo consiste nell’estrarre “dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”.

 

Meditiamo e attualizziamo la Parola

  • Il regno dei cieli è per me il tesoro nascosto e la perla preziosa, a motivo dei quali vendo tutto?
  • Cosa ho veramente “venduto” di mio per entrare a fare parte del regno dei cieli?
  • Ho fatto l’esperienza paolina del “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”?
  • In cosa consiste il “tesoro” da cui, come un padrone di casa, traggo “cose nuove e vecchie”?

 

Preghiamo (Colletta della 17a Domenica del Tempo Ordinario, Anno A)

O Padre, fonte di sapienza, che ci hai rivelato in Cristo il tesoro nascosto e la perla preziosa, concedi a noi il discernimento dello Spirito, perché sappiamo apprezzare fra le cose del mondo il valore inestimabile del tuo regno, pronti ad ogni rinunzia per l’acquisto del tuo dono. Per il nostro Signore…

sr rosanna costantini, fma

rosannacostantini@gmail.com

 

 

Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo…

seminatDal Vangelo di Matteo 13,24-43

In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio”».

Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami».

Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».

Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo».

Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».

…………………………………………………..

Nella parabola del seminatore di domenica scorsa, l’accento era posto sulla generosa azione del seminatore che sparge i semi ovunque, quasi senza prudenza circa i terreni; nella parabola di questa 16° domenica del tempo ordinario, l’accento è sul seme: il seme buono appartiene al Seminatore, nessuno potrà fargli del male perché è nel campo di Dio!

Al cuore della parabola di oggi c’è una convinzione molto semplice: nella nostra vita il bene e il male crescono insieme in un intreccio tale solo a Dio è dato di districare nella pienezza dei tempi.

Se solo per un attimo di grande consapevolezza andiamo al cuore della nostra vita ci rendiamo conto di come l’uomo vecchio si radichi ancora in noi, mentre di fatto coltiviamo grandi idee di cambiamento personale e ci impegniamo anche in modo intenso e quotidiano. Quante volte ci capita di subire la frustrazione di essere sempre a capo nel nostro cammino di crescita umana e spirituale. Pensavamo di aver smussato tratti del nostro carattere, di aver attinto più profondità dalla meditazione quotidiana della Parola, e invece, eccoci quasi a capo!

La conversione, come dimostrano i padri del deserto, non è che l’inizio di un lungo cammino che richiede un’enorme pazienza, grande tolleranza e tanto amore! La pazienza, la tolleranza e l’amore che Dio ha per noi.

“Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura”: una indicazione destabilizzante per noi che cerchiamo oltre che la giustizia anche la verità e la trasparenza, grandi utopie umane spesso ricercate con presunzione e assolutezza!

Allo zelo dei servi che vogliono strappare la zizzania, Dio risponde invitando all’attesa, alla pazienza, spigandone la ragione: strappando prima del tempo la zizzania, molto simile al grano quando è una piccola pianta, si potrebbe strappare qualche spiga.

Le piccole metafore del Regno che seguono alla parabola della zizzania ci illustrano il modo di agire di Dio verso quanti perseguitano o ostacolano la vita del cristiano e delle comunità ecclesiali: essere come il piccolo seme di senape che invisibile prima diventa poi ombra benefica cresciuto in arbusto; rimanere piccoli e nascosti come lievito nella pasta che una volta cresciuta diviene buon pane per la fame di molti.

È chiaro che il punto di vista di Dio sulla vita, sui rapporti e sui valori, come al solito, è diverso. Ha a che fare sempre con la sua ossessiva attenzione alla pecora smarrita, al peccatore, al figlio prodigo, al malato.

La Parola di Gesù di questa domenica è un invito a costruire relazioni segnate dalla dolcezza più che dalla violenza, dalla tenerezza più che dall’aggressività, dal servizio più che dal dominio. Non è un invito alla passività o all’indifferenza nei confronti del male, del limite, della persecuzione, ma a costruire una storia umana nella paziente accettazione delle differenze, nell’ottimismo generoso di chi sa che il cuore dell’uomo abitato da Dio può sempre cambiare! È ciò che Gesù fa con ciascuno di noi: aspetta con infinta pazienza il nostro ritorno a casa!

LA PAROLA NELLA SETTIMANA

Memorizzo qualche riga del salmo responsoriale, e nei brevi momenti di rientro al cuore, la ripeto come un mantra, chiedendo la grazia della pazienza e della misericordia.

Tu sei buono, Signore, e perdoni, sei pieno di misericordia con chi t’invoca. Porgi l’orecchio, Signore, alla mia preghiera e sii attento alla voce delle mie suppliche. Tutte le genti che hai creato verranno e si prostreranno davanti a te, Signore, per dare gloria al tuo nome. Grande tu sei e compi meraviglie: tu solo sei Dio. Ma tu, Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, volgiti a me e abbi pietà. (Salmo 85)

sr rosanna costantini, fma

rosannacostantini@gmail.com

Chi ascolta la parola e la comprende, questi dà frutto…

Particolare1Dal Vangelo secondo Matteo 13,1-23

Quel giorno Gesù uscì di casa e si sedette in riva al mare. Si cominciò a raccogliere attorno a lui tanta folla che dovette salire su una barca e là porsi a sedere, mentre tutta la folla rimaneva sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose in parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. E mentre seminava una parte del seme cadde sulla strada e vennero gli uccelli e la divorarono. Un’altra parte cadde in luogo sassoso, dove non c’era molta terra; subito germogliò, perché il terreno non era profondo. Ma, spuntato il sole, restò bruciata e non avendo radici si seccò. Un’altra parte cadde sulle spine e le spine crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sulla terra buona e diede frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta. Chi ha orecchi intenda». Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché parli loro in parabole?». Egli rispose: «Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Così a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. Per questo parlo loro in parabole: perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono. E così si adempie per loro la profezia di Isaia che dice: Voi udrete, ma non comprenderete, guarderete, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo si è indurito, son diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi e non intendere con il cuore e convertirsi, e io li risani. Ma beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono. In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non l’udirono! Voi dunque intendete la parabola del seminatore: tutte le volte che uno ascolta la parola del regno e non la comprende, viene il maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato nel terreno sassoso è l’uomo che ascolta la parola e subito l’accoglie con gioia, ma non ha radice in sé ed è incostante, sicché appena giunge una tribolazione o persecuzione a causa della parola, egli ne resta scandalizzato. Quello seminato tra le spine è colui che ascolta la parola, ma la preoccupazione del mondo e l’inganno della ricchezza soffocano la parola ed essa non dà frutto. Quello seminato nella terra buona è colui che ascolta la parola e la comprende; questi dà frutto e produce ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta».

………………………………………………………..

La pagina del Vangelo di questa XV domenica del tempo ordinario ci proietta in un ambiente agricolo tipico della Palestina, dove abbondano le rocce, coperte a volte solo da un sottile strato di terra; nell’antichità i terreni agricoli erano spesso percorsi da sentieri di terra battuta e cintati di cespugli spinosi; i contadini ripulivano alla meglio il terreno e, dopo aver buttato il seme, lo aravano, o meglio lo smuovevano per coprire il seme, in modo che non fosse portato via dagli uccelli. È dunque comprensibile il fatto che solo una parte del seme andasse a finire su un terreno adatto alla sua crescita.

Tuttavia alcuni elementi del racconto che fa Gesù dentro questa ambientazione, quali la sprovvedutezza del seminatore nel gettare il seme senza dappertutto e l’eccessiva abbondanza del frutto prodotto dal seme caduto sul terreno buono, assumono un carattere chiaramente iperbolico: lo scopo di Gesù non è raccontare un’esperienza di semina ben conosciuta dai suoi ascoltatori, ma è quello di richiamare la loro attenzione sul messaggio profondo che vuole comunicare. La stessa esortazione ad ascoltare, riportata alla fine della parabola, sottolinea la necessità di non fermarsi alla superficie, ma di riflettere sulla realtà profonda della parabola. E infatti, Gesù stesso, da fine esegeta quale si presenta, ne dà l’interpretazione e la spiegazione.

L’idea centrale del racconto può riassumersi in questo modo: nonostante le difficoltà frapposte dai diversi terreni, il seme ha prodotto un raccolto abbondante. In altre parole, la semina incontra ostacoli tali da far ritenere quasi impossibile il raccolto, ma questo avviene ugualmente, anzi è più abbondante di quanto ci si sarebbe aspettato. Sì, perché il seminatore è Gesù, la Parola incarnata.

Egli semina a larghe mani e ovunque. La sua Parola è per tutti. In tutti può far crescere, far crescere, un’anima di verità. Ciascuno la accoglie secondo la capacità del proprio cuore, secondo quanto è maturo umanamente e spiritualmente.

Semina dunque anche per me. Ed allora mi chiedo quante volte la sua Parola sia caduta fuori dal campo, sulla strada.

La parola cade sulla strada, tra i sassi e le spine, ogni volta che mi limito a sentirla senza ascoltarla con il cuore, in piccole soste di interiorizzazione; così il Divisore passa e la cancella dal mio cuore. Ogni volta che non la lascio entrare nella mia storia concreta, di uomo o di donna sofferente, che sperimenta a volte il non senso ed è tentato dalla disperazione. Quando vivo in modo schizofrenico o bipolare la mia fede: dico di credere in Dio, ascolto pure la Sua Parola, ma mi chiudo nel mio individualismo e perbenismo, giudicando e condannando gli altri con le armi stesse della Parola.

Strada, sassi, spine… è l’ascolto disincarnato e astorico della Parola, un ascolto solo mentale, senza cuore e senza significato vitale. Può essere carico di entusiasmo, ma se non mi sforzo di radicare questa Parola in me, nei miei processi di crescita in quanto uomo o donna, processi che includono tutte le relazioni di vita: la vita fraterna, l’amore di coppia e di famiglia, l’impegno politico, l’inserimento attiva nella comunità ecclesiale, si dissecca e muore dentro di me. La Sua potenza di amore trasformante non trova accoglienza in me.

È l’esperienza della fragilità e della malizia del nostro cuore che già San Paolo riconosceva ma che era certo non fosse l’ultima parola della nostra vita: «Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo» (Rm 8,22-23).

E l’attesa si colma di certezza con la profezia di Isaia: «Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,10-11).

È l’esperienza del terreno buono che produce in modo sovrabbondante, modo tipico di Dio! Il terreno buono è quello di chi ha fatto attento l’orecchio del cuore all’ascolto: “Shemà – Ascolta, Israele”, di chi sa prendersi del tempo per rientrare al proprio cuore abitato dalla Parola feconda, di chi, pur gemendo nei dolori della storia, vive solidale con ogni fratello e sorella l’impegno di carità e di amore reciproco.

Gesù ha proclamato questa parabola in un contesto di attese messianiche e di delusioni storiche cocenti mostrando che Dio interviene nel mondo non con manifestazioni di potenza, ma nell’umiltà e nel nascondimento. La potenza della Parola incarnata non è data dal potere delle armi, della politica o dell’economia. Gesù non è onnipotente secondo il modello umano, Egli è onniamante secondo il modello dell’onnipotenza di Dio!

Attualizzazione della Parola

  • In questa settimana cerco un momento quotidiano di rientro al cuore abitato dalla Parola e mi domando: che rapporto ho con la Parola del Signore? Lascio che essa mi modelli oppure pretendo di utilizzarla secondo le mie precomprensioni e i miei bisogni?
  • Mi lascio giudicare dalla Parola? Diventa criterio per interpretare la mia storia personale, la storia della mia comunità, della mia famiglia? Della storia sociale e civile nella quale vivo?

 

 

sr Rosanna Costantini, fma