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La gioia di servire

L’anima nostra ha bisogno di solitudine. Sant’Agostino (354-430)

solitudine1Il grande Agostino scrive della solitudine voluta da Dio per il primo uomo: “Fu molto meglio che il genere umano… abbia avuto origine da un solo uomo creato all’inizio, piuttosto che aver origine da molti… L’uomo dunque fu da Dio creato singolo e solo: solo, non tuttavia nel senso che sarebbe stato privo di società umana, ché anzi più avrebbe sentito il vincolo di questa società e l’unità concorde, essendo gli uomini uniti tra di loro non solo dalla somiglianza di natura, ma anche dall’affetto della parentela…”. Prospettiva da ampi e precisi orizzonti e solida concretezza agostiniana!

L’uomo dunque fu ‘creato singolo e solo’, ma non per vivere ‘appartato’, in solitudine. La sua vocazione identitaria è alla relazione, alla fraternità, alla comunione, dalla e nella ‘parentela’. Spinto da una ineludibile esigenza interiore, a volte brama la solitudine, altre la patisce con una intensità implacabile.

“Sono solo” dice con profonda amarezza qualche anziano… “Vorrei vivere in un deserto” è l’anelito espresso in momenti di giornate particolarmente faticose o caotiche. La solitudine imposta dalle circostanze e la solitudine anelata e/o cercata come ‘salvagente’ non serve. Sono gingilli o macigni senza senso; scuse fasulle che esprimono povertà interiore.

Spazi di solitudine sono necessari a chiunque: rispondono al giusto e salutare desiderio di rimanere soli per meditare su situazioni personali o relazionali, per capire meglio se stessi; per scavare con maturità entro se stessi, prendere coscienza delle proprie reazioni, o semplicemente per distendersi e riposare.

La solitudine così vissuta aiuta a diventare serenamente concreti, realisti sul proprio passato e capaci di protendersi verso un futuro con il cuore libero, pronti ad attendere e a vivere nuove primavere.

Icona di una donna che ha saputo vivere e maturare in solitudine è Maria. L’angelo le appare, le annuncia un radioso futuro poi, ‘partì da lei’. La trova sola; la lascia con un bimbo che lei porterà in grembo per nove mesi. Quando questo bimbo sarà adulto, sceglierà di vivere 40 giorni nel deserto, in solitudine, pronto alle sue battaglie con il grande nemico, Satana. E a tutto quello che il Padre vorrà da Lui…

Così i grandi della storia, molti asceti, e gli stessi Fondatori che, quando necessitavano certezze per sé e per i loro Istituti, si ritiravano per un periodo in solitudine. Agostino scriveva: “Ritorna in te stesso… all’interno dell’uomo abita la Verità”. Questa solitudine, liberamente scelta e vissuta con saggezza e con calma aiuta a vivere intensamente i vari momenti della giornata, assorbendo e gustando tutta la ricchezza e la bellezza in essi racchiusa. Non vi saranno più sprechi di energie; non si proietteranno su altri le colpe dei propri dissapori… Vi sarà pacifica concentrazione e raccoglimento e nuova fresca capacità di relazione, di quel semplice, caldo e pacifico ‘dono di sé’ che rende ancora più bella la vita propria e quella degli altri.

Biancarosa Magliano, fsp

biancarosam@tiscali.it

 

 

 

 

INSIEME1Sono preoccupato per l’isolamento che viviamo nella mia comunità: ciascuno si occupa delle proprie cose, con relazioni minime con i fratelli, mentre verso l’esterno c’è un’attività frenetica. È come una specie di doppia personalità: estremamente sociale, simpatica e disponibile ad extra, ma alquanto ermetica ad intra, forse perché le persone non si sentono valorizzate. Un formatore

 Fino a qualche anno fa queste parole potevano riferirsi, con certezza, soprattutto alle realtà maschili. Oggi invece non si può dire la stessa cosa: anche molte realtà femminili soffrono nel vedere le loro giovani e meno giovani chiudersi nelle proprie stanze, non appena possono. Qui, davanti a cellulare e computer si apre un mondo, anche bello: si naviga tra notizie di attualità, scambio di chat, Skype con la propria famiglia o con gli amici. Insomma, dentro la propria stanza c’è un intero mondo relazionale, invisibile a chi sta intorno, ma reale. Oppure ci si dedica appassionatamente ad attività apostoliche, solo che mentre fuori la persona è una sorta di eroe multitasking, dentro il proprio ambiente si spegne. Pare ci sia una forza centrifuga che allontana i membri delle comunità dai propri focolari domestici.

Che succede?

A domanda rilancio un’altra domanda: la vita comunitaria è ancora attraente per i suoi membri? Talvolta ho l’impressione che il modo di pregare, il modo di stare insieme, perfino il modo di svagarsi non corrisponda ai desideri e alle esigenze dei suoi membri. Consacrati e consacrate possono vivere secondo uno stile che non piace proprio a loro stessi, il che è piuttosto paradossale. Alessandro d’Avenia, ricordando l’esperienza di Ulisse, mosso dal desiderio e dalla passione di tornare ad Itaca, per sé e per i suoi compagni, aggiunge che però «prima bisogna aver reso la pietrosa Itaca il luogo più bello per cui lottare […] Ma dov’è finita Itaca?».

Per accendere la passione per la propria “terra” occorre ripensare a come renderla ospitale per chi vi abita.

Penso soprattutto al rapporto (spesso indefinibile) che lega i membri tra loro: relazioni a volte adolescenziali, cioè fatte di affetti appiccicosi e limitanti, relazioni altre volte formali, più che fraterne, che non sanno di molto e non possono certo animare la vita di comunità, né rappresentare una forza di attrazione reciproca. Non è raro che un seminarista o una consacrata dicano di sentirsi più valorizzati in parrocchia che in comunità. Eppure Itaca è tale «proprio grazie ai legami che la rendano Itaca».

Allora c’è qualcosa che non torna: ci si conosce poco, tempo ed energie scarseggiano, forse si dà per scontato che una stessa vocazione renda automaticamente il vivere insieme una fraternità, invece non è così.

C’è però un altro aspetto che mi sembra di cogliere oggi: le comunità spesso sono vissute come luoghi di passaggio, o trampolino di lancio per i percorsi individuali, come se la vita in comune non avesse un senso in se stessa. Molti “soffrono” la vita comunitaria perché non è abbastanza attenta alla persona, a “me”, e per questo cercano spazi esterni di realizzazione di sé.

Allora c’è da riflettere su cosa ci si attenda dalla vita comunitaria, cosa la vita comunitaria voglia dare ai suoi membri, e viceversa.

È come se l’aspetto del vivere insieme non fosse parte integrante della vocazione, ma un dettaglio eventuale, che deve comunque sottomettersi alle esigenze di ciascuno. I gruppi a movente ideale soffrono molto oggi un indebolimento del loro aspetto comunitario, forse proprio come reazione ad un passato dove invece il gruppo era una sorta di “mito”, a discapito dell’individuo.

Mi pare sia questa la grande sfida della vita in comune nel nostro tempo, lo dico da laica che la osserva ammirata: tornare a credere di più in se stessa grazie ai suoi testimoni appassionati ed autentici, che insieme ad altri fratelli e sorelle – non amici, né sposi/e, né commilitoni – desiderano vivere il carisma scelto e, perché no?, che hanno anche il coraggio di ripensare se la propria terra si possa migliorare, rendendo Itaca meno pietrosa.

Fonte: cittanuova.it

L’anima nostra ha bisogno di solitudine Agostino d’Ippona

solitudine1Il grande Agostino scrive della solitudine voluta da Dio per il primo uomo: “Fu molto meglio che il genere umano… abbia avuto origine da un solo uomo creato all’inizio, piuttosto che aver origine da molti… L’uomo dunque fu da Dio creato singolo e solo: solo, non tuttavia nel senso che sarebbe stato privo di società umana, ché anzi più avrebbe sentito il vincolo di questa società e l’unità concorde, essendo gli uomini uniti tra di loro non solo dalla somiglianza di natura, ma anche dall’affetto della parentela…”. Prospettiva da ampi precisi orizzonti e solida concretezza agostiniana!

L’uomo dunque fu ‘creato singolo e solo’, ma non per vivere ‘appartato’, in solitudine. La sua vocazione identitaria è alla relazione, alla fraternità, alla comunione, dalla e nella ‘parentela’. Spinto da una ineludibile esigenza interiore, a volte brama la solitudine, altre la patisce con una intensità implacabile.

“Sono solo” dice con profonda amarezza qualche anziano forse abbandonato un po’ da tutti… “Vorrei vivere in un deserto” è l’anelito espresso in momenti di giornate particolarmente faticose o caotiche. La solitudine imposta dalle circostanze e la solitudine anelata e/o cercata come ‘salvagente’ non serve. Sono gingilli o macigni senza senso; scuse fasulle che esprimono povertà interiore.

Spazi di solitudine effettivamente sono necessari a chiunque: rispondono al giusto e salutare desiderio di rimanere soli per meditare su situazioni personali o relazionali, per capire meglio se stessi; scavare con maturità entro se stessi; prendere coscienza delle proprie reazioni; o semplicemente per distendersi e riposare.

La solitudine così vissuta aiuta a diventare serenamente concreti, semplicemente realisti sul proprio passato e capaci di protendersi verso un futuro con il cuore libero, pronti ad attendere e a vivere nuove primavere.

Icona di una donna che ha saputo vivere e maturare in solitudine è Maria. L’angelo le appare, le annuncia un radioso futuro poi, dice la Scrittura, ‘partì da lei’. La trova sola; la lascia con un bimbo che lei porterà in grembo per nove mesi; adulto, sceglierà di vivere 40 giorni nel deserto, in solitudine, pronto alle sue battaglie con il grande nemico, Satana. E a tutto quello che il Padre vorrà da Lui…

Così i grandi della storia, molti asceti, gli stessi Fondatori quando necessitavano certezze per sé e per i loro Istituti si ritiravano per un periodo in solitudine. Agostino scriveva: “Ritorna in te stesso… all’interno dell’uomo abita la Verità”. Questa solitudine, liberamente scelta e vissuta con saggezza e con calma aiuta a vivere intensamente i vari momenti della giornata, assorbendo e gustando tutta la ricchezza e la bellezza in essi racchiusa. Non vi saranno più sprechi di energie; non si proietteranno su altri le colpe dei propri dissapori… Vi sarà pacifica concentrazione e raccoglimento e nuova fresca capacità di relazione, di quel semplice, caldo e pacifico ‘dono di sé’ che rende ancora più bella la vita propria e quella degli altri.

                                                                 sr Biancarosa Magliano, fsp

                                                                 biancarosam@tiscali.it

Cura

Cura

Siamo cura noi stessi

CURALa favola-mito della cura essenziale è di origine latina con base greca. La riporta Igino, scrittore del I secolo d.C.; se ne servirà Heidegger, quando analizzerà il tema della “Cura” (Sorge) in Essere e Tempo.

 “La Cura, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa ne raccolse un po’ e cominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire cosa abbia fatto, interviene Giove. La Cura lo prega di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la Cura pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio.

 Mentre la Cura e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: “Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, finché esso vive lo possieda la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus”.

Dalla verità archetipica del mito, scopriamo ancora una volta il senso del nostro esistere: siamo terra abitata dal cielo, chiamati a costruire la nostra esistenza nel tempo, ma protesi a dar forma all’utopia (che è Saturno, dio del tempo e della mitica età dell’oro). Solo nella continua ricerca dell’impossibile l’umano può realizzare il possibile. Ma ciò che si svela sin dal principio è che la Cura precede!

Non siamo chiamati ad aver cura, no, siamo cura noi stessi!

In ogni fibra. Nel profondo. Prima che fossimo fibra, prima che ci fosse un profondo, siamo stati pensati come cura.

 Nella doppia accezione di essere oggetto di cura, da parte di altri (come pensare di esistere in assenza di cura? Come venire al mondo senza qualcuno che ci attenda, ci faccia spazio, ci veda, si accorga di noi?) e di assumere la cura di un oggetto esterno a noi.

 Cura è rinunciare, una volta per sempre, alla volontà di potere che cosifica il mondo, riducendolo a merce di scambio. E inaugurare relazioni di rispetto e di riscoperta del valore sacro di ogni realtà donata. Cura è la saggezza che sa decentrarsi, che rinuncia a comprendere il mondo e l’altro “a partire da sé” (e talvolta rinuncia a comprendere, e basta…), ed impara a contaminarsi, a spostarsi di lato, a fare spazio.

 Cura è lo sguardo che si posa sulle cose e le chiama ad essere, che sa offrire una nuova occasione. Come  lo sguardo del Nazareno, che scava nel profondo per trarne fuori ogni buono; cura è l’attesa paziente perché il seme piantato dia frutto, è il disporsi, sapiente, ad attendere il tempo giusto, senza forzare gli eventi. E’ la sintonia che ci lega ad ogni vivente e ci insegna a captare la presenza dello Spirito al di là dei nostri limiti umani.

 Cura è aprire spazi di ascolto, grembi di buio, capaci di custodire le sconfitte, le rinunce, i fallimenti e tutto ciò che non ha ancora la forza di venire al mondo, e disporsi all’attesa sino a che giunga il tempo della schiusa.

 Cura è scommessa sul futuro, è capacità di visione che squarcia il velo del presente per concedersi la speranza.

 Per questo ogni gesto di cura, anche il meno visibile, è un gesto politico, perché invera l’ipotesi di un vivere buono da costruire insieme, perché diviene luogo di resistenza alla barbarie, pone la base per una nuova con-vivenza e, senza alcuna pretesa di salvare il mondo, aiuta a salvare il nostro sguardo su di esso.

 Cura è, infine, la tenacia con cui  qualcuno ha saputo scorgere un tenero verde spuntare dal tronco disseccato di Iesse. E’ l’abbraccio materno che sa dire nemmeno uno iota, nemmeno un capello del capo sarà perduto, e lo dice quando tutto ci sembra perduto, quando noi e il mondo intorno sembriamo andare alla deriva.

 E’ dote di profeti, una cura come questa. E talvolta la ritrovo nei gesti antichi di certe nostre donne di campagna, e nei loro piccoli, rigogliosi giardini, stipati di ogni cosa, dove tutto torna ad attecchire, ciò che era dato per finito.

Chiara Saletti

 (articolo tratto da Combonifem)

viandante1Orizzonte dell’uomo è un cuore plurale

Iddio ci tolga pure tutte le cose: ma ci lasci l’amicizia, si legge nel carteggio Montini/De Luca. Parole preziose per tempi agitati, confusi e avidi come i nostri. Certamente il grido più profondo di ogni essere umano è la domanda di relazione. Eppure ogni tempo inventa nuovi modi di rinnegare la fraternità o ne rispolvera di vecchi. Un sano realismo chiede di aprire gli occhi e guardare con attenzione a quanto avviene in noi e intorno a noi… I rapporti reciproci riescono difficili a tutti; la paura dell’altro continua a rendere stranieri; spesso anche l’uomo onesto preferisce coltivare il suo orticello, finendo così per soccombere alla tentazione di disprezzare gli altri; persino il sentimento stesso della fiducia sembra oggi smarrito… e non solo nei mercati! Intanto ogni comunità nasce, si nutre e vive di fiducia, oppure si sgretola… Dio, soltanto una piccola scintilla di pura amicizia – e si sarebbe salvi; di amore – e si sarebbe redenti! (Georg Trakl ). Parole che attendono risposta. Responsabilità, appunto. Siamo viandanti: chi ci indicherà la strada? Chi ci illuminerà?

Niente è esclusivamente nostro di ciò che abbiamo ricevuto; per questo chi è maggiore fra voi sia come colui che serve (Mt 23,12). Il vero amore incomincia quando l’altro non ha più niente di amabile; e la passione per il volto feriale dell’umano guida ad affidarsi con gioia e coraggio alla profezia del Vangelo. Migliori, perciò, di nessuno; eventualmente più responsabili, lasciando a Dio – di fronte alla cattiveria – il difficile compito di giudicare… Lui di sicuro non chiede di dividere il mondo secondo i propri criteri, o di erigersi a giudici. Chiamati invece a risvegliare le ricchezze sopite che ognuno porta in sé e a praticare il bene alla maniera di chi distribuisce con gioia la bontà che il Creatore gli ha messo nel cuore. Non perciò in modo esibizionista o aspettando una ricompensa, ma facendosi servi inutili a tempo pieno; specialisti nel cogliere la sostanza di ciò che accade e nell’annunciare un mondo altro. ‘Profeti abbastanza’ insomma, che camminano verso una fede incarnata e non evasiva, restituendo alla profezia dei ‘piccoli’ la sua forza inquietante e contagiosa.

Incarnare la Parola nella piccola cronaca personale e comunitaria produce storia di salvezza e gioia profonda. Se si nutrono sentimenti positivi verso gli altri, non se ne ha paura. Il problema è quando contano i principi più delle persone. Fermarsi ai principi non aiuta. Anzi…giustifica ogni lamentela. Guai a chi chiede agli altri più amore di quanto egli stesso si senta capace di donare. Far sentire, inoltre, qualcuno di troppo è un modo di ucciderlo, assicurava Mazzolari. Sta ad ognuno vivere quel poco di verità che sente, pensa, conosce e di cui, perciò, è pure responsabile. Perché orizzonte dell’uomo è un cuore plurale e se si smette di amare, allora si soffre davvero.

Luciagnese Cedrone

lucia.agnese@tiscali.it

Parola cruciale è: COMUNICARE

COMUNICARE1Meglio commettere errori con gentilezza che fare miracoli con scortesia, esortava Madre Teresa. D’accordo. Ma, al di là della cordialità da salotto, stiamo davvero comunicando gli uni con gli altri? Non è cosa da poco chiederselo perché la comunicazione, a partire da quella fondamentale tra una mamma e il suo bambino, vive nella relazione e mette in gioco ogni legame. Quando è distorta ferisce profondamente e conduce a rapporti distorti. Non è esagerato affermare che, proprio nell’epoca dell’estensione capillare della rete, paradossalmente, la comunicazione è venuta a mancare. Comunicare infatti è disponibilità a lasciarsi arricchire dal positivo dell’altro, anche quando è nascosto da un cumulo di miserie e di errori e ci sembra di ‘perdere tempo’ a cercarlo; è aprirsi ad un rapporto orientato all’effettiva e reciproca crescita. Presuppone perciò una partecipazione attiva sia nell’esprimere che nel ricevere. Il che teoricamente è il desiderio di molti e praticamente il programma di pochi.

Lo rivela il clima che si respira oggi nelle più diverse comunità… dove, concentrati sulle cose da fare, spesso siamo carenti di empatia e di considerazione delle difficoltà di ognuno. Segnati, invece, dal giudizio sull’impegno degli altri, alla fine ci si rivela ipocriti, perché si predica ciò che non si pratica. In realtà la persona esprime pienamente se stessa quando sa e sente di essere accolta… Ma come riuscire a sintonizzarsi sul punto di vista e sulla realtà degli altri per poterli accogliere così come sono?

Dio ci ha fatto il dono dell’angoscia perché ammettiamo di non bastarci e di aver bisogno di Lui; di avere conti che non tornano e dover chiedere aiuto… Ci chiede un lavoro un po’ amaro: farci arrivare al cuore il dolore altrui. Guardarlo senza fare zapping… Nel modo in cui comunichiamo ed esercitiamo il potere personale -poco o scarso che sia- c’è sempre un consenso che andiamo cercando… Ma nessuno ha il diritto di crescere solo lui soffocando gli altri… E il Vangelo c’invita a rivedere il modo in cui esercitiamo tale potere. Capire che cosa provano gli altri e perché, sapere che cosa provo io e perché… aiuta sempre a prendere decisioni che fanno crescere. Potrebbe essere utile anche, alla sera, in un angolo di revisione personale, chiedersi se qualcosa di nuovo ho imparato dalle persone incontrate in giornata; se con un ascolto serio ho aiutato qualcuno a comunicare; se mi è usuale ripetere: vorrei capire meglio!…nella certezza che partire dalla vita e dalle esigenze dell’altro permette a Dio, che fa ogni cosa nuova, di farci nascere di nuovo. Il cambiamento avverrà per iniziativa individuale e non collettiva. Siamo qui. E moriremo, come non fossimo mai stati. Ma le azioni che nascono dalla conversione del cuore riescono a stupire: guariscono la propria vita e il mondo frantumato. Realizzano ciò che solo Amore crea.

Luciagnese Cedrone

lucia.agnese@tiscali.it

Fare amicizia con la morte?

morte1La più grave epidemia del mondo contemporaneo – affermava il grande maestro R. Panikkar – è la superficialità, che fa vivere di ‘immediato’ e di ‘cose’ che non durano. Questo blocca la vita al bordo del Mistero e impedisce di riconoscere cosa significa essere umani. E l’uomo – fatto per essere coinvolto in un amore assoluto e incondizionato – si ritrova a sperimentare solo una tristezza infinita.

Ricercare il senso della morte?… sì, è necessario. Ma saremo mai capaci di trovarne uno che possa toglierci la paura? La morte ci svela il senso della vita in cui tutto è provvisorio e nulla vissuto pienamente. Una certezza, però, ridà calore di senso ad ogni situazione, provocata o solo subita dall’uomo: Dio è e rimane lì dove noi siamo, costi quel che costi. “Non c’è grido umano che non sia ascoltato da Dio” (Benedetto XVI), che porta a compimento ciò che nella nostra storia noi stessi -aprendoci all’amore verso gli altri – siamo riusciti a realizzare solo parzialmente. Lui non ha scarto né pattumiere nel suo progetto e nessun gesto umano d’amore va perduto. La risurrezione di Cristo – che certo non affrontò la morte come un bene desiderabile – rivela al cristiano che veramente l’Amore è più forte della morte. E se Gesù ha voluto sperimentare con noi l’intera assurdità della morte, essa non è l’estuario tragico nel baratro del nulla, ma l’ingresso nella piena comunione con Dio… Strada possibile solo per chi ha fede?

Oggi si tratta di ridare dignità alla morte, strappandola alla terra di nessuno in cui l’abbiamo confinata. Come possiamo credere in un Dio che ci ama incondizionatamente, se tutte le gioie e tutti i dolori della nostra vita sono alla fin fine inutili, se si perdono nella terra con il nostro corpo mortale? Quando si giunge alla profonda conoscenza interiore – più del cuore che della mente- che nati dall’amore, moriremo nell’amore, allora tutte le forme della morte perdono il loro potere ultimo su di noi. E se il Creatore ci ha amato così tanto da desiderare che noi facessimo esperienza della totale assurdità della morte, allora deve esserci una Speranza, qualcosa che supera la morte, una promessa che non è compiuta nella nostra breve esistenza. Lo stesso amore, che ci fa mormorare e protestare contro la morte, ci rende liberi di vivere nella Speranza. La fede, insomma, ci dà la liberante certezza che niente di ciò che noi facciamo nella nostra esistenza corporea va perduto; ci chiama a vedere e vivere ogni nostro singolo attimo come un seme di eternità. Il cuore e la mente di Dio superano la misura della nostra comprensione… Tutto ciò che a noi è richiesto è semplicemente avere fiducia in Chi è pronto ad accoglierci: sarà lì quando faremo il grande balzo. Basta solo stendere le braccia e le mani e avere fiducia, fiducia, fiducia.

         Luciagnese Cedrone

         lucia.agnese@tiscali.it

intreccio-Dio-e-io 1Chi dice ‘incontro’

I torti fatti e ricevuti si possono semplicemente dimenticare? Per esperienza, no… D’altra parte le ferite di una fiducia tradita non si risolvono certo sostituendo una persona con un’altra, come abitualmente si fa con un cellulare rotto. Ma sorridere al sole che sorge senza sentirsi ingenui, e farsi ostinati nel voler gustare i più piccoli segnali di bene nascosti nelle 24 ore mette la persona in relazione con il Mistero; illumina, guida e …capovolge la vita! Davvero un individuo può negare con tutte le sue forze l’esistenza di Dio e gustarlo nel sacramento severo del dialogo (M. Buber). Perché, se la chiamata alla fede è personale, il percorso da fare, per incontrarne il Volto di Dio, è insieme; e inizia e continua in quel quotidiano dove in genere non lo si cerca. Dire incontro, insomma, è lasciarsi formare dalla vita per tutta la vita, sapendo che la responsabilità anche drammatica delle proprie scelte non può essere delegata proprio a nessuno. Si tratta di aprire le porte del cuore e cominciare -e continuare ogni giorno- a scegliere, con libertà interiore, la via più utile al bene di tutti.

Dice bene il detto: Si trova quel che si cerca… Esercitarsi a trovare in sé, negli altri, in ogni situazione di vita, un po’ di bene, introduce – sia pure attraverso un lungo errare – all’esperienza dell’amore. A camminare in tale direzione si fa un po’ fatica, ma averne la consapevolezza permette di non scoraggiarsi troppo facilmente; e perfino di cambiare il lamentarsi in ringraziamento.

Chi dice ‘incontro’ riconosce la necessità di non rimanere fermi ad aspettare che tutta la strada sia fatta dall’altro… In realtà tanti sono i ‘piccoli io’ che convivono in ogni individuo dai quali è necessario uscire per non impedire l’incontro. C’è l’io ‘saputello’ che vuol sempre salvare la faccia; dominato com’è dal bisogno di avere continuamente ragione, ha il terrore della brutta figura… Sarà capace di riconoscere in sé questa debolezza e di uscirne senza fare drammi? C’è il ‘bambino’ che spesso piagnucola, si lamenta, pesta i piedi, accusa gli altri, punta il dito. Chissà perché poi si ha sempre bisogno di avere qualcuno a cui comandare… Sarà perché ognuno ha troppo da fare a dominare se stesso? Certo è che si vuole essere primi in tutto: nel capire le cose, nell’intervenire; nel lavoro, nell’essere ben voluti, in ogni occasione, sempre primi… Un po’ di auto-umorismo metterebbe certamente in ripresa…

In fondo le delusioni per incontri mancati fondano le loro radici tutte in un punto: si aspetta che l’altro costruisca la nostra felicità, se ne assuma il compito…; e si finisce per incrociare le braccia di fronte alle proprie responsabilità. Sola speranza sicura nel cammino della vita è quel futuro che Dio ha messo come seme in ogni amore vero.

Luciagnese Cedrone

lucia.agnese@tiscali.it

Crepacci assetati di Infinito

INFINITO 1Navighiamo in un mondo di distrazione crescente e di relazioni personali sempre più in pericolo. Il male, sotto forme diverse, germoglia un po’ ovunque. Fin troppo facile snocciolarne il lungo elenco. Ma è certo – come assicurava Teresa di Calcutta – che fra tutti i mali, il peggiore che può soffrire un essere umano è la mancanza di affetto. Eppure anche nella fotografia più scura fanno capolino piccole luci di speranza, accese da chi senza clamore non s’arrende e non rinuncia ad essere se stesso, con dignità; il suo sguardo vede e soccorre chi incontra; svolge il suo compito responsabilmente; fa del bene nelle situazioni più ordinarie… Gente normale, insomma. Inconsapevolmente eroica. Gente che nella fatica quotidiana conosce la gioia di imparare a sintonizzarsi sugli altri in modo genuino. E nel nostro mondo argina l’imperante disaffezione alle idee, all’impegno, alla fede…

A dettare il ritmo di marcia verso il mistero dell’altro non può essere la paura, che fa solo ripiegare su se stessi, isolando da uomini e problemi. Ma nei recessi di ogni esistenza umana vi è un pizzico di profeta. Il che per il cristiano significa consentire al seme della Parola di entrare nei solchi della propria sensibilità e guarirla. È accogliere l’invito a tirare fuori da sé il meglio mettendo da parte ogni sterile borbottìo… Le lamentele infatti distolgono dalla necessità di imparare a mettersi in discussione… Come le sedie a dondolo, ti tengono impegnato, ma non ti portano da nessuna parte. Rivelano invece quella sindrome di vittimismo oggi così diffusa, che abbassa ogni capacità di risolvere i problemi. E incentra, anzi, sempre più su se stessi. Per uscirne non c’è che una via: impegnarsi ad accettare gli altri e amarli così come sono, con il loro egoismo e aggressività… Quando finalmente le paure diminuiscono e le persone cominciano ad ascoltarsi a vicenda senza pregiudizi, si potrà capire perché questo o quello agiscono in un certo modo e sintonizzarsi su loro… È proprio vero: perché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime (Albert Camus). Vale per tutti, nessuno escluso.

La crescita di una persona verso l’amore e la saggezza è comunque sempre lunga; quando poi si tratta di una comunità, avviene ancora più lentamente… Sempre però viene da Dio quando si grida a Lui dal fondo del proprio abisso e ci si lascia penetrare dal suo Spirito. Non si tratta di nascondere, né di ostentare, le proprie ferite -che sono sempre risultato di altre e altre e altre ferite- ma di scoprire che proprio quelle ferite aiutano a vivere nell’umiltà e nella verità… Allora nel crepaccio assetato di infinito (Kierkegaard) che è l’uomo, Dio gli si fa incontro, scarcera tutta la luce racchiusa in lui, e sazia il suo cuore di Infinito.

Luciagnese Cedrone

         lucia.agnese@tiscali.it

Fase di bilancio?…

bilancia2Quando si comincia a volgere indietro lo sguardo, è più facile vedere e comprendere i fatti della vita nel loro contesto. E molto di quanto prima sembrava avere enorme importanza perde il suo peso. Parallelamente cresce la serietà di fatti prima ritenuti irrilevanti. Si inizia così a guardarsi intorno con criteri nuovi, che liberano sentimenti e pensieri dai camuffamenti delle chiacchiere e dell’egoismo. La visione meno ossessiva di sé e del proprio ruolo dona ai giorni un senso che nessun’altra fase della vita possiede. In realtà riuscire a scoprire in sé limiti, difetti, cose buone e cose cattive… insegna la modestia. E s’impara anche a ridere di sé perché ci si rende conto che davvero non si era capito molto…

Idee, mode, stili di vita, poteri… tutto nel tempo cambia… Il credente sa che unico messaggero di umanità autentica rimane Cristo; che la Sua Parola è la prima epifania che squarcia il silenzio del nulla, la sola che dà senso pieno al cammino della vita. D’altra parte la più bella Parola di Dio è la vita di ognuno (2Cor. 3,3). E grande tesoro per ogni creatura é il compimento pieno dell’esistenza. In un compito così essenziale, sia che a Dio ci si rivolga sia che lo si ignori, Lui sarà sempre presente. Ciò che conta è lasciarLo entrare là dove ci si trova e si vive. E l’uomo, smarrito nel caos dell’egoismo, attraverso una virata attiva di tutto il suo essere, trova il proprio cammino verso Dio: in ciò che la vita quotidiana gli richiede.

Da un ‘bilancio’ autentico -autunnale o meno- viene la chiamata a ripartire da se stessi, ma guardandosi dal prendere se stessi per fine. Ripartire dalle situazioni precise che ci si trova a vivere per imparare a starci dentro, non per giudicarle. E trovarvi molta gioia. In tale cammino, i giorni si trasformano in un incantevole mattino di speranza. E davvero – come diceva J. Donne – nessuna bellezza primaverile o estiva ha una tale grazia quale ho visto in volto autunnale! Un volto che si conosce e non si preoccupa di sé; si ritira, ma per far posto; fa silenzio, ma per imparare ad ascoltare le voci… Non che cessi di cercare da qualche parte quello di cui avverte la mancanza… Ora però cerca quel tesoro in ciò che la vita quotidiana gli richiede, confidando nella sola forza del bene, anche quando la sua presenza non è evidente, né percepibile.

Con la certezza di essere pensati e amati personalmente da Dio, in una silenziosa dedizione a quanto ci vive accanto, è possibile imparare parole e gesti che nutrono una storia sempre piena di sete, e una società oggi troppo indaffarata, distratta, indifferente… Dove sto ancorando la mia vita?… é la domanda che la Parola ci lascia e che, con umiltà, ci poniamo.

Luciagnese Cedrone

lucia.agnese@tiscali.it