“Non si può parlare di Dio rimanendo uguali”, osservava con acutezza Roberto Benigni commentando in televisione i Dieci Comandamenti: “Gli idoli addormentano – aggiungeva – mentre il Divino inquieta, ti chiede di cambiare, di rinnovarti sempre; Dio è un inno alla vita, vuole entrare non nella nostra mente, ma nei nostri cuori”. Mi piace pensare al profeta come a colui che abitato da Dio, vive continuamente alla sua presenza. Farsi abitazione di Dio! è questo un lungo cammino interiore da compiere “fino allo spuntar del sole: attraversando la notte”. Camminare sui sentieri di Dio è abbracciare la sua logica. Questo è conseguente al fatto di essere sintonizzati con la decisione di Dio di camminare con noi. Sintonizzare il nostro orologio spirituale ed esistenziale con il fuso orario dello Spirito Santo che ci porta all’incontro con Gesù. Fargli spazio sulle strade della nostra vita significa far arretrare certe nostre pretese; è fargli piantare la sua tenda in mezzo ai nostri progetti; è lasciarsi disturbare da una presenza che cambia radicalmente le cose. Allora, e solo allora, saremo profeti davvero.
Profeti, figli di profeti
Quando, dunque, diventiamo davvero “profeti, figli di profeti”? Quali sono i segni di questa appartenenza? Siamo chiamati ad andare oltre l’atteggiamento dell’emozione e dello stupore per verificare, nella quotidianità, il grado di accoglienza effettivamente riservata al Verbo di Dio, alla sua Parola. La risposta può darla soltanto la nostra vita, nella misura in cui costruisce relazioni leali e vere, e genera – con parole responsabili e con gesti concreti – condizioni di riconciliazione e di pace, ridona speranza facendosi prossima alle condizioni dei fratelli, soprattutto dei più poveri. Un motivo di fiducia e un nuovo impulso – in questa direzione – ci vengono dall’appuntamento ecclesiale, che ha visto la Chiesa italiana radunata a convegno a Firenze, attraverso i duemila e più delegati, che hanno ascoltato e discusso, meditato e avanzato proposte concrete e illuminate sul cammino da tracciare per dare nuova vitalità alla testimonianza profetica, a partire da un nuovo umanesimo che, in Gesù di Nazaret, meglio risponde ai bisogni del nostro tempo. Sono cinque le vie che – mutuate dalla Evangelii gaudium – hanno ispirato la preparazione e lo svolgimento del Convegno ecclesiale; tutte unite sotto la cifra della profezia, nella quale tutti religiosi e laici, ci si sente chiamati per offrire luce a un tempo, qual è quello attuale, segnato fortemente da tanti timori e oscurità.
Fare esercizio del dono ricevuto
Se prendiamo sul serio lo stile che in maniera inequivocabile ci deriva dalle parole di Papa Francesco, non possiamo esimerci anche noi dal constatare che, spesso, tutto quello che abbiamo finalmente … illuminato … finisce col risplendere di tragico! Il tragico di una esistenza chiamata a profetizzare e che invece rischia di non parlare più; un esistere afono in cui la profezia manca di «esercizio». Ecco allora, la necessità di una profezia capace di trasformare la storia, di aprire a una visione alta, spirituale che non vuol dire disincarnata, ma in grado di unire il cielo alla terra. Il compito della profezia non è di prescrivere comportamenti, ma di mostrare l’altezza della vocazione a seguire Cristo; la condotta del discepolo di Cristo, infatti, non è sottomissione a precetti, ma esplicitazione del dono ricevuto. Perciò la profezia trova la sua sintesi nella carità, dalla quale discendono esigenze concrete e specifiche. Solo facendo dell’amore il parametro e la meta finale, è possibile orientare il cammino alla meta alta della beatitudine evangelica e non a quella bassa di una giustizia solo formale. La carità deve portare frutto: essa non può ridursi a sentimento, ma si traduce in gesti concreti per la vita e il bene del mondo. Il cammino del profeta, infatti, è sempre dentro la storia e in un contesto di popolo.
L’amore non si dimostra, si mostra
Il Vangelo ci dà un’indicazione talmente chiara che sembra rasentare la banalità quando afferma che l’amore non si dimostra, l’amore si vive; e proprio perché lo si vive, l’amore non si dimostra ma si mostra. Il gusto autentico delle cose, non si dimostra, lo si realizza. La luce non va dimostrata, la luce va accesa e perciò stesso è resa visibile. Quando non c’è questa capacità di mostrare il vero gusto della realtà, vivendola in maniera evidente e percepibile, ricorriamo ad altri strumenti: l’argomentazione, la dimostrazione, l’organizzazione.
Volete far conoscere Dio? Non parlate di Dio, non argomentate su di Lui, non dimostrate niente; fate piuttosto qualcosa di concreto; ma talmente bello, talmente sensato e gustoso … che, a chi vi incontra, venga spontaneo dire: ma è davvero bello quello che tu fai e vivi! Chi te lo ispira? In nome di chi lo fai? Così Dio vuole essere presentato e testimoniato! Con la stessa forza ed evidenza della luce; con lo stesso sapore forte del sale: attraverso scelte e gesti concreti, che danno gusto e contagiano il senso di vivere. In tal modo il proprio sentire e pensare è armonizzato sul ritmo senziente e pensante di Dio così da divenire una fiamma che arde, illumina e riscalda. Se le nostre scelte di vita e di missione non vanno in questa direzione, rischiano di essere un modo per occultare l’unico procedimento che il Vangelo predilige: quello della evidenza, dell’attrazione; che vuol dire fare scelte e porre gesti che rendono evidentemente gustosa la vita vissuta con Cristo.
Mostrare Gesù
Ecco il compito del profeta: far vedere Gesù; farlo trasparire dalle parole e dalla vita. Non dare visibilità a se stessi. Mi colpisce sempre il racconto evangelico di quelli che chiedono di vedere Gesù, ai quali Gesù non fa nulla per invogliarli, non si attiva per rendere attraente il suo messaggio: non ne abbassa le esigenze, ma va al cuore della sua persona e della sua missione: «Se uno mi vuole servire…» (Gv 12, 26). In fondo, fa capire che si può vedere – si può fare esperienza di Lui – soltanto quando si è disposti a percorrere la sua stessa strada, che è quella dell’amore portato fino alla croce. A chi vuole conoscerlo, Gesù indica la rinuncia a se stesso, ai propri progetti portati avanti senza tener conto delle circostanze e degli altri; propone la fiducia incondizionata nel Padre. Quanta tristezza si diffonde invece se chi proclama amore e dedizione al Signore Gesù finisce poi col rivendicare attenzione e gratitudine per sé… Occorre sempre ricordare che, colui che “non muore rimane solo… ”. C’è una sorta di autoreferenzialità e di schizofrenia esistenziale, direbbe papa Francesco, che porta a vivere “una doppia vita, frutto dell’ipocrisia tipica della mediocrità della vita e del progressivo vuoto spirituale”. Allora viviamo il cammino della vita riconsegnandoci, offrendoci sempre di nuovo, con generosità, convinti che “se aspettiamo di essere ricchi prima di diventare donatori, moriamo di povertà” (P. Mazzolari).
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Il presente numero di Consacrazione e Servizio, il primo del 2016, segue gli avvenimenti della Chiesa di cui la Vita consacrata è partecipe e nei quali è direttamente coinvolta. Anzitutto la conclusione dell’Anno dedicato a noi religiose. Siamo state chiamate a risvegliare l’identità profetica della nostra vocazione. Il Dossier di questo primo numero è esattamente dedicato a questo approfondimento, a cui farà seguito il secondo numero che metterà a tema la cura
del cammino formativo delle religiose: Un tema cruciale per le sfide forti che si trova ad affrontare la formazione. Un appuntamento ecclesiale di grande impatto per tutte noi è il giubileo della misericordia a cui saranno ispirate le copertine e a cui orienteremo la riflessione successiva. Si tratta di guardare alla vita e alle persone con lo sguardo di Gesù che ci dà la possibilità di essere misericordiosi. Questa visione di grazia nell’orizzonte della misericordia non è nostra conquista, è piuttosto una opportunità per fidarsi ancora e sempre, per non smarrire la direzione della fiducia che è lo sguardo di Dio sull’uomo e sulla storia. Da tale Fonte scaturisce tutta a sapienza necessaria a vivere immersi nella misericordia. Allora come Maria possiamo cantare il Cantico dei Cantici senza distogliere gli occhi dalla carne di coloro che abitano la quotidianità, senza allontanare lo sguardo dai popoli, dalla terra e dalle genti.