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Il Vangelo della domenica

“Con” e “In”= Vita nuova

Vangelo: Lc 24,13-35
30 aprile, arcabasEd ecco, in quello stesso giorno il primo della settimana due dei discepoli erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. 

Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». 

Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.

Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. 

Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». 

Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane. 

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«I loro occhi erano incapaci di riconoscerlo». Eppure era lì, in carne e ossa, al loro fianco! Quanto esprime questa frase della nostra vita cristiana! Affaccendati in mille cose, buone, sante, necessarie. Ma il nostro cuore è incapace di riconoscerlo. Questo è il vero problema. Non il fallimento, la debolezza, neppure la sofferenza e la morte. Situazioni dolorose, a volte al limite dell’umano. Ma il vero dramma per un cristiano è quando non è più capace di riconoscerLo, di vedere il passaggio di Cristo anche lì, dove non lo cercheresti mai. Chi si sarebbe mai immaginato di trovare Dio, grondante sangue, appeso a una croce?

Il mondo grida al disastro, alla tragedia, alla sconfitta, al fallimento. E ha ragione. Quante volte, innanzi ai drammi della nostra esistenza, gli abbiamo chiesto: «Dove sei?». E Lui, presenza discreta, silente ma non assente, si fa accanto e ci cammina a fianco. Dall’inizio alla fine della sua vicenda terrena egli si rivela come l’Emmanuele, il Dio-con. Come compagnia certa per la nostra vita. E in quel “con” si rivela il senso della sua e nostra vita terrena.

Con-Dio: sì, perché egli è venuto a mostrarci un Padre che non tollera distanze; anzi copre la distanza massima, quella tra la vita e la morte, lasciando inchiodare il Figlio in croce perché entrasse – morto – nell’abisso della morte. “Con” anche nel luogo per Dio più inaccessibile, la tomba!

Con-l’uomo: fianco a fianco, in mezzo alle discussioni, litigiose perché chiuse e deluse; presenza discreta e forte nella parola che apre alla speranza; definitivamente accanto e dentro nella consegna di sé rinnovata nello spezzare il pane.

Al discepolo, alla Chiesa intera, a ciascuno di noi è chiesto un ripasso della grammatica del cuore e della fede. È la liturgia il luogo privilegiato, scuola gratis e aperta a tutti, in cui sperimentare in noi che la preposizione “con” può diventare vita nella nostra vita. È proprio nello spezzare il pane che i due – e ogni cristiano – partecipano al “con” di Cristo con la sua Chiesa, lo accolgono, lo comprendono sempre più e se ne lasciano impregnare ogni angolo della propria persona. Allora si può essere certi che nella solitudine, nei fallimenti, nel dubbio, nel buio, a volte nella disperazione, c’è un “con” talmente forte che – solo – può scuotere e ridare vigore ai piedi e calore al cuore.

A quel punto Lui non si vede più. Ma non è sparito. Ha solo cambiato preposizione. Ora è “in”. È la vita nuova, quando Cristo vive in me (Gal 2,20). Per sempre. Anche quando sembra voler andare per un’altra strada, più lontano.

sr Paola Rizzi, SASS

suorpaola@adoratrici.it

 

Nelle ferite, il gesto di un Dio vivo

CaravaggioVangelo: Gv 20,19-31

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.  Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».

Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

Un vangelo in tre atti: una domenica – giorni infrasettimanali – domenica. Un vangelo che dura una settimana. Che inizia oggi, in ogni oggi fatto di porte chiuse, di morse di paure e dolore, di rimorsi per aver tradito e abbandonato, di incontri e parole più o meno previsti e desiderati.

Una settimana che termina l’ottavo giorno, con l’irrompere nella chiusura degli Undici di una nuova luce, di un nuovo incontro. Una settimana che si chiude con una professione di fede; ma soprattutto che si apre sull’eternità, quella dell’ottavo giorno, principio del tempo nuovo.

Protagonista in questo tempo è Colui che viene. Giovanni sembra non insistere molto sul fatto della resurrezione, ma piuttosto sul modo di Cristo di presentarsi alla sua Chiesa (cf Léon-Dufour). Un Signore che viene e sta in mezzo. Un Signore che, senza chiedere permesso, irrompe e salva. Un Signore che non ha paura della nostra paura, dei nostri schemi e delle nostre resistenze. Un Signore che in ogni tempo, in ogni latitudine, in ogni situazione di muri alzati e cuori chiusi, è comunque e sempre il Veniente.

Quante volte il Maestro l’aveva annunciato che avrebbe dovuto soffrire, essere schernito, vilipeso, ucciso e, il terzo giorno, sarebbe risorto. Ma quel linguaggio era sempre rimasto oscuro per gli Apostoli e anche adesso, messi di fronte a Colui che da morto è tornato in vita, dubitano. Ma lui è un Signore che non viene a rimproverare. Anzi, torna, pieno di infinita carità e comprensione, verso coloro che non ha mai smesso di chiamare amici.

È un Signore che non viene a mani vuote: porta con sé pace, gioia, pienezza dello spirito, perdono e vita nuova nel suo amore. È un Signore che viene a “mani bucate”. “Bucate” perché generose, fino all’estremo: ha già dato tutto eppure continua a dare senza guardare i meriti, senza chiedere in cambio, senza rinfacciare. E senza temere che i doni che elargisce a larghe mani siano – come già successo – largamente sprecati. Sa bene che se non c’è spreco, non c’è amore.

Ma è un Signore dalle “mani bucate” anche e soprattutto perché nemmeno quel corpo glorioso, capace di passare attraverso i muri, ha voluto eliminare il segno delle ferite. Nell’adesso di quella carne straziata, nelle piaghe gloriose nate dall’amore, Cristo vuole oggi incontrare l’umanità. Tutta. E per tutti offre la possibilità di vederlo: nel suo corpo, nella sua carne che narra racconti di dolore e di offerta, di solitudine e di comunione, di peccato inflitto e perdonato. In una parola: di salvezza! Cristo vuole incontrare l’uomo nella concretezza della vita, dove sangue e lacrime si mischiano ad amore e speranza, dove il fallimento ricerca la via d’uscita, dove la fede è chiamata ogni giorno a ridirsi di nuovo. Per questo il Signore si fa vedere, perché ora è il tempo della visione; fa vedere un corpo ferito, ma ancora capace di testimoniare un linguaggio che ogni uomo può comprendere. «Abbiamo sempre bisogno di contemplare il mistero della misericordia» (MV 2): dove, meglio che in quelle ferite aperte, è possibile vedere ancora oggi il gesto di un Dio crocifisso e vivo, sentire ancora oggi il profumo della misericordia divina?

E allora l’ottavo giorno non è la fine del Vangelo. È la buona novella che continua nell’oggi della Chiesa: lì dove ci è dato uno sguardo nuovo per vedere e far vedere l’Amore.

sr Paola Rizzi, SASS

suorpaola@adoratrici.it

 

siamo un’ unica e indivisa natura

Gv 20,1-9
1Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. 2Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!» . 3Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. 4Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. 5Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò.
6Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, 7e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte. 8Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. 9Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti.
Dopo aver deposto Gesù morto nel sepolcro, inizia un tempo di silenzio che, per quanto breve, è carico dell’azione potente e serena di Dio. La sofferenza del giovedì notte e del venerdì è finita; il Maestro è morto così come aveva detto. I discepoli devono celebrare il sabato, insieme a Maria, la Madre del Signore, a cui, come donna più anziana, spetta dare inizio alle benedizioni. Ma questo sabato è differente: Maria ha una spada che le trafigge l’anima, i discepoli sono persi nel loro dolore e smarrimento perché il loro Pastore non c’è più. Eppure in quel silenzio si compie il vero e definitivo riposo; «il Re dorme, il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano». Nessuno ha assistito al momento della Resurrezione, è un evento che rimane nascosto nella relazione tra il Padre e il Figlio; è il momento della nuova creazione. Tutto il racconto dettagliato della Passione, termina nella deposizione del corpo crocifisso di Gesù nel sepolcro, come la fatica del lottatore, che combatte la sua ultima, decisiva battaglia, si conclude con la sua vittoria. La Vita è entrata nella morte e ne ha spezzato il pungiglione (1Cor 15,55). “Il giorno dopo il sabato, quando era ancora buio”, Maria di Màgdala cerca il corpo dell’Uomo che ha visto morire, ma non lo trova. Non lo trova, come non lo troviamo noi quando cerchiamo il Signore lì dove lo abbiamo lasciato, lì dove ne abbiamo fatto esperienza, lì dove pensiamo che sia. Dobbiamo ammettere che noi crediamo più al potere della morte che a quello della vita; che facciamo fatica a credere che una tomba possa essere vuota. Anche noi riusciamo solo ad immaginare che qualcuno abbia rubato il corpo; pur sapendo che Gesù è risorto, non riusciamo a pensarlo come il Vivente, come una Persona che vive con noi. Pensiamo a Lui più come ad un ideale di vita, un esempio da imitare, un grande uomo sicuramente, ma vissuto in un altro tempo, fuori dalla nostra storia e quotidianità. Mentre Lui è vivo, oggi, per me! Vivo! Con la stessa concretezza di chi mangia insieme a noi, di chi si lascia toccare, guardare, ascoltare. Pietro e Giovanni, osservando l’interno del sepolcro, non vedono il caos della morte, ma vedono un ordine che parla di vita. Il verbo che Giovanni usa per dire “vide le bende”, in greco indica un guardare con attenzione, osservare con calma, rendersi conto di ogni particolare, riconoscere ogni oggetto e la sua collocazione. I lini giacevano come svuotati, non erano in disordine, ma erano distesi a terra come sgonfi, perché non vi era più il corpo che li sosteneva. Se qualcuno avesse trafugato il corpo senza i lini, questi sarebbero stati in disordine, gettati in un angolo del sepolcro. È quest’ordine che convince Giovanni a credere che Gesù è risorto, l’ordine della nuova creazione, della promessa di pace che il Maestro aveva fatto durante la cena: “vi lascio la pace, vi do la mia pace” (Gv 13,27). Ora è compiuta! La nuova Alleanza è sigillata nel corpo risorto del Figlio di Dio, che è il nostro stesso corpo, ormai libero dai limiti del mondo e del peccato. Ora anche noi ascendiamo con Lui alla destra del Padre, siamo assunti nel cuore stesso di Dio! Gesù vincitore, discende agli inferi e dice ad Adamo: «Io sono il tuo Dio, che per te sono diventato tuo figlio; che per te e per questi, che da te hanno avuto origine, ora parlo e nella mia potenza ordino a coloro che erano in carcere: Uscite! A coloro che erano nelle tenebre: Siate illuminati! A coloro che erano morti: Risorgete! A te comando: Svegliati, tu che dormi! Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell’inferno. Risorgi dai morti. Io sono la vita dei morti. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effige, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me e io in te siamo infatti un’unica e indivisa natura» (da un’antica
Omelia sul Sabato santo).
Accogliamo, dunque, la gioia e la pace nel Risorto che vince per noi la morte e ci riveste della Luce
divina che non tramonta mai.

sr. Paola Agnese Marinangeli, sfa.

“Farò la Pasqua da te!”

palme-cvAl termine del cammino dell’iniziazione cristiana degli adulti, prima di ricevere il battesimo, il catecumeno è chiamato ad accogliere e proclamare il Signore Gesù come acqua viva (Vangelo della samaritana), luce (Vangelo del cieco nato), risurrezione e vita (Vangelo della risurrezione di Lazzaro). L’adesione alla fede in Cristo però, non avviene una volta per sempre. Pur essendo un dono che riceviamo nel sacramento, ha bisogno di essere rinnovato ogni giorno, ogni istante della nostra vita, finché dura il nostro pellegrinaggio. Così, in questa domenica in cui riviviamo l’entrata regale di Gesù a Gerusalemme, siamo chiamati di nuovo ad accogliere Colui che viene a salvarci. Il Messia atteso da secoli, il Liberatore che toglie il peso della schiavitù, il Re che viene a regnare nella giustizia e nella pace, giunge mite, «umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina» (Zc 9,9), senza violenza o dimostrazione di potere. Al suo arrivo, tutta la città freme di “agitazione” (Mt 21,10); il verbo usato è lo stesso impiegato per i terremoti (Mt 27,51; 28,4; 8,24; Ap 6,13). La città è turbata come nel momento della sua nascita (2,3), come spesso accade a noi quando Dio irrompe con la sua tenerezza nella nostra vita. Ed ecco che siamo chiamati a gioire per la debolezza che Dio assume in suo Figlio, e di conseguenza per la nostra stessa debolezza, che diviene il luogo dell’incontro con l’Altissimo. La mitezza spesso viene letta come sottomissione dei perdenti, mentre Gesù ci ha mostrato come sia la forma più alta di forza e di determinazione d’amore. Da quando la Parola si è fatta carne, la nostra fragilità è stata fecondata dalla sua divinità, ma era necessario che il Figlio scendesse nell’abisso della disobbedienza umana per ricondurci al Padre e renderci capaci di Sé. Tutto il racconto della Passione ci fa prendere coscienza dell’abisso del nostro cuore, traditore, capace di rinnegare, di torturare e crocifiggere gli altri; e del cuore di Dio, amante senza giudizio, gratuito dono di misericordia che ci guarisce.

Nel Getzemani Gesù, prima di affrontare le torture fisiche che lo aspettano, vive la tortura più dolorosa dello spirito. Poco prima di prostrarsi nell’angosciosa preghiera “Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice!”(26,39), Gesù afferma che la sua anima è triste fino alla morte (26,38); è dunque il momento della morte della sua anima! Il Figlio si nutre continuamente della volontà del Padre (Gv 4,34), è la sua vita; ma ora sperimenta un altro volere in sé stesso, il desiderio di trovare un’altra via rispetto a quella scelta dal Padre. È vero che vive questa lotta con la stessa paura e angoscia che prova qualsiasi uomo di fronte alla morte, ma è anche vero che lui è il Figlio di Dio, della stessa sostanza del Padre. Sperimentare questo volere distinto da quello del Padre, dev’essere stato per il Figlio un dolore atroce, la morte della sua stessa anima. Ma era necessario che entrasse in quest’abisso di tristezza perché noi siamo lì, proprio in quella spaccatura che è la nostra disobbedienza. Dicendo: “passi da me questo calice”, Gesù fa sua la nostra disobbedienza, e proclamando: “però non come voglio io, ma come vuoi tu!”, rimette ordine nel nostro caos; sanando definitivamente la distanza tra noi e il Padre, fa brillare la sua luce nelle nostre tenebre. Dopo averci preso con sé nella nostra disobbedienza, continua la nostra guarigione attraverso le sue ferite sulla Croce, fino al culmine della morte stessa, dove il suo Cuore si spalanca a noi come un torrente in piena unendoci a sé per sempre.

In questi giorni santi che ci conducono alla Pasqua, lasciamoci conquistare da questo amore ineffabile che nella sua Passione per noi ci vuole con sé.

Sr. Paola Agnese Marinangeli, sfa

Anche se muore vivrà

anche se muore vivràDal Vangelo di Gv 11,1-45

1 Un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato.2Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. 3Le sorelle mandarono dunque a dirgli: “Signore, ecco, colui che tu ami è malato”.
4All’udire questo, Gesù disse: “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato”. 5Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. 6Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. 7Poi disse ai discepoli: “Andiamo di nuovo in Giudea!”. 8I discepoli gli dissero: “Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?”. 9Gesù rispose: “Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; 10ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui”.
11Disse queste cose e poi soggiunse loro: “Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo”. 12Gli dissero allora i discepoli: “Signore, se si è addormentato, si salverà”. 13Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. 14Allora Gesù disse loro apertamente: “Lazzaro è morto 15e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!”. 16Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: “Andiamo anche noi a morire con lui!”.
17Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. 18Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri 19e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. 20Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. 21Marta disse a Gesù: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! 22Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà”. 23Gesù le disse: “Tuo fratello risorgerà”. 24Gli rispose Marta: “So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno”. 25Gesù le disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; 26chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?”. 27Gli rispose: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”.
28Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: “Il Maestro è qui e ti chiama”. 29Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. 30Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. 31Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro.
32Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”. 33Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, 34domandò: “Dove lo avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”. 35Gesù scoppiò in pianto. 36Dissero allora i Giudei: “Guarda come lo amava!”. 37Ma alcuni di loro dissero: “Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?”.
38Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. 39Disse Gesù: “Togliete la pietra!”. Gli rispose Marta, la sorella del morto: “Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni”. 40Le disse Gesù: “Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?”. 41Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. 42Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato”. 43Detto questo, gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!”. 44Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: “Liberàtelo e lasciàtelo andare”.
45Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui.


 

“Fra tutti i miracoli compiuti da nostro Signore Gesù Cristo, quello della risurrezione di Lazzaro è forse il più strepitoso” (S. Agostino), è dopo questo segno che i capi del sinedrio decidono definitivamente la condanna a morte del rabbi di Nazareth. Il tema della morte acquista sempre più spessore proprio perché la Pasqua è vicina. Il racconto della risurrezione dell’amico amato da Gesù, si sviluppa, infatti, più sul dramma della malattia e della morte che sul miracolo in sé, che si riduce appena a due versetti (vv.43-44). Gesù compie l’ultimo segno prima della sua “Ora”, a Betania, che significa “Casa dei poveri”, proprio perché entra totalmente nella nostra povertà più grande, quella della morte e la trasforma in occasione di rivelazione di Sé e del Padre.

Normalmente la morte è la paura più grande di ogni essere umano, il dolore che più ci paralizza, la verità inaccettabile della nostra breve vita e la realtà per la quale faremmo di tutto, anche solo per ritardarne di un istante la venuta. In tutta la storia dell’umanità, si è sempre cercato il segreto dell’immortalità in tanti modi, nessuno dei quali ha risolto il problema dell’inevitabile fine del nostro corpo. La cura ossessiva del nostro benessere, nasconde il terrore che ci invade ogni volta che ci rendiamo conto che il tempo passa. Una famiglia di Betania, sta vivendo il dramma della malattia grave di un fratello, e soffre il dolore di ogni uomo che si trova davanti all’angoscia della separazione dalla vita. Anche Gesù, come uomo, non è esente da questa esperienza che ci accomuna tutti; si commuove (“fremette nello spirito”, con una sfumatura di irritazione) e si turba (v. 33). Il primo verbo esprime dolore, il secondo indica invece lo smarrimento: qualche giorno dopo Gesù si turberà ancora al pensiero dell’avvicinarsi della sua stessa morte (cfr. 12,27). E Lui è anche Dio, è il Verbo incarnato, la Vita che non solo ci salva dalla morte, ma che ci rivela il desiderio di Dio, ci rivolge l’ineffabile invito a partecipare della stessa relazione vitale di cui godono il Padre e il Figlio! È meraviglioso notare la familiarità che c’è tra Marta, Maria e il Maestro; ognuno parla all’altro nella fiducia di chi si conosce e si ama profondamente. Ora la relazione giunge al suo culmine. La vita nuova che Gesù vuole donare a Lazzaro e a tutti quelli che sono disposti ad ascoltare la sua voce, non è un riprendere la vita perduta, ma è la stessa vita divina della Trinità. Il vangelo di Giovanni si sviluppa in una crescente rivelazione del progetto salvifico del Padre, nel Figlio, attraverso lo Spirito Santo, sigillando in questo modo la nuova definitiva Alleanza di figli nel Figlio. Gesù conduce tutti coloro che erano presenti al sepolcro di Lazzaro, alla sua preghiera di ringraziamento al Padre (v. 41-42), quasi come un’onda del mare che giungendo attira a sé chi gli è vicino (l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano). La gratitudine è propria di chi gode di una particolare pienezza di vita, è l’atteggiamento delle persone felici che riconoscono la propria vita e quella altrui come dono gratuito. Gesù non è grato al Padre perché viene esaudito nella sua richiesta, ma viene esaudito proprio perché è grato al Padre. Il ringraziamento nasce dal riconoscere la sua relazione con il Padre che sempre lo ascolta (v. 42), cioè che sempre lo ama e vuole la sua felicità. La gratitudine ci ricorda che possiamo essere felici adesso! Adesso Gesù è per noi risurrezione e vita beata! Siamo chiamati a scegliere dove collocare la nostra speranza. Non a caso alcuni psicologi affermano che la depressione si sviluppa non tanto per ciò che ci succede nella vita, ma per ciò che diciamo a noi stessi giorno dopo giorno, il nostro monologo interiore, fatto di continue critiche a noi stessi e agli altri. Il segreto della vita eterna è l’ascolto della voce dell’Inviato di Dio: «chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna… è passato dalla morte alla vita… viene l’ora – ed è questa – in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno» (Gv 5,24-25). Togliamo dunque la pietra che ci rende sordi alla sua Parola che ci chiama fuori dalle nostre paure; facciamoci ascolto come il Padre e liberiamoci delle bende del nostro orgoglio, per lasciarci rivestire del volto del Figlio di Dio che vive nella gratitudine dello Spirito Santo in noi.

Sr. Paola Agnese Marinangeli, sfa

Ero cieco ma ora ci vedo

downloadVangelo  Gv 9, 1-41

In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo».

Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.

Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so».

Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!». Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori.

Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane».

Nella chiesa delle origini, il battesimo veniva chiamato “illuminazione”; chi, infatti, accoglieva Cristo, veniva iniziato a conoscere la rivelazione che Dio stesso aveva portato a compimento nel Figlio diletto, e riceveva così la luce vera della vita. Nel vangelo di Giovanni, Gesù viene presentato fin dall’inizio come “la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (cfr. 1,1-5; 8,12; 9,5; 12,36; 12,46), ed è Lui stesso che si fa conoscere come la vera luce che viene a splendere nelle tenebre dell’umanità. Ma la prerogativa fondamentale per accogliere la luce, e quindi la vita, è quella di riconoscersi ciechi, immersi nelle tenebre; per questo la liturgia ci propone l’esempio dell’uomo nato cieco che Gesù guarisce dalla sua tenebra. Chi nasce cieco non conosce il mondo e neanche se stesso, se non attraverso gli altri sensi, nello spazio che le sue braccia delimitano e attraverso la descrizione degli altri; cioè ha una percezione estremamente limitata della realtà ed ha un bisogno essenziale di qualcuno che lo conduca nei suoi movimenti. Da solo non può vivere.

Gesù, che è la Vita, passando lo vede; non come chi guarda l’apparenza (prima lettura della liturgia), ma come la Luce che vuole inondare le tenebre di Sé. Non è infatti il cieco a chiedere di vedere; l’iniziativa è sempre di Dio che continuamente crea e ricrea l’uomo perduto (“Sia la luce” Gen 1,3). E il primo gesto che Gesù compie, è quello di fare del fango per spalmarlo sugli occhi di colui che non lo poteva vedere. Il primo, fondamentale passo verso l’illuminazione è, infatti, quello di riconoscere la propria miseria senza ritrarci al contatto. È duro per noi accettare i nostri limiti; siamo sempre pronti a cercare giustificazioni moralistiche, così come fanno i discepoli che interrogano Gesù sulla causa della malattia di quell’uomo cieco, senza ammettere di trovarsi davanti ad uno specchio nel quale riconoscersi. Ma nel momento in cui lasciamo che Gesù compia la sua opera nella nostra vita, sperimentiamo la novità di una relazione che non si fonda su un giudizio di condanna. Egli infatti non disprezza la terra da cui siamo tratti, ma la valorizza indicibilmente mescolandola a Sé con la sua saliva, il suo soffio vitale. Dopo aver accolto il nostro fango come luogo dell’incontro con Lui, siamo invitati a bagnarci nelle acque della sua misericordia, e solo in quest’immersione nell’Inviato dal Padre (v. 7) possiamo ricevere finalmente la Luce che ci fa vivere. Facciamo nostro il cammino di fede di quest’uomo guarito che prima riconosce Gesù come un uomo, poi come profeta, come venuto da Dio ed infine come il Figlio dell’uomo, il Messia Signore. Così liberi dal peccato della nostra superbia, potremo vivere come veri figli della Luce.

«Poiché una delle cose che ti piacciono di più e più toccano il tuo cuore

è avere occhi per saperti guardare, dammi, Signore, questi occhi con cui guardarti:

occhi semplici di colomba, occhi casti e timidi, occhi umili e amorosi,

occhi devoti e che sanno piangere, occhi attenti e discreti per capire la tua volontà e compierla,

affinché, guardandoti con questi occhi, sia da te guardato

con quegli occhi con cui guardasti san Pietro, quando gli facesti piangere il suo peccato;

con quegli occhi con cui guardasti il figlio prodigo,

quando gli andasti incontro e gli desti il bacio della pace;

con quegli occhi con cui guardasti il pubblicano, quando egli non osava alzare lo sguardo al cielo;

con quegli occhi con cui guardasti la Maddalena, mentre lavava i tuoi piedi con le lacrime dei suoi occhi; infine, con quegli occhi con cui guardasti la sposa del Cantico dei cantici,

quando le dicesti: “Sei bella, amica mia, sei bella; i tuoi occhi sono di colomba”,

affinché, compiacendoti degli occhi e della bellezza dell’anima mia,

le dia quegli ornamenti di virtù e di grazia con cui ti appaia sempre bella» (San Pietro d’Alcantara).

sr. Paola Agnese Marinangeli, sfa

Se tu conoscessi il dono ….

Gv 4,5-42
In quel tempo 5Gesù giunse ad una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: 6qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. 7Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: “Dammi da bere”. 8I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. 9Allora la donna samaritana gli dice: “Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?”. I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. 10Gesù le risponde: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva”. 11Gli dice la donna: “Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? 12Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?”. 13Gesù le risponde: “Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; 14ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna”. 15″Signore – gli dice la donna -, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua”. 16Le dice: “Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui”. 17Gli risponde la donna: “Io non ho marito”. Le dice Gesù: “Hai detto bene: “Io non ho marito”. 18Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero”.19Gli replica la donna: “Signore, vedo che tu sei un profeta! 20I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare”. 21Gesù le dice: “Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. 22Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. 23Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. 24Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità”. 25Gli rispose la donna: “So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa”. 26Le dice Gesù: “Sono io, che parlo con te”.
27In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: “Che cosa cerchi?”, o: “Di che cosa parli con lei?”. 28La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: 29″Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?”. 30Uscirono dalla città e andavano da lui.
31Intanto i discepoli lo pregavano: “Rabbì, mangia”. 32Ma egli rispose loro: “Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete”. 33E i discepoli si domandavano l’un l’altro: “Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?”. 34Gesù disse loro: “Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. 35Voi non dite forse: “Ancora quattro mesi e poi viene la mietitura”? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. 36Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. 37In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. 38Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica”.
39Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: “Mi ha detto tutto quello che ho fatto”. 40E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. 41Molti di più credettero per la sua parola 42e alla donna dicevano: “Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”.

Dopo aver incontrato i giudei nella persona di Nicodemo al cap. 3, Gesù si avvicina ai fratelli scismatici della Samaria, attraverso una donna emarginata e disprezzata. Il Maestro, stanco del viaggio, siede da solo al pozzo di Sicar, e una donna, che non avrebbe voluto incontrare nessuno (poiché era verso mezzogiorno, mentre è di sera che si attinge l’acqua), giunge con la sua anfora. È un incontro assolutamente umano, quotidiano e semplice, eppure trasuda una miriade di significati profondi e straordinari, diventando una graduale rivelazione di Gesù come Salvatore del mondo e una testimonianza del cammino di fede del vero credente. Infatti, mentre non sappiamo chiaramente se Nicodemo credette in Gesù, sappiamo che la donna samaritana ebbe fede in lui, perché lasciò la sua anfora e divenne apostola, così come i discepoli lasciarono le loro reti per seguire il Maestro.
Giovanni costruisce questo meraviglioso racconto ad ondate, riprendendo, sviluppando e chiarendo precedenti affermazioni misteriose o simboliche. In particolare usa parole tematiche che evidenziano gli argomenti principali, come nei vv. 7-15 le parole dare, dono, bere, acqua e avere sete, che sono ripetute più volte; oppure nei vv. 35-38 i termini mietitura e mietere, e nei vv. 20-24 il verbo adorare, ripetuto per ben nove volte. Una struttura armoniosa che dipinge uno dei panorami di rivelazione più belli del quarto vangelo. Innumerevoli sono le riflessioni che la comunità ecclesiale ha approfondito dai Padri fino ad oggi, e non finiremo mai di contemplare la meravigliosa opera di Dio che in Gesù ci ha rivelato il Suo volere. Il Maestro supera ogni restrizione legalista e moralista che non ammetteva relazioni con le donne, tantomeno samaritane e adultere. Quando, infatti, si voleva insultare pesantemente un ebreo, lo si chiamava “samaritano”; lo stesso Gesù fu chiamato così da alcuni giudei durante una discussione (cf. 8,48). L’odio storico che ha diviso il popolo d’Israele in fazioni nemiche per moltissimo tempo, viene scavalcato dall’abbondanza del desiderio di Dio, che vuole che neanche uno dei suoi figli vada perduto. Ed è il Pastore che cerca la sua pecorella perduta, incontrandola nella sua debolezza e vulnerabilità, per curarla ed offrirle Sé stesso come fonte di vita vera. È lo Sposo che non condanna la sua sposa infedele, ma le dona una nuova definitiva Alleanza nella sua stessa carne. È il Salvatore che libera gratuitamente l’uomo amato, dalla schiavitù della morte. Il cammino è graduale, Gesù è rispettoso dei nostri tempi di accoglienza. Così come con la donna samaritana, Egli stimola pazientemente un discorso che nutre il desiderio in ciascuno di noi; è, infatti, il desiderio di quell’acqua zampillante di cui abbiamo sete, che spesso è assopito nella profondità del nostro cuore. Sant’Agostino diceva: “È il desiderio che scava il cuore”, è il desiderio che rende profondo il cuore, capace di raggiungere e contenere l’unica sorgente che ci può dissetare. Il Maestro prende l’iniziativa e si fa bisognoso della nostra argilla per rivelarci il suo desiderio; e nel momento stesso in cui prestiamo attenzione alla sua debolezza, già inizia a sgorgare in noi la sorgente della vita nuova dello Spirito Santo. Gesù si è fatto assetato per dissetarci, così come si è fatto povero per arricchirci (cfr 2 Cor 8,9). A noi sta iniziare ad allargare i nostri desideri alla Sua misura; accogliere che il Padre ha scelto come luogo dove abitare, non le alture lontane da noi, ma la profondità del nostro cuore di figli! È lì che Lui ci aspetta! E subito dopo, non potremo tenere più solo per noi l’annuncio della salvezza, così come non si può fermare lo sgorgare di una sorgente zampillante. Tutti quelli che incontreremo saranno contagiati dalla gioia degli schizzi della vita nuova dello Spirito, ricevuta nel Battesimo, e adoreranno con noi il Padre come fa il Figlio.

Sr Paola Agnese Marinangeli, sfa

ll contagio di Dio

05-TrasfigurazioneDal Vangelo di Mt 17,1-9

In quel tempo, 1Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. 2E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. 3Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. 4Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». 5Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». 6All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. 7Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». 8Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. 9Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».


Dopo aver annunciato per la prima volta apertamente, la sua imminente sofferenza, morte e risurrezione, Gesù conduce alcuni dei suoi discepoli sul monte, luogo privilegiato della rivelazione di Dio. Anche noi siamo invitati a lasciarci condurre in “disparte”, nel silenzio dove solo è possibile udire la voce di Dio, al di là delle apparenze di questo mondo per entrare nella “nube luminosa” della verità. Gesù “fu trasfigurato” davanti a loro: il verbo «trasfigurare» (metamorpheô) indica una trasformazione del corpo analoga a quella che sperimenteremo nel giorno della risurrezione finale (cfr. 1Cor 15,42-44.51), e la forma passiva in cui è posto il verbo, rivela gia la presenza di Dio Padre che opera nel Figlio. «Dio nessuno l’ha mai visto», ci dice l’evangelista Giovanni (1,18), e nell’Antico Testamento era impossibile poter anche solo pensare di vedere il suo “volto”, che nel linguaggio bibilico coincide con il significato di “persona”. «Voi vi avvicinaste e vi fermaste ai piedi del monte… il Signore vi parlò dal fuoco; voi udivate il suono delle parole ma non vedevate alcuna figura; vi era soltanto una voce» (Dt 4,11-12); ora «il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18). Gesù è la “figura” del Padre, attraverso di lui possiamo contemplare il Volto che prima non potevamo conoscere; con lui possiamo salire il monte che prima ci era inacessibile. Anche la presenza di Mosé e di Elia, esprime la totalità della rivelazione dell’Antica Alleanza (Legge e Profeti). E Dio è luce, splendente come il sole, integro nella sua abbagliante bellezza! Eppure è anche colui che presto sarà sfigurato dalle percosse e crocifisso! Il Maestro vuole preparare i suoi discepoli a guardare la Croce nella sua gloria, dentro il mistero della sofferenza abbracciata per amore, aiutandoli così a superare lo scandalo delle loro aspettative deluse. I discepoli, messi alla prova dall’annuncio della passione, nella nube luminosa in cui odono la voce del Padre, che testimonia per suo Figlio e invita alla piena fiducia in lui, sono dunque consolati, rafforzati e confermati da Dio stesso nel loro cammino di sequela. È un vangelo di luce, che ci ricorda che la vita spirituale consiste nella gioiosa fatica di liberare la luce e la bellezza nascoste in noi, e nell’aiutare gli altri a fare lo stesso. Anche noi siamo chiamati ad essere trasfigurati, a partecipare alla sua stessa luce. Contemplando il Signore, veniamo trasformati in quella stessa immagine (2Cor 3,17-18). Contemplare, trasforma; tu diventi ciò che guardi con gli occhi del cuore. L’entusiasmo di Pietro ci fa capire che la fede ha bisogno di stupore, di un aprire gli occhi alla meraviglia del dono che abbiamo ricevuto in Gesù. Il: questo è ciò che ci contagia della bellezza di Dio!

«Tu rendi luce me che prima ero immerso nell’oscurità

e quando siamo uniti mi rendi bello.

Tu mi purifichi con lo splendore dell’immortalità

e io stupisco ed interiormente ardo

nel desiderio di adorare Te solo.

E quando medito questo, io l’essere infelice,

o Te Meraviglia, Ti scopro in me stesso:

Tu vivi, Tu agisci, Tu parli,

e allora mi lasci senza parola

nello stupore della presenza della Tua inaccessibile gloria.

Paura allora s’impossessa di me e confusione,

perché colui che tiene ogni cosa nella sua mano

io vedo racchiuso nel mio cuore»

(San Simeone il Nuovo Teologo).

Sr Paola Agnese Marinangeli, sfa

 

Quaresima tempo della memoria

imagesDal vangelo secondo Matteo (Mt 4, 1-11)

In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”».

Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».

Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vàttene, satana! Sta scritto infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.


La Quaresima è il tempo in cui si fa memoria viva del proprio battesimo, tempo in cui si cresce nella consapevolezza sempre più chiara della vocazione divina, della nostra condizione di figli.

Nel Vangelo di questa prima domenica di Quaresima, Gesù è spinto dallo Spirito Santo nel deserto, perché, così come ogni uomo, “nessuno può conoscere se stesso, se non è tentato. […] Egli ci ha come trasfigurati in sé, quando volle essere tentato da Satana. Precisamente Cristo fu tentato dal diavolo, ma in Cristo eri tentato anche tu. Perché Cristo prese da te la sua carne, ma da sé la tua salvezza, da te la morte, da sé la tua vita, da te l’umiliazione, da sé la tua gloria, dunque prese da te la sua tentazione, da sé la tua vittoria” (S. Agostino). Viene condotto nel deserto perché sia manifestata l’identità di Figlio di Dio che è stata appena annunciata nel Battesimo qualche versetto prima, in modo che possiamo anche noi riconoscerci in lui. Per tanti secoli abbiamo centrato la nostra attenzione sul valore esemplare di questo episodio, ponendo al centro il nostro peccato, a discapito della manifestazione divino-umana che risplende in tutto il brano. Gesù rimane nel deserto per quaranta giorni, tempo che indica tutta una vita terrena (Matteo, per dare l’idea della continuità, aggiunge anche quaranta notti), assumendo il cammino dell’antico Israele e ricordando l’esperienza di Mosè sul Sinai (Es 24,18; 34,28) e di Elia nel deserto (1Re 19,8), i due testimoni della trasfigurazione. Proprio perché “il dono di grazia non è come la caduta” (Rm 5,15), possiamo guardare le tentazioni nella loro valenza positiva, come possibilità di scelta e quindi manifestazione della nostra libertà; espressione della nostra identità e personalità, e non semplicemente della debolezza umana. È vero che siamo tentati perché siamo deboli, ma dal momento in cui Gesù, il Figlio di Dio, le ha vissute, ci è stato rivelato un significato diverso di ciò che noi viviamo quasi sempre con ansia, angoscia e senso di colpa. Essere tentati, non è più solo un segno della nostra debolezza, ma è il segno della suprema libertà dell’essere figli di Dio! La debolezza emerge dopo aver fatto la scelta sbagliata, perché ci siamo dimenticati chi siamo. Questo cambio di prospettiva, sembra essere di poco conto, mentre invece ha delle grandi conseguenze sul piano pratico della nostra vita.

Guardando alle tentazioni dal positivo, contempliamo, quindi, la bellezza della figliolanza divina che Gesù ci ha donato gratuitamente. La fame che il Figlio prova alla fine dei quaranta giorni, diventa la partecipazione al desiderio che la Trinità ha di noi; la fame di Dio come compimento dei quaranta giorni, il desiderio di Dio come pienezza della nostra vita!

La tentazione del pane, diventa la scoperta dell’Amore Provvidente del Padre che ha cura di noi (non preoccupatevi di cosa mangerete o berrete… il Padre vostro celeste sa di cosa avete bisogno… abbiamo ascoltato domenica scorsa). Gesù mantiene la sua fame attenta verso il Padre, ci rivela che il bisogno più profondo e vero dell’uomo, è la relazione con Dio.

La tentazione del potere che si impone con gesti miracolosi, diventa l’apice della rivelazione Trinitaria! Gesù viene portato sul punto più alto del Tempio, della Casa del Padre; si trova, dunque, davanti al Padre come Figlio. Il Padre, invece di evitare al Figlio la sofferenza, rivela nella nostra disobbedienza il suo Essere Amore per l’uomo. Gesù è venuto per vivere la “Sua Ora”, si è fatto carne per darci la possibilità di trafiggergli il Cuore, da dove la Vita Divina si riversa su di noi. Il Figlio di Dio ci porta nel Cuore del Padre che vuole condividere con noi il Suo stesso potere d’amore!

Infine, la tentazione del regno, diventa l’accoglienza della Promessa del Padre che dà il suo Regno al Figlio gratuitamente! Il Regno dei cieli è già in mezzo a noi, e ci è donato gratuitamente perché siamo figli; non c’è neanche bisogno di gettarsi ai suoi piedi per adorarlo! Non lo riceviamo dall’alto della superbia, ma dal basso, dalla Croce, dal di dentro della disobbedienza dell’uomo. Il Regno è la Verità che Gesù è venuto a testimoniare; è la Volontà del Padre che dall’eternità continuamente crea e sostiene tutto l’universo, e ce ne rende signori serviti dai suoi angeli!

Paola Agnese Marinangeli, sfa

 

“Perché vi preoccupate?”

GIGLI DEL CAMPODal Vangelo secondo Matteo (6,24-34)

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza. Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena».


“Perché vi preoccupate?”

Una delle malattie più diffuse del nostro tempo, e, forse, la più profonda e dolorosa, sembra proprio essere quella dell’ansia, dell’angoscia, della paura di non avere ciò di cui abbiamo bisogno. Se ci fermiamo a considerare con sincerità la nostra giornata, come abbiamo vissuto il tempo a nostra disposizione? Il Signore Gesù inizia questa ultima parte del suo discorso, invitandoci a fare verità nella nostra vita: chi è il mio padrone? La relazione padrone-servo, sembra essere lontana da noi, popolo abituato alla libertà e alla democrazia; eppure, dall’affermazione di Gesù, sembra che avere un padrone sia inevitabile per tutti e che a noi spetta solo la scelta di colui o di ciò a cui appartenere.

Il padrone è colui (o ciò) che determina ogni istante della vita del servo; che decide ogni momento della sua giornata e a cui, al termine dell’opera, deve dare conto. Il termine Mammona viene da una radice ebraica che è la stessa della parola Amen, ( ’aman, essere saldo), cioè quello che è vero, quello che è sicuro; indica i beni materiali, a cui ci si affida per dare sicurezza alla propria vita. L’affanno per le cose materiali ci fa perdere la cosa più necessaria (Lc 10,38-42) e ci riempie di una inutile e dannosa inquietudine. Mentre la semina e la mietitura nella similitudine degli uccelli, avevano un rapporto con il lavoro maschile, l’espressione non «lavorano né filano» allude al lavoro normale della donna palestinese; né l’uomo né la donna per quanto si affannino, possono prolungare anche di poco la propria vita. Le affermazioni del Maestro sono, dunque, molto forti e provocatorie: da chi lasciamo determinare il valore della nostra vita?

Siamo chiamati a libertà, ma in noi c’è una paura fondamentale: «il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato». Ebbene, anche se una donna dovesse dimenticarsi del figlio delle sue viscere, il Signore non si dimenticherà mai di noi! (Is 49,14-15).

Lasciamo che le sue domande entrino in noi come i primi raggi del sole di primavera, come la dolce supplica di una madre che non sopporta di vedere il proprio figlio schiavo di una realtà che lo priva del suo valore. I versetti che seguono, infatti, hanno una particolare tenerezza: guarda gli uccelli del cielo… osserva attentamente la bellezza dei fiori nei campi… guardati intorno… prendi coscienza della vita che è intorno a te… da chi dipende? Chi l’ha voluta, lì e non altrove, e ne ha cura? Non vedi con quanta Provvidenza il Padre è attento ad ogni più piccolo particolare della tua esistenza? Non vedi che il valore della tua vita è enorme, perché tu sei figlio del Padrone di tutto?

“Non preoccupatevi dunque”; non ti mancherà nulla di ciò di cui hai bisogno, anche quando ti sembra di aver perso tutto, abbi fiducia nel Padre; la tua vita, infatti, non dipende da ciò che ti manca, ma da ciò che sei!

Gesù ci invita ad avere piena fiducia nel Padre, per questo il ritornello del vangelo di questa domenica è non preoccupatevi: ogni nostro giorno è custodito dalla Provvidenza del Padre che ci nutre, ci disseta e ci riveste dell’abito più bello, quello della nostra figliolanza! All’assillo affannoso dei pagani per il benessere e la sicurezza materiale, Gesù contrappone la ricerca sapienziale del Regno da parte dei discepoli (cfr. Sap 6,12). Cercare prima di tutto il Regno e la giustizia del Padre, significa abbandonarsi con fiducia al Suo amore per noi e aderire con la vita alla Sua volontà che è la sola che ci rende liberi, sereni, felici per il privilegio di essere figli di Dio!

Sr. Paola Agnese Marinangeli, sfa