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Pillole di saggezza

Sii giusto e sarai felice

felicita1Due aggettivi, due verbi e una semplice vocale come congiunzione. Una brevissima sentenza o un prudente e caldo, fraterno, paterno, amicale consiglio? L’assioma – sintesi del pensiero del rinomato filosofo francese, J.J. Rousseau, un po’ errabondo, dalla personalità timida e scontrosa – potrebbe risultare una sintesi identitaria di quell’essere che si definisce uomo e che ambisce dal più profondo di sé di raggiungere una possibile agognata apoteosi: la felicità. In una vita, la nostra, carica di domande e di poche risposte, ci poniamo la domanda fondamentale, alla quale in molti hanno tentato di dare una risposta: cos’è la felicità? Quando può l’uomo di qualsiasi livello sociale, politico, religioso, familiare, dirsi sinceramente felice?

Il nostro filosofo pone una condizione: sii giusto. Concretamente: vivi la tua realtà di essere dipendente da un Dio uno e Trino che ti ha creato; ti ha ‘obbligato’ vivere con altri, perché Egli stesso ha ammesso che “non è bene che l’uomo sia solo”. Ti ha inserito in un giardino – ‘il cosmo’ – nel quale si trova immerso tutto quello che ti è necessario e, a volte, ti fa sussultare per la sua inattesa meravigliosa bellezza.

Allora…

  • Felicità è la consapevolezza di essere frutto di un Amore gratuito che ha posto il suo alito di vita nel grembo di una donna ed è stato deposto a suo tempo su un lembo di “madre terra la quale ne sustenta et produce diversi frutti con coloriti fiori et herba”. Pertanto sa che il suo habitat è un ‘giardino da custodire e coltivare’. E’ la ‘casa comune’, è ‘la sorella che protesta per il male che, ingiustamente, le provochiamo’ (LS 2).
  • Felicità è pienezza; felicità è senso di pace e di appagamento interiori; è sentirsi realizzati perché ogni potenzialità personale, intellettuale, affettiva, operativa è stata posta a servizio di quello per cui ci è stata donata. E’, pertanto, assenza di rimpianti o inutili nostalgie.
  •  Felicità è vivere con la piena coscienza di non essere un apolide, ma una persona dalle forti e ben definite capacità relazionali, ma, anche, pienamente cosciente delle proprie dipendenze. Pertanto sa di dover amare e servire senza esclusivismi o reticenze, senza contorni gratificanti. Sa che l’amore al prossimo si concretizza in opere: “Non chi mi dice: Signore, Signore, ma chi fa la volontà del Padre mio: questi è mio discepolo…”. Scriveva il Dalai Lama: “la felicità si ottiene coltivando altruismo, amore, compassione e grazie all’eliminazione di ogni rancore, egoismo e avidità”.
  • Felicità non è assenza di desideri, di sogni, di ambizioni ed è – questo sì – non lasciarsi distruggere dai motivi di infelicità che sono a portata di mano nelle catastrofi quotidiane, nelle disavventure più o meno frequenti, nelle possibili delusioni-tradimenti ai vari livelli. Per questo urge “puntare in alto con impegno e perseveranza per ottenere qualche pur modesto risultato” (A Theillung).
  • Felicità è saper essere giusti in un mondo o in un contesto ingiusto che umilia e affatica. E’ essere pienamente consapevoli del bene e dei beni che ci circondano, che sono lì alla portata di mano perché una mano amica o gentile li ha deposto lì pensando a noi…

Può essere utile e prudente allora ricaricare ogni giorno il volano della giustizia perché cresca o permanga intatto il volano della felicità. Scriveva sant’Agostino: “Noi possiamo dire che viene attirato a Cristo l’uomo che trova la sua ‘delizia’ nella verità, nella beatitudine, nella giustizia”.

Biancarosa Magliano, fsp

biancarosam@tiscali.it

 

L’anima nostra ha bisogno di solitudine

solitudine1Il grande Agostino scrive della solitudine voluta da Dio per il primo uomo: “Fu molto meglio che il genere umano… abbia avuto origine da un solo uomo creato all’inizio, piuttosto che aver origine da molti… L’uomo dunque fu da Dio creato singolo e solo: solo, non tuttavia nel senso che sarebbe stato privo di società umana, ché anzi più avrebbe sentito il vincolo di questa società e l’unità concorde, essendo gli uomini uniti tra di loro non solo dalla somiglianza di natura, ma anche dall’affetto della parentela…”. Prospettiva da ampi precisi orizzonti e solida concretezza agostiniana!

L’uomo dunque fu ‘creato singolo e solo’, ma non per vivere ‘appartato’, in solitudine. La sua vocazione identitaria è alla relazione, alla fraternità, alla comunione, dalla e nella ‘parentela’. Spinto da una ineludibile esigenza interiore, a volte brama la solitudine, altre la patisce con una intensità implacabile.

“Sono solo” dice con profonda amarezza qualche anziano forse abbandonato un po’ da tutti… “Vorrei vivere in un deserto” è l’anelito espresso in momenti di giornate particolarmente faticose o caotiche. La solitudine imposta dalle circostanze e la solitudine anelata e/o cercata come ‘salvagente’ non serve. Sono gingilli o macigni senza senso; scuse fasulle che esprimono povertà interiore.

Spazi di solitudine effettivamente sono necessari a chiunque: rispondono al giusto e salutare desiderio di rimanere soli per meditare su situazioni personali o relazionali, per capire meglio se stessi; scavare con maturità entro se stessi; prendere coscienza delle proprie reazioni; o semplicemente per distendersi e riposare.

La solitudine così vissuta aiuta a diventare serenamente concreti, semplicemente realisti sul proprio passato e capaci di protendersi verso un futuro con il cuore libero, pronti ad attendere e a vivere nuove primavere.

Icona di una donna che ha saputo vivere e maturare in solitudine è Maria. L’angelo le appare, le annuncia un radioso futuro poi, dice la Scrittura, ‘partì da lei’. La trova sola; la lascia con un bimbo che lei porterà in grembo per nove mesi; adulto, sceglierà di vivere 40 giorni nel deserto, in solitudine, pronto alle sue battaglie con il grande nemico, Satana. E a tutto quello che il Padre vorrà da Lui…

Così i grandi della storia, molti asceti, gli stessi Fondatori quando necessitavano certezze per sé e per i loro Istituti si ritiravano per un periodo in solitudine. Agostino scriveva: “Ritorna in te stesso… all’interno dell’uomo abita la Verità”. Questa solitudine, liberamente scelta e vissuta con saggezza e con calma aiuta a vivere intensamente i vari momenti della giornata, assorbendo e gustando tutta la ricchezza e la bellezza in essi racchiusa. Non vi saranno più sprechi di energie; non si proietteranno su altri le colpe dei propri dissapori… Vi sarà pacifica concentrazione e raccoglimento e nuova fresca capacità di relazione, di quel semplice, caldo e pacifico ‘dono di sé’ che rende ancora più bella la vita propria e quella degli altri.

                                                                 sr Biancarosa Magliano, fsp

                                                                 biancarosam@tiscali.it

                                 

Il cuore dell’uomo è come il vestito del povero…

sfondo4L’uomo è dotato di una triplice potenzialità. Possiede l’intelligenza che favorisce la conoscenza, l’accoglienza e la comprensione della verità; la volontà per cui si dispone a dare il proprio assenso alle decisioni da prendere dopo averne conosciuto il valore, l’identità, l’importanza e l’affettività che nel linguaggio comune ha la sua icona nel cuore. Con la precisa valorizzazione di ognuna di esse l’uomo è capace di capire il vero senso della vita e dell’amore; e anche di superare le provvisorietà e le precarietà, le indolenze. Può superare le oscure deficienze dell’ignoranza, dell’egoismo, della superficialità, del dilettantismo.

Dalla notte dei tempi, il cuore dell’uomo è stato tema di riflessione e di studio come un enigma del quale scoprire le interne bellezze. E’ caratterizzato dalla istintività tanto che – come afferma Seneca – “ciò che il cuore conosce oggi, la testa comprenderà domani”. Esso rende capaci di gioire e di patire; di meraviglia e di indignazione; di sdegno e di ammirazione.

L’uomo raggiunge davvero un altro uomo soltanto con il cuore. La conoscenza di tutta la sua storia anche nelle accidentalità non basta. E la convivialità, se non è vissuta anche con una forte compartecipazione ‘umana’, diventa sofferenza senza fine. “Tutto quello che voglio – ha scritto Tahereh Mafi – è raggiungere e toccare un altro essere umano, non solo con le mani, ma con il cuore”. Spesso è sede di contraddizioni infinite: simbolo dell’amore, soffre quando tu non vorresti più soffrire; si indigna quando forse la tua ragionevolezza comprende che la stizza deve avere un suo limite; patisce quando la memoria ti riporta alla mente, oggi e domani con una insistenza senza quiete, gli infiniti dettagli di un sopruso subito.

“Il cuore dell’uomo è come il vestito del povero, è dove è stato rammendato più volte che è più forte”. E’ una affermazione di Paul Brulat (1866-1940). Un vestito più volte rammendato può aver subito tagli, rotture, spacchi…  Per ritornare ad essere vestibile si è sottomesso ad un molteplice intervento esterno fatto con cura, con rispetto, con precisione, con delicatezza

sr Biancarosa Magliano, fsp

biancarosam@tiscali.it

 

Le cose confidano…

soffio creatore1Le cose confidano nella nostra capacità di salvarle. Rilke

“Ovunque il guardo giro, immenso Dio, ti vedo”. E’ la preziosa e simpatica constatazione del famoso riformatore del melodramma italiano, Pietro Metastasio. Già, perché in esse, nelle cose, – come ha scritto Luigi Pozzoli – palpita “il soffio creatore di Dio”. Egli scrive testualmente: “Il soffio creatore di Dio è il palpito vitale di tutte le cose”. Se questo palpito venisse a mancare, nulla esisterebbe più. E quale angoscia e freddezza! Quale desolazione e squallore!

Le cose confidano… Chi ha fiducia non può essere tradito. Sarebbe come annullarne o mistificarne l’esistenza. Alza o abbassa gli occhi verso ogni cosa che è posta attorno a te. Volgi verso ognuna di esse uno sguardo compiacente e compiaciuto, anzi, di più: commosso, contemplativo e gioioso. Soprattutto oggi in cui abbiamo davanti l’incubo di una devastante crisi ecologica che potrebbe causare danni incalcolabili non soltanto alla natura, ma a tutti e a tutte noi perché tutti vi viviamo immersi . E’ la salvezza del nostro presente e del nostro futuro.

Posare gli occhi e godere delle cose anche più insignificanti, perché – come è stato scritto – “una cosa è la povertà delle cose e altro la povertà dello sguardo”. Guardare con rispetto, attenzione, consapevolezza il tutto, il piccolo fiore variopinto, o la maestà di un castagno carico di frutti apparentemente spinosi, stare sotto una pianta di fichi o attardarsi nel gioire silenzioso e prudente per un bimbo quattrenne simpaticamente capriccioso, accarezzare il volto di un anziano rugoso… E “saper vedere una goccia di rugiada su una spiga di grano” (Tagore). Lo stesso Gesù invitò un giorno i suoi seguaci: “Guardate gli uccelli del cielo”. Effettivamente “l’universo è qualcosa di più che un problema scientifico, è un mistero gaudioso, è un linguaggio dell’amore di Dio per noi”. Lo ha detto papa Francesco il 18 settembre 2015 ai partecipanti al Simposio promosso dalla Specola Vaticana e ribadito nell’enciclica Laudato si’ (n. 12). Inoltre egli, durante l’angelus di domenica 28 agosto c.a., ha appena ricordato il 1° settembre come “Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato, insieme con i fratelli ortodossi e di altre Chiese: sarà – ha aggiunto – un’occasione per rafforzare il comune impegno a salvaguardare la vita, rispettando l’ambiente e la natura”.

La Chiesa, nella sua atavica sapienza, nella preghiera salmica di ogni giorno pone sotto i nostri occhi e sulle labbra e, prima ancora, in cuore, una perenne e gioiosa lode a Lui: “Signore, tu stendi il cielo come una tenda… fai delle nubi il tuo carro, cammini sulle ali del vento… Hai fondato la terra sulle sue basi, mai potrà vacillare. L’oceano l’avvolgeva come un manto, le acque coprivano le montagne…” (cfr Sal 103).

Reinhold Messner, alpinista, esploratore e scrittore italiano, salito alla ribalta nel mondo dell’alpinismo per aver riportato in auge l’arrampicata libera, esponente di un pensiero, frutto di una chiara e significativa esperienza, poteva affermare. “Camminare per me significa entrare nella natura. Ed è per questo che cammino lentamente, non corro quasi mai. La Natura per me non è un campo da ginnastica. Io vado per vedere, per sentire, con tutti i miei sensi. Così il mio spirito entra negli alberi, nel prato, nei fiori. Le alte montagne sono per me un sentimento”. E guardando le stelle, anche noi come Andrea, il vigile del fuoco di Amatrice, penseremo a una bimba portataci via dal terremoto a causa, forse, dell’incuria umana…

In un mondo frenetico e frettoloso come il nostro, in una società ‘mercantile ed edonistica’, possiamo ricordare anche quanto scriveva Aristotele: “La natura non fa nulla di inutile”. Coglierne e gustarne la bellezza forse rende tutti noi più buoni, più amabili.

sr Biancarosa Magliano, fsp

biancarosam@tiscali.it

 

Dall’albero del silenzio pende il suo frutto: la pace.

silenzio1 “Uomo che ami parlare molto, ascolta e diventerai simile al saggio. L’inizio della saggezza è il silenzio”. Lo ha lasciato scritto Pitagora, circa 2500 anni or sono. In questa sentenza il famoso matematico, taumaturgo, astronomo, scienziato, politico e fondatore a Crotone di una delle più importanti scuole di pensiero dell’umanità, fa la sintesi del suo ‘pensiero’, della sua fede. Di quello in cui crede e che – da buon maestro qual era – intende trasmettere ad altri.

Parola, silenzio, ascolto, saggezza: quattro parole intersecanti, l’una soggetta all’altra. La parola – che è anello di congiunzione tra persona e persona, causa e fonte della relazionalità, senza un uditore, non serve; sfuma nel vento; se non è accompagnata dall’ascolto, evapora. Ma l’ascolto, perché sia possibile e diventi vero, autentico, profondo, ha una sua simpatica specifica esigenza: necessita il silenzio. Il rumore, il chiasso esterni non permettono alla parola di raggiungere il primo obiettivo per cui è stata pronunziata; non giunge a destinazione. Non viene accolta. Quindi non può produrre quella reazione positiva o negativa per cui è stata pronunciata; le è impedita la risposta adeguata.

Ma vi è un altro rumore più acuto, un altro chiasso più assordante ed è il tumulto interiore, l’angoscia, l’irrequietezza dell’anima, la tensione dello spirito, la preoccupazione inutile, forse malsana. Quella ‘non pace’, quel ‘non silenzio’, che tormenta e assilla gli inquieti, gli insoddisfatti, i distratti, gli assillati da mille inutili preoccupazioni, i cercatori del nulla.

Quel simpatico e inimitabile attore che fu Charlie Chaplin diceva: “Il silenzio è un dono universale che pochi sanno apprezzare. Forse perché non può essere comprato. I ricchi comprano rumore. L’animo umano si diletta nel silenzio della natura, che si rivela solo a chi lo cerca”. A Chaplin risponde con altrettanta saggezza il compositore, pianista, organista, violinista W. A. Mozart: “Parlare bene ed eloquentemente è una gran bella arte, ma è parimenti grande quella di conoscere il momento giusto in cui smettere”

“Dio è amico del silenzio. – ha scritto M. Teresa di Calcutta. – Guarda come la natura – gli alberi, i fiori, l’erba – crescono in silenzio; guarda le stelle, la luna e il sole, come si muovono in silenzio. …. Abbiamo bisogno di silenzio per essere in grado di toccare le anime”. Abbiamo bisogno di silenzio maturo, frutto di meditazione, di un certo, sapiente, cercato e voluto rinnegamento di sé, per acquisire e possedere quella pace e saggezza umana che rendono fecondi di luce, di grazia ogni nostra parola e ogni nostro gesto verso chiunque fa capolino o si appoggia sulla nostra strada. Saranno parole e gesti profumati di gentilezza, forse di saporosa femminilità per chi è donna, sempre carichi di giusta ed efficace simpatia…

sr Biancarosa Magliano, fsp

                                                                                    biancarosam@tiscali.it

Confida sempre nel tuo Dio

manonellamano1“Confida sempre nel tuo Dio. Egli non perde nessuna battaglia”. E’ un toccante invito di Josémaria Escrivà de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei. Un verbo, un avverbio, un aggettivo possessivo, un nome, l’Altissimo Nome dell’unico essere che merita quel nome nella prima parte. La seconda parte non trasuda novità. E’ la logica, razionale, ovvia conseguenza della prima.

Innanzitutto il verbo, che è un imperativo! e il nome: Dio. E’ la fiducia di chi – secondo Geremia – ha il Signore come sua speranza e sarà come albero piantato presso l’acqua; il ruscello ne spinge le radici; lo rafforza; lo amplifica; lo rende fertile (cfr Ger 17,7-8). E’ la fiducia integra di Giuditta, la “donna graziosa d’aspetto e saggia nel parlare” che, nel nome e con la forza del ‘suo’ Dio, porta a termine la disfatta di Oloferne (cfr GDT). E’ la fiducia di Paolo che crede nel Dio – è il ‘suo’ Dio – al quale appartiene e che serve e gli ha assicurato: “non temere” (cfr At 27,23-25).

E’ la fiducia eroica iniziale e poi quotidiana dei nostri Fondatori e Fondatrici – umanamente pugnaci, forse un po’ idealisti – che grazie al loro confidare nel ‘loro’ Dio, hanno dato vita e continuità a quegli Istituti che ancor oggi rispondono alle mutate esigenze ecclesiali e sociali. E’ la fiducia che ha sostenuto e sostiene tante nostre sorelle di Congregazione, che, nel corso di ogni singola loro storia, nella oblazione diuturna – pur a volte dentro una realtà stancante e ripetitiva – hanno vissuto o vivono nella pace, più spesso nella gioia, quel personale progetto di Dio su di esse.

La fiducia, in verità, non ha alternative né di tempi né di modalità. “Confida sempre”, consiglia o impone (?) Josémaria Escrivà. La fiducia esige continuità e fedeltà, nonostante la propria personale debolezza e vulnerabilità. Non deve assolutamente venire meno, perché è destinata ad essere il supporto di un supplemento di vita, di coraggio, di audacia. Ognuno sente che la fiducia non ha o non deve avere termini né confronti. E con il nostro Dio non possiamo avere una relazione burocratica, funzionale, ritualista. E’ normale e dovuta una gioiosa relazione di fiducia perché – ne abbiamo la certezza avvalorata dall’esperienza – “Egli non perde nessuna battaglia”. Con la fiducia in Lui e con Lui anche le giornate o le notti di ombre possono essere cambiate in notti o giornate di luce.

                                                                           sr Biancarosa Magliano, fsp

                                                                                            biancarosam@tiscali.it

Sulla strada di Emmaus

premio2Afferma di aver scelto di fare della strada il suo salotto. Però non chiamatelo “prete di strada”. Piuttosto, preferisce essere identificato come un sacerdote coerente con il proprio ministero. Del resto – spiega – “il Vangelo è nato sulla strada”.

Come quella di Emmaus, che conduce a Gerusalemme, e da cui trae ispirazione il nome del suo sito: Sulla Strada di Emmaus, appunto. È in questo spazio telematico che il 36enne don Marco Pozza usa le parole, e lo fa in modo accattivante, per alimentare negli altri quel fuoco di passione per il sacerdozio che trasuda dalla sua parlantina veloce ed efficace, scandita da uno spiccato accento veneto.

Parole, le sue, che hanno fanno breccia nei giovani della movida, che don Marco va ad incontrare tra i tavoli dei bar, persuadendoli sulla bellezza di un Dio che ama e sul privilegio che si ha a poter essere parte della Sua Chiesa. E che fanno breccia anche nei cuori, spesso feriti, dei detenuti, a cui don Marco si dedica quotidianamente essendo cappellano del carcere “Due Palazzi” di Padova.

Due settimane fa don Marco ha ricevuto il “Premio Speciale Biagio Agnes 2016”, nel contesto dell’omonimo concorso internazionale di giornalismo. Segno del fatto che l’eco delle sue parole condensate di gesti concreti, più che una breccia ha creato una voragine. Di curiosità, ma anche di desiderio d’infinito.

Signore, fin da quando ero bambino, tu mi hai dato tutto

Così una preghiera liturgica del III secolo. E’ la segnalazione della ‘presenza’ di un Tu che non è mai venuta meno. E’ un condensato di pace, sintesi pacata e realista di una storia vissuta come storia di salvezza.

Bambino3Nelle varie esperienze della vita di tutti il ritorno all’età fanciulla – dalla quale far partire la memoria della propria storia – entra nella normalità. E questo richiamare alla mente il tempo trascorso aiuta a comprendere la realtà dell’oggi, le sofferenze, le reazioni, le nostalgie, i rimpianti, i sentimenti emozionanti di gratitudine. La memoria aiuta a fare i necessari od opportuni bilanci, confronti e verifiche. Scrive Romano Battaglia: “E’ nella memoria che ritroviamo tutte le tracce degli avvenimenti, a volte non eccezionali, ma per noi particolarmente significativi, che ci hanno permesso di diventare ciò che siamo”.

La memoria – come la coscienza – è la cosa più personale che esista. Gli altri possono ricordare qualcosa o molto di quello di cui sono stati testimoni, che hanno visto e/o udito, i momenti che hanno vissuto con te, ma soltanto tu porti in te, in un continuo crescendo, la tua storia. Potrai anche avere momenti di amnesia e soffrirne, ma le vicende essenziali restano; l’ordito di fondo ti accompagna in tutto lo scorrere del ‘tuo’ tempo. “Ognuno ha il proprio passato dentro di sé come le pagine di un libro imparato a memoria e di cui agli amici possono solo leggere il titolo” (Virginia Woolf).

Quel liturgista del III secolo si rifaceva alla propria esperienza. Non ricordava semplicemente un data o un evento. In forma matura prendeva coscienza che non aveva mai attuato da o come solista; tutta la sua vita era stata una ‘tessitura a più mani’, una ‘storia accompagnata’, perché il Signore è presenza ed è pienezza in mille modi. Anche se non lo vedi e non lo senti. E se nel tuo fare memoria t’accorgi di aver sbagliato, non puoi fare che non sia. L’unica strada è consegnarlo al Signore, al suo amore e al suo perdono, alla sua misericordia. “La misericordia sarà sempre più grande di ogni peccato. Nessuno può porre un limite all’amore di Dio che perdona” (MV 3) ha scritto papa Francesco. Ed è quanto è avvenuto al ‘buon’ ladrone, là a Gerusalemme, sul Monte Calvario, inchiodato su una croce come Gesù, l’Innocente, in un venerdì che, da allora, è stato e sarà per tutti i secoli a venire, ’venerdì santo’.

                                                                                     sr Biancarosa Magliano, fsp

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Pregare Dio per i vivi e per i morti

pregare1Siamo all’ultima opera di misericordia. In un certo senso essa le riassume tutte. E’ la sintesi tra l’ora e il poi, tra il passato, il presente e il futuro. Tra quello e ‘chi’ è stato e non è scomparso nel nulla. E’ ricordo ed è attesa. La persona che la vive non si sente mai sola: come già scriveva Tomas Merton, ‘non è un’isola’. E’ sempre – e ne è cosciente – in relazione con un Tu che è la sua ragion d‘essere e, allo stesso tempo, la avvolge della sua misericordia e la supera. Ed è nel contempo nostalgia e certezza. E’ nostalgia: nessuno potrà mai sradicare dalla nostra memoria il mesto e dolce ricordo di parenti, amici, compagni di un viaggio che, a volte, è stato faticoso, anche se pur sempre affascinante. Ed è certezza su di un ‘al di là’ che non tramonterà mai; è anelito di un re-incontro ed è convinzione di una luminosa presenza del nostro Dio e in lui di tutti: presenti e assenti, ignoti e conosciuti.

Il cristiano che prega per i vivi e per i morti vive e si sente in comunione con tutti nella fede. Concretamente vive quella verità gioiosa che si identifica come comunione dei santi. Ha il suo inizio qui e continua nell’altra vita; è “una unione spirituale – afferma papa Francesco – che non viene spezzata dalla morte, ma, grazie a Cristo risorto, è destinata a trovare la sua pienezza nella vita eterna. C’è un legame profondo e indissolubile tra quanti siamo ancora pellegrini in questo mondo – fra noi – e quanti hanno varcato la soglia della morte per entrare nell’eternità… Questa comunione tra terra e cielo si realizza specialmente nella preghiera di intercessione, che è la più alta forma di solidarietà”.

Ricordiamo la commovente e insistente supplica di Abramo per il suo popolo. In una simpatica diatriba con Dio difende il popolo che Dio avrebbe voluto distruggere per il male che stava commettendo. Abramo intercede e Dio inverte il suo progetto in protezione. “Non la distruggerò…”. E quand’ebbe finito di parlare… il Signore se ne andò e Abramo ritornò alla sua residenza (cfr. Gen 18, 27-33).

Narrano gli Atti degli Apostoli: ”Pietro dunque era tenuto in prigione, mentre una preghiera saliva incessantemente a Dio dalla Chiesa per lui” (At 12,5). L’apostolo Giacomo scriveva ai suoi discepoli: “Pregate gli uni per gli altri per essere guariti. Molto vale la preghiera del giusto fatta con insistenza. Elia era un uomo della nostra stessa natura: pregò intensamente che non piovesse e non piovve sulla terra per tre anni e sei mesi. Poi pregò di nuovo e il cielo diede la pioggia e la terra produsse il suo frutto” (Gc 5,15-17).

Il pregare diventa così un avvicinarsi a Dio e un farsi carico gli uni degli altri: della loro vita, della loro storia, dei loro interessi. Così è la preghiera di Gesù: Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli». E Pietro gli disse: «Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte». Gli rispose: «Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi» Lc, 22,31-34). Scriveva Benedetto XVI in Spe salvi: “Pregare non significa uscire dalla storia e ritirarsi nell’angolo privato della propria felicità” (n. 33). Pregare è vivere in comunione, innanzitutto con Dio e in lui connessi con il mondo intero, quello di quaggiù e quello che esiste oltre le sponde del tempo.

sr Biancarosa Magliano, fsp

biancarosam@tiscali.it

Perdonare le offese

E’ un’opera di misericordia non facile. Non è di gettito universale. Non la si trova nelle leggi sociali o politiche dove alIS contrario sono elencate tutte le modalità, le motivazioni, i singoli passaggi necessari per farsi o richiedere giustizia.
Perdonare è passare dalla rottura alla relazione, dalla schiavitù dell’indignazione alla libertà di una pace profonda che niente e nessuno può violare; è recedere dalla tirannia della voglia di vendetta e arrendersi alla segreta gioia di una ritrovata fiducia.
Perdonare è sospendere quella pulsione immediata che spinge contro altri, contro chi, secondo noi, ci ha fatto del male nei vari ambiti: personale, familiare, di lavoro. Può aver oltraggiato noi o persone legate a noi. E’ il riconoscimento della comune umanità: partecipiamo tutti alla stessa stirpe; ed è ammettere il primato della fraternità: “Se stai presentando la tua offerta all’altare – ha detto Gesù – e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono” (Mt 5,23).
Perdonare non è neppure negare la realtà dell’offesa; non è dimenticare o stravolgere la realtà, non è far finta che non sia successo nulla. E’ percorrere una strada in salita. Può diventare il risanamento di una ferita e allora diventa espressione concreta della misericordia; perdono e misericordia, infatti, sono le terapie che permettono di ristabilire le connessioni interrotte e costruirne di nuove.
Nella vita altrui non ci si può mai immettere come giudici o censori. “Gesù, nei confronti di quanti lo contestavano perché mangiava con i peccatori, ha detto: «Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori » (Mt 9,13). E’ una lezione per tutti i ‘cristiani’, “seguaci di Cristo, appunto, che devono essere uomini e donne di misericordia e di perdono” (Papa Francesco).
Perdonare è immergersi nella infinita pace che viene da Dio. Non stancarsi mai di stendere la mano verso la persona che ha inferto una ferita nel nostro essere. “Perdona loro” disse l’uomo-Dio dall’alto del suo patibolo. Perdonare è abbandonare il passato … è uscire dal mondo del male ed entrare nella civiltà dell’amore, la civiltà di Dio e Dio non è un dilettante. Non lo è stato nella creazione, nella conduzione del suo popolo attraverso i secoli.
“La vita è difficile – ha scritto Etty Hillesum – ma non è grave”. Il perdono è difficile, faticoso, ma non impossibile. E non è soltanto un fatto personale. E’ un fatto sociale, immesso nella conduzione della società. Ma ciò avverrà soltanto dopo che esso avrà preso residenza nel cuore dell’uomo.
Quel piccolo libro di storia sacra denominato Atti degli apostoli racconta: “E lapidavano Stefano, mentr’egli invocava Gesù e diceva: «Signore Gesù, ricevi lo spirito mio». Poi, caduto ginocchioni, gridò a gran voce: «Signore, non imputar loro questo peccato». E, detto questo, si addormentò nel Signore”.
E’ un sintetico racconto. Senza alcuna animosità verso chi lo rapina del bene migliore – la vita – un giovane discepolo di Gesù e già apostolo con il suo precedente discorso, conclude la propria esistenza. Come il suo Maestro Gesù che, inchiodato su una croce, aveva supplicato: ”Padre, perdona loro…”. Non ci sono scappatoie. Per il cristiano non ci sono altre uscite.

Biancarosa Magliano, fsp
biancarosam@tiscali.it