La provocazione
Siamo ormai verso la fine dell’anno dedicato alla vita consacrata, per alcuni un grande successo determinato da lodevoli iniziative anche di livello internazionale, per altri un tempo utile per tornare a riflettere su una forma di vita cristiana che non se la passa molto bene e ha bisogno di ridefinirsi, per altri ancora un’occasione che non è stata sfruttata a dovere: troppi eventi (auto)celebrativi e scarsità di vere e proprie provocazioni, di qualcosa di significativo che resti per il dopo e valga la pena di essere coltivato. Certo, “quando un’autorità [in questo caso la decisione è stata di papa Francesco, ndr] stabilisce un tempo da dedicare particolarmente a una categoria sociale, ciò significa che tale ceto è stato piuttosto trascurato, forse un po’ accantonato, se non proprio dimenticato”1. In verità da qualche anno – e il discorso vale soprattutto per l’Europa e il Nord America – la vita consacrata, troppo impegnata a gestire il lento ma inesorabile declino, ha perso buona parte della sua vitalità. Qualcuno lamenta il fatto che i consacrati non riescono a vivere e comunicare un modo alternativo di stare al mondo e in grado di illuminare il futuro2. “I religiosi – secondo lo storico Andrea Riccardi – vivono una crisi non tanto perché appartengono al passato e si debbono adattare ai tempi, ma forse perché non riescono a esprimere il sogno evangelico del futuro. […] La grande questione è la visione del futuro”3. Come dire che nella vita consacrata tutto si gioca sulla profezia, sulla capacità di anticipare i tempi, di azzardare i segni dell’eterno senza degradarli a innocui segni dei tempi dei quali appropriarsi per progettare viaggi di confortevole e scontata normalità. La profezia è cosa seria, della quale non ci si può riempire la bocca senza mettere in allerta il cuore e in tensione tutta la persona. Per cui, quando è autentica, non passa inosservata; e quando è solo simulata, si trasforma in una gravissima controtestimonianza.
Nel proporre un primo bilancio dell’anno dedicato alla vita consacrata, non manca chi, allargando gli orizzonti, offre una visione d’insieme che fa pensare. Il priore di Bose, Enzo Bianchi, solleva alcuni interrogativi: “Ma cosa sta succedendo nella vita religiosa, visto che nemmeno essa vive in modo convinto quest’anno che la riguarda? Sono impressionanti il silenzio, la disillusione, la stanchezza, l’inerzia di molti appartenenti a questa vita che sembra aver perso il suo sapore e la capacità di segni profetici. Perché siamo passati dall’abbondanza non solo di vocazioni ma di iniziative e diaconie di quarant’anni fa all’attuale ‘miseria’?”4. Posso personalmente testimoniare di religiosi e religiose i quali, delusi dalla propria situazione e da quella del proprio istituto, si augurano che si verifichi quanto prima un benefico “infarto vocazionale” che faccia venire meno ogni possibilità di futuro. Una sorta di eutanasia per esaurimento, quasi che un certo tipo di vita non meriti di essere prolungato oltre, avendo perso i caratteri di umanità e umanizzazione che la rendono degna di essere vissuta.
Una vita religiosa “bambina”
José Cristo Rey García Paredes, grande esperto di vita consacrata e prima ancora dello statuto
teologico dei diversi “stati di vita” e della relazione che tra loro intercorre, ha recentemente fatto il punto sulla situazione della vita religiosa europea in un intervento dal titolo Lunga alba o crepuscolo della vita religiosa in Europa? 5.
di nuove possibilità, della riorganizzazione carismatica, del carisma e della missione condivisa,
della presenza della vita consacrata nei ‘nuovi scenari’ di evangelizzazione” 6. Andando oltre il punto di vista statistico, che potrebbe apparire deprimente7, García Paredes intravede una concreta possibilità di futuro per quegli istituti che si sono prodigati nella missione e hanno constatato la fecondità del proprio carisma in molte parti del mondo, per cui oggi sono istituti biodiversi: “Questa biodiversità culturale, razziale, spirituale, permetterà loro di far fronte alle carenze che stanno consumandoli in Europa, di dedicarsi alle presenze missionarie più importanti e di reinventarne altre necessarie”8. Avremo sempre più, negli anni a venire, una vita religiosa europea bio-diversa9 – in concreto latinoamericana, asiatica –, africana, in grado di dare continuità e offrire possibilità vocazionali alle nuove generazioni europee. Verso dove stiamo andando, allora?
1) Per molti istituti, quelli meno ramificati nel mondo, è iniziato il “conto alla rovescia”, per cui
possono imboccare una duplice strada per realizzare quella che J.B. Metz, a metà degli anni ’70, ha chiamato ars moriendi charismatica: o fondersi con altri istituti che hanno maggior vigore carismatico e davanti a sé un futuro che garantisce ancora spazi di manovra, oppure accettare di andare verso una morte cristiana, che è sempre insieme fine e compimento.
Senza questa vision, indispensabile per non finire allo sbando, si allargherà, per molti istituti l’area grigia del non poter più né vivere né morire10.
2) Altri istituti vivranno quel cambiamento di cui si diceva sopra, per cui approderanno a un profilo decisamente interculturale, in linea con altre trasformazioni che stanno già avvenendo in Europa a livello politico-economico e sociale (pensiamo soprattutto all’intensificarsi dei flussi migratori). “Sarà una vita religiosa più aperta al trans-parrocchiale, al trans-diocesano, al trans-nazionale… una vita religiosa con un volto molto più globalizzato, ma al servizio di una globalizzazione umana, ispirata ai grandi valori della fraternità-sororità, della libertà, della dignità di tutti gli esseri umani”11.
Ma, nella sostanza, cosa cambierà, e quale sarà la prima qualità del nuovo modello di vita religiosa? Su questo punto García Paredes è molto esplicito: avremo “una vita religiosa più umile, che non pretenderà di farsi valere nella società per le sue grandi istituzioni educative, universitarie, sanitarie.
Quale riforma?
Dopo aver evidenziato alcune perplessità circa la vita consacrata dei nostri anni e proposto una sua lettura in prospettiva, in particolare per l’area europea, in questo paragrafo intendiamo segnalare due punti decisivi per una riforma che renda questa forma di vita più evangelica, più vivibile e più comunicabile. Innanzitutto la parola riforma, con la sua tortuosa e complicata storia lungo i secoli cristiani, non è facile da maneggiare. Ci proviamo, cercando innanzitutto di fare chiarezza, per il fatto che molto dipende dal significato che si vuol dare al prefisso “ri”. Questo può essere inteso in senso reiterativo, perché la vita cristiana è fatta, per sua natura, di ricominciamenti, e pure la vita religiosa, segnata da repentini autunni come anche da impreviste primavere, vive di questo continuo mettersi al passo con il Vangelo e con l’uomo che ne è il destinatario. Il secondo significato è restitutivo, nel senso che sottende una chiamata a recuperare la forma precedente, la forma ritenuta originaria e integra: pensiamo solo a quante forme di vita religiosa si rifanno, più o meno esplicitamente, ai sommari degli Atti degli apostoli, all’ideale (forse troppo idealizzato) della ecclesiae primitivae forma.
Se il modello reiterativo guarda al futuro, al rinnovamento sempre in atto e mai concluso perché la pienezza è solo quella definitiva, dell’eschaton, il modello restitutivo trova nel passato e nella sua forza ispirativa lo slancio necessario per adeguare l’oggi al fervore delle origini. Si tratta certo di due modelli di riforma sempre attuali, ma, a quanto pare, la scelta di papa Francesco è stata quella di attivare una riforma missionaria, determinata dal fatto di mettere ogni realtà nella e della Chiesa a servizio della missione.
Nell’enciclica Laudato si’ (18 giugno 2015), egli si ricollega all’Evangelii gaudium (24 novembre 2013) con queste parole: nella mia esortazione apostolica, “ho scritto ai membri della Chiesa per mobilitare un processo di riforma missionaria ancora da compiere” (n. 3). E se questo vale
per la Chiesa in generale, non è pensabile o ipotizzabile una riforma della vita religiosa che si ponga in altri termini, che si limiti a piccoli aggiustamenti interni, a ritocchi formali che non intaccano la sostanza. Se sarà la missione, come vuole papa Francesco, a modellare l’identità e lo stile della Chiesa futura, così sarà anche per la vita religiosa.
in essa. Un secondo punto che ritengo determinate perché la riforma non rimanga solo a livello strutturale, ma tocchi il cuore dei religiosi e renda più bella e luminosa la loro vita, è la qualità umana dell’esistenza personale, fraterna e missionaria che essi conducono. Di fatto, oggi “l’ostacolo alla testimonianza non è dato tanto dall’essere peccatori, ma dall’essere indifferenti,
nel non sentirsi davvero appassionati e vitali nel credere15”, e, aggiungerei, nel vivere. Se un tempo era prevalente il modello della “vita angelica”, oggi deve prevalere il modello dell’“umanizzazione”16, del vivere secondo l’umanità di Gesù, perché in una umanità pienamente riuscita egli ci ha mostrato il volto del Padre. Gesù non è solo portatore della gioia e della “vita buona”, ma la sua è innanzitutto una vita contenta di esistere e una vita ben vissuta17. Senza questa convinzione potrebbe prevalere la proclamazione di una pienezza di vita della quale gli stessi annunciatori sono i primi a diffidare, incapaci di tenere in unità ciò che in Gesù si salda e armonizza: l’umano e il divino. Non si può essere religiosi e uomini o donne a metà, con un’umanità imbrigliata e diminuita, incapace di fiorire.