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Primo piano

Homo Cyborg. Il futuro dell’uomo…

HOMO CYBORG1Homo Cyborg. Il futuro dell’uomo, tra tecnoscienza, intelligenza artificiale e nuovo umanesimo.

Quale sarà l’evoluzione del genere umano? Ci attende un futuro da “cyborg”, a metà tra uomo e macchina? Dove sono arrivate le nuove scoperte scientifiche e le nuove tecnologie applicate alla vita? È lecito porsi delle domande su eventuali limiti in questo campo?

Su queste questioni epocali si è confrontato il Convegno nazionale dell’Associazione Scienza & Vita in programma il 25 maggio c.a. a Roma.

L’associazione S&V, ha inteso dare il  proprio contributo per cercare risposte all’appello urgente lanciato da Papa Francesco (ottobre 2017): “La potenza delle biotecnologie, che già ora consente manipolazioni della vita fino a ieri impensabili, pone questioni formidabili. È urgente, perciò, intensificare lo studio e il confronto sugli effetti di tale evoluzione della società in senso tecnologico per articolare una sintesi antropologica che sia all’altezza di questa sfida epocale”.

Partendo dalla presa di coscienza della contemporaneità della prospettiva trans/post-umanista, l’intento è stato quello di offrire ai partecipanti, attraverso una approfondita riflessione antropologica e l’incontro con alcune esperienze concrete, alcuni possibili strumenti di discernimento per orientarsi in tale scenario e per valutare come e con quali presupposti l’innovazione tecnologica possa realmente garantire uno sviluppo umano autentico. In tale prospettiva il convegno è stato non solo un’esperienza intellettuale, ma anche un’esperienza concreta di riflessione e di azione in chiave antropologica, da esportare nel proprio spazio sociale.

I lavori sono stati introdotti dalla relazione del Cardinale Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Conferenza Episcopale Italiana.

“Il nuovo umanesimo” è “una grande sfida, non solo per la Chiesa, ma per l’umanità intera”. Nel mondo contemporaneo, osserva il cardinale, “è ormai emersa una nuova questione sociale che investe la sfera economica e quella antropologica, la dimensione culturale e quella politica, i cui riflessi si fanno sentire profondamente anche in ambito religioso”. Ed è proprio “la consapevolezza di questa nuova questione sociale che ci impone la sfida del nuovo umanesimo. Una questione sociale che tende ad interpretare e a vedere in modo unitario la crisi antropologica e quella economica, la crisi ambientale e quella politico-culturale”.

“Il nuovo potere tecnico non è solo un’applicazione economica della scienza nella vita quotidiana ma è una concezione filosofica del mondo e una visione parareligiosa della vita comune”. Di qui l’esortazione a intellettuali e scienziati “a dare una nuova forma e un nuovo senso a quell’umanesimo cristiano e laico che per secoli ha caratterizzato la vita quotidiana del continente europeo. La sfida del nuovo umanesimo non è una questione da eruditi rinchiusi nella Torre Eburnea ma è un progetto di grandissimo respiro che ha come ambizione ultima la ‘custodia dell’umanità’”. Di fronte al rischio di un “nuovo Adamo tecnologico” occorre, come ha in più occasioni affermato il Papa, “un nuovo umanesimo europeo vicino agli ultimi”. Un umanesimo, “non di facciata”, ma “estremamente concreto, che si proponga di umanizzare la tecnica, rendendola al servizio dell’uomo, e di custodire la vita umana in ogni istante dell’esistenza”.

L’invito è a non avere paura dei “segni dei tempi” e ad “analizzare cosa si muove sotto la superficie del mare” per “capire come e perché si muovono le correnti che agitano il mondo in cui viviamo”. “Tutti noi siamo chiamati ad esercitare questo sguardo e ad assumere questa prospettiva storica”, oggi “un po’ marginale nel dibattito pubblico” ma invece “estremamente importante”. Di qui il monito a non dimenticare che “il mondo in cui viviamo” è “il prodotto di un processo storico” all’interno del quale si è verificato 40 anni fa un evento ancora oggetto di riflessione: la nascita di Louise Brown, prima bambina nata con la fecondazione in vitro.

Con riferimento quindi al “futuro della natura umana”, citazione dal titolo di un noto volume di Jürgen Habermas, il presidente Cei ricorda i timori del filosofo tedesco per i rischi dell’incontro tra medicina riproduttiva e ingegneria genetica: una società in cui viene esaltato “il potere taumaturgico della tecnica” che rende disponibile ciò che prima era indisponibile, “ovvero la creazione della vita”, e “lo strapotere dell’economico nella vita degli uomini” assurto a “criterio di giudizio” anche nelle questioni eticamente sensibili. Oggi, le società occidentali sembrano “attraversate da una profonda crisi antropologica che sta mercificando tutto, persino il corpo degli esseri umani” mentre la “cultura del benessere” anestetizza la mente e il cuore delle persone tramite una “nuova idolatria del denaro” e attraverso “la riduzione dell’essere umano ad uno dei suoi bisogni: il consumo”.

 

La Sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa

sinodo1Dare nuovo impulso alla sinodalità, anche con riforme di tipo strutturale, come rendere obbligatori in ogni diocesi i Consigli Diocesani. Attuare pienamente la collegialità del Concilio, anche trovando nuove procedure per la convocazione del Sinodo dei Vescovi che coinvolgano maggiormente il popolo di Dio.

Sono proposte contenute in “La Sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa”, il nuovo documento della Pontificia Commissione Teologica Internazionale pubblicato lo scorso 2 marzo. Ma come è nato, e cosa vuole dire, il nuovo documento? Monsignor Piero Coda, rettore dell’Università Sophia di Loppiano e membro della sottocommissione che ha lavorato al documento, lo spiega ad ACI Stampa.

Monsignor Coda, quale è stata la genesi del documento?

Il tema della sinodalità è antico quanto la Chiesa. Papa Francesco, nell’importante discorso tenuto tre anni fa in occasione del Cinquantesimo dell’istituzione del Sinodo dei vescovi, riportava una affermazione di San Giovanni Crisostomo che diceva che “Sinodo è il nome della Chiesa.” Vale a dire che la Chiesa è sinodo, è cammino insieme.

Se questa è una realtà così antica, perché c’era bisogno di un documento?

Dopo il Concilio Vaticano II, si è progressivamente affermata la consapevolezza della sinodalità nella Chiesa Cattolica. C’era, dunque, bisogno di un documento di puntualizzazione, che ne spiegasse teologicamente il significato e le sue applicazioni concrete. Infatti, il concetto di sinodalità, pur essendo antico quanto il cammino della Chiesa, non aveva avuto l’attenzione che meritava, mentre ci si era concentrati su una serie di problematiche di necessità, specialmente riguardo il primato del Pontefice.

Da qui il documento della Pontificia Commissione Teologica Internazionale?

La sinodalità era tra i temi proposti all’attenzione nel momento dell’insediamento della Commissione Teologica Internazionale. La Commissione dura in carica per cinque anni, ed è legata alla Congregazione per l’Educazione Cattolica. I temi possibili vengono anche suggeriti dal Papa e dalle necessità della Chiesa, ma la commissione è libera di scegliere quali temi ritiene più opportuno approfondire. Si arrivò così ad una scelta di tre temi: la libertà religiosa nel contesto internazionale oggi, il rapporto tra fede e sacramenti soprattutto in relazione al matrimonio e la sinodalità. Quest’ultimo fu subito il più gettonato, sebbene fosse considerato più spinoso. Ciononostante, la sotto commissione che ha lavorato sul testo (la Pontificia Commissione Internazionale è composta da 30 membri, divisi in 10 sottocomissioni), ha lavorato bene, e già a dicembre si è arrivati alla presentazione di un testo che ha ricevuto l’approvazione della maggioranza della Commissione.

Nel documento si parla anche di cambiare le procedure della convocazione del Sinodo dei vescovi. Cosa si intende?

Non c’è una indicazione sulla procedure, che devono essere anche “originate”. Viene sollevata la questione che la convocazione del Sinodo dei vescovi debba coinvolgere maggiormente le Chiese locali. Attualmente, il Sinodo raccoglie una rappresentanza dei vescovi di varie parti del mondo e delle varie conferenze episcopali, ma i temi che vengono dibattuti al Sinodo non vengono sempre precedentemente discussi con le Chiese. Viene richiesto invece che il vescovo possa ascoltare sul tema anche il parere del popolo di Dio nel suo insieme, perché una chiave fondamentale della sinodalità è l’ascolto.

Significa che i vescovi dovrebbero avere possibilità di discutere i temi prima che questi arrivino al tavolo del Consiglio del Sinodo?

Direi, prima che arrivi alla discussione stessa dell’assemblea. Siamo già in quella direzione, Papa Francesco ha già messo in moto quel processo, sia per il Sinodo sulla Famiglia, sia per il Sinodo sui giovani. In quest’ultimo caso, Papa Francesco ha fatto precedere l’assemblea da una assemblea preparatorio, il pre-sinodo dei giovani. Si tratta di inventare delle procedure che coinvolgano il più possibile le varie espressioni del popolo di Dio.

Il documento chiede anche di rendere obbligatoria l’istituzione dei Consigli diocesani, nonché una serie di strutture necessarie alla sinodalità. Si parla, dunque, non solo di una riforma teologica. In che modo questa coinvolge le strutture?

Una riforma solamente teologica, che non incide sulle istituzioni e sulle strutture, rimane un flatus vocis. Il Vaticano II ha introdotto tra i vescovi il tema e la prassi della collegialità, e per questo Paolo VI istituì il Sinodo dei Vescovi, un atto di grande portata ecclesiologica. Fu al Concilio che si auspicò la promozione di questi consigli presbiteriali e pastorali, a livello parrocchiale e a livello diocesano, per incentivare la ecclesiologia di comunione.

Se il processo era già partito, perché c’è bisogno di fare richieste precise?

Perché si nota oggi che queste strutture di comunione devono essere promosse e incentivate in molte dimensioni della Chiesa. Lo diceva anche Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte. Il richiamo del documento a costituire come obbligatori i consigli pastorali all’interno delle parrocchie è un input che è venuto dal Sinodo diocesano della Chiesa di Roma.

In che modo?

Il Sinodo Pastorale diocesano sul tema “Comunione e missione della Chiesa di Dio che è in Roma alle soglie del terzo millennio” si concluse nel 1993, e il documento finale, approvato a maggioranza e poi ratificato da San Giovanni Paolo II, stabiliva che nella Chiesa di Roma, a livello parrocchiale, i consigli diocesani non sono solamente auspicati, ma sono obbligatori! Non so quanto questo sia stato effettivamente realizzato, ma la disposizione è citata nel libro del Sinodo.

Perché è così importante la Chiesa di Roma?

Sin dall’inizio, la Chiesa di Roma ha avuto questo ruolo centrale. Era la sede di Pietro e di Paolo, e, alla luce di questa origine apostolica, ha sempre sviluppato un dinamismo sinodale. È sempre stata un prototipo per tutte le Chiese. Per fare un esempio, il collegio dei cardinali a livello universale nasce da questa espressione di sinodalità all’interno della Chiesa locale di Roma.

Si può dire che questo documento è uno sviluppo nella discussione teologica?

Certamente è uno sviluppo. È parte di un cammino, una riflessione che ha visto nel 2003 l’Associazione Teologica Italiana celebrare un congresso sul tema della sinodalità. Mancava ancora una presa di posizione teologicamente fondata da un punto di vista ufficiale, ma non ci sono state rotture. Il documento della Commissione Teologica Internazionale si riunisce nel dibattito con una certa autorevolezza e funge da stimolo a proporre questa realtà all’interno delle Chiese locali e ad incentivare la riflessione teologica sul tema, ma anche a creare delle dinamiche che rendano possibile l’esercizio della sinodalità all’interno delle Chiese.

Il tema è particolarmente cruciale anche nel dialogo ecumenico. Come si possono combinare sinodalità, collegialità e primato?

È un tema che è dibattuto nella Commissione Teologica Internazionale mista tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Ortodossa, e se ne è parlato nei documenti di Ravenna e in quello più recente di Chieti. Si sta attuando sempre più una convergenza tra Chiesa Cattolica e Chiesa Ortodossa, e il dibattito ha permesso di capire sempre meglio che l’esercizio dell’autorità primaziale e la sinodalità sono due realtà interdipendenti. Nella Chiesa, non ha senso un esercizio di una autorità che non interagisca sempre, non interpreti e non dia orientamento alla comunione di tutti, come non ha senso la comunione intesa come realtà orizzontale, mera partecipazione senza il sigillo di una conferma del carattere apostolico e spirituale che viene dato appunto dall’esercizio dell’autorità in comunione. Questo tema è una delle frontiere più importanti della Chiesa nel prossimo futuro!

Fonte: acistampa.com

Suor Anita Maryam Mansingh…

La prima suora cattolica della tribù Kacchi Kohli

suora1La Chiesa cattolica in Pakistan ha accolto la prima suora della tribù Kacchi Kohli, dopo 70 anni di missione tra quelle popolazioni tribali stanziate in Sindh. Qui i frati francescani olandesi iniziano il loro ministero di apostolato tra i gruppi tribali nel 1940, sotto la guida di p. Farman OFM e con il sostegno di due catechisti. Suor Anita Maryam Mansingh, della congregazione della Presentazione della Beata Vergine Maria (PBVM), ha emesso i voti perpetui insieme con un’altra suora in una celebrazione tenutasi nei giorni scorsi al Centro Culturale e Educativo Joti della diocesi cattolica di Hyderabad.

Suo zio, p. Mohan Victor OFM, è stato il primo prete cattolico e frate francescano proveniente dallo stesso gruppo tribale dei Kacchi Kohli. Sr. Anita è nata l’8 settembre 1989 a Tando Allahyar, piccola città vicino a Mirpur Khas, e si è unita alla comunità religiosa delle suore della Presentazione nel settembre 2008 dopo aver completato gli studi universitari in scienze dell’educazione. Ha emesso la sua professione temporanea il 14 settembre 2011. Durante il periodo della sua formazione ha lavorato in diverse comunità a Rawalpindi e Hyderabad. . Parlando a Fides, suor Anita ha detto: “Mio zio p. Mohan Victor mi ha ispirato a scegliere la vita religiosa e mi ha aiutato a discernere la mia vocazione. So che oggi intercede per me dal cielo. Sono grata ai miei genitori e ai fratelli per avermi sempre supportato in questa scelta”.

Le Suore della Presentazione hanno iniziato il loro apostolato a Rawalpindi nel 1895. Un gruppo di suore venne da Chennai (oggi India) e aprì delle scuole per servire i bambini dei soldati britannici e irlandesi. Oggi ci sono 60 suore della congregazione impegnate in Pakistan nel campo dell’educazione, dell’assistenza sanitaria e del lavoro pastorale.

Il Vescovo Samson Shukardin, che guida la diocesi cattolica di Hyderabad, dichiara a Fides : “È un momento di gioia vedere una suora cattolica della tribù Kacchi Kohli.

Il popolo tribale esprime la bellezza della nostra Chiesa in Sindh. Incoraggio le monache ad essere una speranza per le persone abbandonate e più vulnerabili.

Le ringrazio soprattutto per il servizio che offrono, fornendo un’istruzione di qualità al popolo del Pakistan nelle province di Sindh, Punjab e Khyber Pakhtunkhwa, verso allievi di ogni cultura, religione, etnia” .

Fonte: Agenzia Fides

Custode delle notizie: una vera e propria missione

fake1Custode delle notizie: una vera e propria missione

Si celebra domenica 13 maggio c.a., giorno della festa liturgica dell’Ascensione, la 52.ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali sul tema “La verità vi farà liberi. Fake news e giornalismo di pace”. Papa Francesco che per questa giornata pubblica il messaggio, si è soffermato più volte sul tema della verità nell’informazione a partire dal discorso rivolto agli operatori dei media, tre giorni dopo la sua elezione alla Cattedra di Pietro. In quell’occasione, il 16 marzo del 2013, Francesco ricordava ai giornalisti che la loro professione “comporta una particolare attenzione nei confronti della verità”.

Sulla centralità della verità, il Papa si sofferma nel discorso al Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti italiani, il 22 settembre del 2016. “Amare la verità – sottolinea Francesco – vuol dire non solo affermare, ma vivere la verità, testimoniarla con il proprio lavoro”. Bisogna dunque “vivere e lavorare”, “con coerenza rispetto alle parole che si utilizzano per un articolo di giornale o un servizio televisivo”. Torna sull’argomento anche nell’intervista al settimanale cattolico belga “Tertio” il 7 dicembre 2016. La disinformazione, afferma, “è una cosa che può fare molto danno nei mezzi di informazione”. “La disinformazione è probabilmente il danno più grande che può fare un mezzo, perché orienta l’opinione in una direzione, tralasciando l’altra parte della verità”. Ribadisce poi con forza che i media devono essere “molto limpidi, molto trasparenti”.

Il 16 dicembre 2017, parlando ai membri dell’Unione stampa periodica italiana e della Federazione Italiana Settimanali Cattolici, Francesco mette in guardia sui danni che può arrecare all’informazione “l’ansia della velocità” e “la spinta al sensazionalismo”. Si avverte, chiede il Papa, “la necessità di un’informazione affidabile con dati e notizie verificati, che non punti a stupire e a emozionare, ma piuttosto si prefigga di far crescere nei lettori un sano senso critico”. Solo così, conclude il Papa, si “eviterà di essere costantemente in balia di facili slogan o di estemporanee campagne d’informazione, che lasciano trasparire l’intento di manipolare la realtà, le opinioni e le persone stesse, producendo inutili polveroni mediatici”.

Non poteva essere più attuale, dunque, il tema scelto quest’anno da Papa Francesco.

Per inquadrare uno scenario sempre più caratterizzato da un sovraccarico informativo, dove ogni utente può trasformarsi in un produttore di contenuti, si può partire dai numeri: in appena 60 secondi, vengono pubblicati 3 milioni di contenuti su Facebook, 430mila tweet, compiute 2 milioni e 315mila ricerche su Google, inviate 150 milioni di email e 44 milioni di messaggi su WhatsApp, visualizzati 2 milioni e 700mila video su YouTube.

È questo il contesto che si trova a fronteggiare il giornalista, alle prese con lettori/utenti sommersi da un tale flusso di informazioni che ne cattura l’attenzione e spesso li rinchiude in “camere dell’eco” dove si rafforzano soltanto le proprie convinzioni. Per tale ragione il Papa si rivolge al “custode delle notizie” che, “nel mondo contemporaneo, non svolge solo un mestiere, ma una vera e propria missione”. Nella “frenesia delle notizie e nel vortice degli scoop”, il giornalista deve infatti “ricordare che al centro della notizia non ci sono la velocità nel darla e l’impatto sull’audience, ma le persone”. L’invito di Francesco è a “promuovere un giornalismo di pace, non intendendo con questa espressione un giornalismo ‘buonista’, che neghi l’esistenza di problemi gravi e assuma toni sdolcinati. Intendo, al contrario, un giornalismo senza infingimenti, ostile alle falsità, a slogan ad effetto e a dichiarazioni roboanti; un giornalismo fatto da persone per le persone, e che si comprende come servizio a tutte le persone, specialmente a quelle – sono al mondo la maggioranza – che non hanno voce”. Un giornalismo, prosegue il Santo Padre, “che non bruci le notizie, ma che si impegni nella ricerca delle cause reali dei conflitti, per favorirne la comprensione dalle radici e il superamento attraverso l’avviamento di processi virtuosi; un giornalismo impegnato a indicare soluzioni alternative alle escalation del clamore e della violenza verbale”.

Definendo “lodevoli le iniziative educative che permettono di apprendere come leggere e valutare il contesto comunicativo” tanto quanto “le iniziative istituzionali e giuridiche”, Francesco si spinge oltre e individua una chiave di lettura per prevenire e identificare i meccanismi della disinformazione: la definisce “logica del serpente”, colui il quale “si rese artefice della ‘prima fake news’ (cfr. Gen 3,1-15), che portò alle tragiche conseguenze del peccato, concretizzatesi poi nel primo fratricidio (cfr. Gen 4) e in altre innumerevoli forme di male contro Dio, il prossimo, la società e il creato”. La strategia di questo “abile ‘padre della menzogna’ (Gv 8,44) è proprio la mimesi, una strisciante e pericolosa seduzione che si fa strada nel cuore dell’uomo con argomentazioni false e allettanti”. Di fronte al “virus della falsità”, riconosce il Papa, il “più radicale antidoto” è lasciarsi “purificare dalla verità”.

D.S.

In Italia gli ortodossi superano i musulmani

In Italia gli ortodossi superano i musulmani

MUSULMANI2Secondo le più recenti stime di Fondazione ISMU, gli stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2017 che professano la religione cristiana ortodossa si confermano come l’anno precedente i più numerosi (oltre 1,6 milioni, +0,7%), seguiti dai musulmani (poco più di 1,4 milioni, -0,2%) e dai cattolici (poco più di un milione, -0,1%) [1].

 Passando alle religioni di minor importanza quantitativa, i buddisti stranieri sono stimati in 188mila (+3,5% rispetto al 1° gennaio 2016), i cristiani evangelisti in 124mila (+2,3%), gli induisti in 73mila (+0,8%), i sikh in 72mila (+0,9%), i cristiani copti in 19mila (+2,1%). Considerando anche cristiani di altre confessioni non comprese tra le principali (111mila in totale al 1° gennaio 2017, +3,8% rispetto ad inizio 2016), i cristiani (compresi i cattolici) stranieri residenti in Italia risultano in tutto 2,9 milioni, in aumento dello 0,6% nell’ultimo anno.

 Anche se non includono gli stranieri non iscritti in anagrafe le elaborazioni di ISMU mettono in mostra che il panorama delle religioni professate dagli stranieri è variegato e sfata in particolare il pregiudizio secondo cui la maggior parte degli immigrati professa l’Islam. Per quanto riguarda le provenienze si stima che la maggior parte dei musulmani stranieri residenti in Italia provenga dal Marocco (408mila), seguito dall’Albania (206mila), dal Bangladesh (103mila), dal Pakistan (100mila), dall’Egitto (96mila), dalla Tunisia (93mila) e dal Senegal (87mila).

 Circa un terzo dei cristiani ortodossi vive in Lombardia o nel Lazio. La regione in cui la presenza di stranieri di fede cristiana ortodossa è maggiore è la Lombardia, con 268mila presenze, seguita dal Lazio con 263mila e poi più a distanza da Veneto (174mila), Piemonte (161mila), Emilia Romagna (158mila) e Toscana (117mila).

 I musulmani si concentrano soprattutto in Lombardia. La regione in cui vivono più stranieri residenti di fede musulmana, minorenni inclusi, è la Lombardia: sono 360mila, pari ad oltre un quarto del totale degli islamici presenti in Italia. Al secondo posto troviamo l’Emilia Romagna con 178mila musulmani, al terzo il Veneto dove i musulmani sono 134mila, al quarto il Lazio con 120mila presenze appena davanti al Piemonte (117mila).

 Gli immigrati cattolici sono presenti soprattutto in Lombardia e secondariamente nel Lazio. La regione italiana in cui vivono più immigrati cattolici è la Lombardia, con 273mila presenze, seguita dal Lazio (153mila), dall’Emilia Romagna (94mila), dalla Toscana (84mila), dal Veneto e dal Piemonte (76mila in entrambe le regioni).

 La provincia di Milano è in cima alla classifica per residenti musulmani e cattolici. Quella di Roma per numero di stranieri cristiano-ortodossi. La provincia di Milano è capolista per numero di stranieri residenti sia musulmani (115mila pari all’8,1% del totale nazionale) sia cattolici (143mila pari al 13,8% del totale nazionale), in entrambi i casi leggermente davanti a quella di Roma (che conta 98mila stranieri musulmani e 134mila stranieri cattolici).

 La provincia di Roma invece primeggia per numero di cristiani ortodossi (211mila, pari al 13,0% del totale nazionale), seguono le provincie di Torino (99mila) e Milano (88mila). Dopo le province di Milano e di Roma, i musulmani si concentrano soprattutto in quelle di Brescia (61mila) e Bergamo (50mila).

 (articolo tratto da www.ismu.org)

[1] In questi conteggi non sono compresi né gli stranieri irregolari nel soggiorno o non iscritti in anagrafe, né coloro i quali hanno acquisito la cittadinanza italiana. Sono inclusi invece i minorenni di qualsiasi età, neonati compresi, ipotizzando per loro la medesima appartenenza religiosa dei connazionali come appurate dalle più recenti indagini regionali lombarde.

Gaudete et exsultate

Gaudete et exsultate

Gaudete_Exultate1Fin dai primi passi dopo l’elezione al soglio pontificio nel 2013 – sottolinea il sito www.vaticannews – Francesco si è soffermato sulla santità nella Chiesa e in più occasioni ha tracciato non solo un profilo di ciò che contraddistingue l’essere santi – la gioia, l’umiltà, il servizio e non di rado il nascosto -, ma ha anche indicato che cosa un santo non è: un superbo, un vanitoso, un «cristiano di apparenza», un «supereroe».

Il 19 novembre 2014, all’udienza generale, Papa Francesco affrontò il tema della vocazione universale alla santità richiamata dal Concilio, spiegando innanzitutto che “la santità non è qualcosa che ci procuriamo noi, che otteniamo noi con le nostre qualità e le nostre capacità. La santità è un dono, è il dono che ci fa il Signore Gesù, quando ci prende con sé e ci riveste di sé stesso, ci rende come Lui”. La santità, affermava Bergoglio, “non è una prerogativa soltanto di alcuni: la santità è un dono che viene offerto a tutti, nessuno escluso, per cui costituisce il carattere distintivo di ogni cristiano”. E per essere santi, “non bisogna per forza essere vescovi, preti o religiosi” o per chi ha la possibilità di “staccarsi dalle faccende ordinarie, per dedicarsi esclusivamente alla preghiera”.

 La santità, spiegava ancora Francesco, “è qualcosa di più grande, di più profondo che ci dà Dio. Anzi, è proprio vivendo con amore e offrendo la propria testimonianza cristiana nelle occupazioni di ogni giorno che siamo chiamati a diventare santi. E ciascuno nelle condizioni e nello stato di vita in cui si trova… Ma tu sei consacrato, sei consacrata? Sii santo vivendo con gioia la tua donazione e il tuo ministero. Sei sposato? Sii santo amando e prendendoti cura di tuo marito o di tua moglie, come Cristo ha fatto con la Chiesa. Sei un battezzato non sposato? Sii santo compiendo con onestà e competenza il tuo lavoro e offrendo del tempo al servizio dei fratelli”.

Quando il Signore ci invita a diventare santi – affermava il Papa in quella catechesi – non ci chiama a qualcosa di pesante, di triste… Tutt’altro! È l’invito a condividere la sua gioia, a vivere e a offrire con gioia ogni momento della nostra vita, facendolo diventare allo stesso tempo un dono d’amore per le persone che ci stanno accanto». Il richiamo alla gioia rappresenta un rimando sia a Evangelii gaudium sia ad Amoris laetitia . Quest’anno, come ha comunicato lo stesso Francesco, si celebrerà la canonizzazione di Paolo VI, il Papa che il 9 maggio 1975, in pieno Anno Santo, pubblicò un’esortazione apostolica dedicata alla gioia cristiana, Gaudete in Domino.

Gaudete et exsultate è la terza esortazione apostolica firmata da papa Bergoglio dopo Amoris laetitia sull’amore nella famiglia (19 marzo 2016) e dopo Evangelii gaudium sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale (24 novembre 2013). A questi documenti si aggiungono le due encicliche Laudato si’ (24 maggio 2015) e Lumen fidei (29 giugno 2013). La nuova esortazione apostolica è stata presentata alla stampa lunedì 9 aprile c.m. dall’arcivescovo Angelo De Donatis, vicario generale di Sua Santità per la diocesi di Roma, dal giornalista Gianni Valente e da Paola Bignardi, ex presidente dell’Azione cattolica.

Non un trattato sulla santità ma il desiderio di incarnarla nel contesto attuale. Questo l’obiettivo che Papa Francesco si propone con la nuova Esortazione Apostolica. La sfida è quella di proporre a tutti la chiamata alla santità come meta perché  viverla significa avere una vita felice e non annacquata, ha spiegato il Vicario del Papa per la diocesi di Roma, mons. Angelo De Donatis. “È un aiuto a tenere il nostro sguardo ben largo”. “È contro la tentazione di ridurre la visuale o di perdere l’orizzonte. Accontentarci a vivacchiare”, sintetizza. Una santità, dunque, non appannaggio di chi dedica la sua vita alla preghiera o ad un particolare ministero ma che è una proposta nella vita di  tutti, ogni giorno. Non a caso Papa Francesco parla della “santità della porta accanto”, cioè ad esempio dei padri e delle madri, che lavorano per portare il pane a casa e crescono con amore i loro figli. “Non si possono fare strategie o piani pastorali per produrre la santità”, sottolinea anche il giornalista Gianni Valente, che ha illustrato il secondo capitolo. Due le falsificazioni della santità che per il Papa possono affacciarsi: due eresie dei primi secoli, pelagianesimo e  gnosticismo, che possono ancora sedurre il cuore dei cristiani. Da una parte per il pelagianesimo Cristo sarebbe venuto per dare il buon esempio, la natura umana non sarebbe ferita dal peccato e quindi tutto dipende dallo sforzo umano. Invece – spiega Valente – è il lavoro della grazia a trasformarci in modo progressivo. L’altro rischio è lo gnosticismo quando si concepisce la fede come cammino di conoscenza di verità. Ma “se il cristianesimo viene ridotto a una serie di messaggi e a una serie di idee – fossero pure l’idea della grazia o l’idea di Cristo – a prescindere però dal suo operare reale, allora inevitabilmente la missione della Chiesa si riduce ad una propaganda, ad un marketing: cioè alla ricerca di metodi per diffondere quelle idee e convincere altri a sostenerle”, spiega il giornalista ricordando anche che Francesco non vuole fare battaglie culturali ma chiedere che sia il Signore a liberare dalle forme di gnosticismo e pelagianesimo.

Su terzo e quarto capitolo, le riflessioni di Paola Bignardi. Carta di identità del cristiano sono le Beatitudini. Soprattutto riguardo alla misericordia, la Bignardi ricorda l’esempio riportato al numero 98 del documento  “che – dice – dà l’idea, in maniera molto concreta, di che cosa questo significhi, e in qualche modo mostra il discrimine tra l’essere cristiani e il non esserlo”: “quando incontro una persona che dorme alle intemperie, in una notte fredda”, posso considerarlo un imprevisto fastidioso o riconoscere in lui un essere umano con la mia stessa dignità, come me infinitamente amato dal Padre.

“Dio è sempre novità, che ci spinge continuamente a ripartire e a cambiare posto per andare oltre il conosciuto, verso le periferie e le frontiere, afferma l’Esortazione; ci conduce là dove si trova l’umanità più ferita e dove gli esseri umani, al di sotto dell’apparenza della superficialità e del conformismo, continuano a cercare la risposta alla domanda sul senso della vita. Dio non ha paura! Non ha paura! Va sempre al di là dei nostri schemi e non teme le periferie. Egli stesso si è fatto periferia (cfr Fil 2,6-8; Gv 1,14). Per questo, se oseremo andare nelle periferie, là lo troveremo: Lui sarà già lì. Gesù ci precede nel cuore di quel fratello, nella sua carne ferita, nella sua vita oppressa, nella sua anima ottenebrata. Lui è già lì”.

“La santificazione è un cammino comunitario; la comunità è chiamata a creare quello «spazio teologale in cui si può sperimentare la mistica presenza del Signore risorto». Condividere la Parola e celebrare insieme l’Eucaristia ci rende più fratelli e ci trasforma via via in comunità santa e missionaria. La vita comunitaria, in famiglia, in parrocchia, nella comunità religiosa o in qualunque altra, è fatta di tanti piccoli dettagli quotidiani. Ricordiamo come Gesù invitava i suoi discepoli a fare attenzione ai particolari. Il piccolo particolare che si stava esaurendo il vino in una festa. Il piccolo particolare che mancava una pecora. Il piccolo particolare della vedova che offrì le sue due monetine. Il piccolo particolare di avere olio di riserva per le lampade se lo sposo ritarda. Il piccolo particolare di chiedere ai discepoli di vedere quanti pani avevano. Il piccolo particolare di avere un fuocherello pronto e del pesce sulla griglia mentre aspettava i discepoli all’alba.

La comunità che custodisce i piccoli particolari dell’amore, dove i membri si prendono cura gli uni degli altri e costituiscono uno spazio aperto ed evangelizzatore, è luogo della presenza del Risorto che la va santificando secondo il progetto del Padre”.

“Malgrado sembri ovvio, la santità è fatta di apertura abituale alla trascendenza, che si esprime nella preghiera e nell’adorazione. E poi “come sapere se una cosa viene dallo Spirito Santo o se deriva dallo spirito del mondo o dallo spirito del diavolo? L’unico modo è il discernimento, che non richiede solo una buona capacità di ragionare e di senso comune, è anche un dono che bisogna chiedere. Se lo chiediamo con fiducia allo Spirito Santo, invita il Papa, e allo stesso tempo ci sforziamo di coltivarlo con la preghiera, la riflessione, la lettura e il buon consiglio, sicuramente potremo crescere in questa capacità spirituale”.

“Spero che queste pagine siano utili perché tutta la Chiesa si dedichi a promuovere il desiderio della santità”, così quasi a conclusione l’Esortazione e prosegue: “Chiediamo che lo Spirito Santo infonda in noi un intenso desiderio di essere santi per la maggior gloria di Dio e incoraggiamoci a vicenda in questo proposito. Così condivideremo una felicità che il mondo non ci potrà togliere”.

D.S.

AUGURI!

Oggi, giovedì 5 aprile 2018 l’Assemblea USMI riunita per l’annuale momento formativo ha eletto la madre Presidente e la Vice- Presidente.

MadreMadre Yvonne Reungoat, Superiora generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice, Presidente

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e Sr Ester Pinca, Superiora generale delle Suore Francescane Alcantarine.

Grazie per il SI di ciascuna e auguri per un fecondo servizio alla Vita consacrata che è in Italia.

Auguri!

Pasqua 2018

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Con timore e gioia grande

le donne corsero

a dare l’annuncio…

(Mt 28,8-15)

…Che possiamo essere nella Chiesa

quelle donne di risurrezione

che annunciano con gioia le ricchezze

di cui sono state gratuitamente colmate.

Buona e santa Pasqua!

Madre Regina e sorelle tutte

Dalla Nigeria una speranza per le vittime…

Dalla Nigeria una speranza per le vittime…

rito1Un fatto passato quasi inosservato in Italia ma che potrebbe avere implicazioni positive per le ragazze nigeriane costrette a prostituirsi: alcuni giorni fa l’Oba (“re”) Ewuare II, la massima autorità religiosa del popolo Edo, ha formulato un editto in cui vieta tutti i riti di giuramento che vincolano con maledizioni terribili le ragazze trafficate. Una testimonianza dalla Nigeria e il commento delle religiose anti-tratta.

In Nigeria, a Benin city, nell’Edo State, è accaduto un fatto storico che potrebbe liberare molte ragazze vittime della tratta a scopo di sfruttamento sessuale: l’Oba (“re”) Ewuare II, ossia la massima autorità religiosa del popolo Edo (che vive in Nigeria e nella zona del delta del Niger), ha convocato giorni fa tutti i preti della religione tradizionale juju.

In una cerimonia solenne ha formulato un editto in cui revoca tutti i riti di giuramento che vincolano con maledizioni terribili le ragazze trafficate, obbligando i preti juju a non praticarne più. In sostanza migliaia di ragazze nigeriane (il 90% vengono dall’Edo State) costrette a prostituirsi sulle strade italiane ed europee per ripagare il debito contratto con i trafficanti (tra i 20 e i 40mila euro), potrebbero avere meno paura di denunciare i loro aguzzini e riuscire così a liberarsi dalla condizione di schiavitù in cui sono cadute

Il rito juju, un maleficio che lega le ragazze ai trafficanti. Le ragazze più povere cadono infatti nella rete dei trafficanti o delle madame con l’inganno: promettono loro un lavoro di babysitter o parrucchiera in Europa e si offrono di pagare il costoso viaggio verso l’Europa. Le ragazze sono spesso analfabete o con scarsa istruzione e non capiscono che la cifra è in euro e non in naira, la moneta locale, quindi pensano sia abbordabile. Quando accettano vengono condotte davanti ad un prete juju che celebra il rito, a pagamento. È una sorta di maleficio realizzato con tagli sulla pelle che vengono ricoperti di cenere e un sacchetto con capelli, peli, unghie e indumenti intimi della vittima, che sarà poi conservato dal prete. Il rito termina con l’uccisione di un gallo di cui le ragazze sono costrette a ingerire il cuore insieme ad una bevanda alcolica.

L’accordo obbliga la ragazza a non tradire mai il trafficante. Se infrangerà il giuramento andrà incontro a morte o pazzia.

Dopo il rito la maggioranza delle ragazze sono costrette a fare il viaggio attraverso il deserto, la Libia e il mare, con tutti i soprusi e violenze che ne derivano. Se riescono ad arrivare vive in Italia, anziché il lavoro promesso trovano la strada. Molte giungono per vie traverse dal nord Europa, altre vanno verso l’Arabia Saudita.

Le ragazze potrebbero avere meno paura di denunciare. “Sono terrorizzate da questo rito, per questo non denunciano. C’è molto sincretismo, tutte credono in un Dio cristiano che è più forte di ogni malocchio ma culturalmente sono soggiogate e condizionate. Quelle che ci credono di più a volte vanno in cura psichiatrica”.

“Questa cerimonia è un fatto di portata storica, che può avere implicazioni enormi. Potrebbe incrementare il numero di denunce contro i trafficanti ed aiutarle a liberarsi”spiega al Sir da Benin city Francesca De Massi, responsabile di una casa-rifugio della cooperativa Befree contro la tratta, la violenza e la discriminazione. De Massi era presente alla cerimonia convocata da Oba Ewuare II il 9 marzo e descrive tutta l’emozione provata in quell’occasione. ”Tutto si è svolto in un clima molto serio e solenne – racconta -. L’Oba parlava in lingua benin. Ha revocato tutti i giuramenti posti in essere e detto ai preti juju che se lo rifaranno la punizione degli dei ricadrà contro di loro”. Ewuare II è una figura molto autorevole e rispettata in tutta la zona di Benin city, con oltre 3 milioni di abitanti. È stato infatti ambasciatore della Nigeria in Angola, Svezia e Italia e ha lavorato alle Nazioni Unite. Fin dal suo insediamento nel 2016 ha collaborato strettamente con il governatore dell’Edo State e con l’agenzia locale contro la tratta di persone.

“La sua presa di posizione è importantissima”.

Un cambiamento positivo. “Sono molto ottimista sugli effetti di questa cerimonia”, prosegue De Massi. Da quel giorno riceve continue telefonate dall’Italia:

“Le ragazze mi chiedono se è vero, sono felicissime, stanno festeggiando”.

Negli anni, a causa della crescente domanda da parte di clienti italiani, le cifre della tratta di ragazze nigeriane sono esplose: “Dal 2014 ad oggi c’è stato un incremento del 600% – ricorda -. Nel 2016 ne sono arrivate 11.000”. Nel 2017 i richiedenti asilo dalla Nigeria (uomini e donne) sono stati 25.964. Delle 6.161 persone sbarcate dagli inizi del 2018 ad oggi 383 sono di nazionalità nigeriana. In realtà il rito juju non è l’unico problema perché la rete della tratta è molto complessa e varia. “C’è anche chi viene adescata nelle chiese evangeliche neopentecostali”, conferma suor Gabriella Bottani, coordinatrice della rete delle religiose anti-tratta Talitha kum: “Dietro ci sono dinamiche di controllo della persona”. Pur non conoscendo direttamente le implicazioni interne a ciascuna religione secondo la religiosa

“La condanna dell’Oba di Benin city può sicuramente provocare un cambiamento positivo”.

 

Da Sir, 20 marzo 2018

26° Giornata di Preghiera e Digiuno in memoria dei missionari martiri

 Chiamati alla vita

chiamati alla vitaMentre scrivo questa breve presentazione del numero speciale de L’animatore missionario dedicato alla 26° Giornata di Preghiera e Digiuno in memoria dei missionari martiri

che si celebra il prossimo 24 marzo, apprendo che papa Francesco ha autorizzato la pubblicazione del decreto che riconosce il martirio del vescovo di Oran in Algeria, mons. Pierre Claverie, e di altri 18 compagni, sacerdoti, religiosi e suore, uccisi in Algeria negli anni 1994-1996.

Tra loro anche i sette monaci trappisti del monastero di Tibhirine, rapiti nella notte tra il 26 ed il 27 marzo 1996 ed uccisi il 21 maggio successivo, la cui vicenda ha ispirato nel 2010 il film “Uomini di Dio” del regista Xavier Beauvois, che durante la 63ma edizione del Festival Cinematografico di Cannes vinse il premio Grand Prix Speciale della Giuria.

La memoria di quei fatti ci introduce al tema della Giornata di quest’anno, Chiamati alla vita. Alla vita vera naturalmente, la vita della Grazia secondo lo Spirito Santo, la vita di coloro che nel battesimo si immergono nella morte di Cristo per risorgere con lui come “nuova creatura”. Con il battesimo infatti siamo incorporati a Cristo e alla sua Chiesa, per sempre apparteniamo a Lui e con Lui partecipiamo alla vita divina trinitaria, come insegna il Catechismo della Chiesa cattolica.

È la vita nuova di cui parla l’Apostolo Paolo nella sua Lettera ai Romani “O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova”. È la vita evocata dall’immagine che appare sulla copertina di questo opuscolo: i resti di un antico battistero, quello della chiesa di Shivta nel deserto del Negheb, che richiama il senso profondo della rigenerazione in Cristo attraverso l’immersione di tutta la persona nell’acqua battesimale. È la vita alla quale sono chiamati non solo i martiri, nella loro suprema testimonianza del più grande amore, quello di dare la propria vita per quelli che si amano, ma anche tutti e ciascuno di noi nella quotidiana testimonianza di una fede vissuta nella carità e amicizia verso quanti sono privati, ovunque nel mondo, di una vita in pienezza.

Per questo anche quest’anno, come per il passato, in occasione della Giornata viene proposto un Progetto di solidarietà universale da realizzare nella Repubblica Centrafricana a beneficio delle donne che frequentano il Centro di Promozione della Donna nella parrocchia di St. Jacques de Kpètènè, nell’arcidiocesi di Bangui, affidato alla Congregazione delle Suore Figlie di Maria Missionarie.