La Bibbia, come sappiamo, non è stata scritta da uno scrittore geniale che, dentro le pareti della sua stanza, redasse il ‘libro sacro ’ come una storia continua. La Bibbia è nata nel grembo di una comunità viva, composta da persone concrete, desiderose di vivere la fede in Dio nonostante la loro fragilità. Questa comunità credente documenta la propria storia di fede, realizzando una specie di ‘album’ di famiglia, che raccoglie tutti gli aspetti della vita: documenti, storie, poesie, feste, leggi… Mano a mano che si aggiorna le storie in esso narrate aumentano e i fatti antichi riacquistano nuovo spessore. In questo speciale ‘album’ la comunità credente, mentre ricorda gli eventi importanti che l’hanno segnata, ri – esprime la sua fede nelle nuove situazioni, crescendo, simultaneamente, nella fedeltà all’alleanza.
La sapiente pedagogia di Dio
Le Scritture ebraiche, nella loro lunga storia di formazione, rispecchiano la pedagogia misericordiosa di Dio verso il suo popolo, che conduce ad affidarsi a lui, stando al suo passo. Ecco perché i testi biblici, anche i più difficili, non vanno isolati dal loro contesto, ma vanno compresi dentro la storia di fede che li ha prodotti e nel modo nel quale sono stati riportati. La Bibbia è un tutto organico; è quella grande sinfonia di voci, che formano la melodia che per i cristiani è Gesù, centro della Scritture. Come comprendere, tuttavia, i testi biblici la cui morale o teologia è lontana dall’insegnamento di Gesù?
La DV 15 afferma: «I libri poi del Vecchio Testamento, tenuto conto della condizione del genere umano prima dei tempi della salvezza instaurata da Cristo, manifestano a tutti chi è Dio e chi è l’uomo e il modo con cui Dio giusto e misericordioso agisce con gli uomini. Questi libri, sebbene contengano cose imperfette e caduche, dimostrano tuttavia una vera pedagogia divina. Quindi i cristiani devono ricevere con devozione questi libri: in essi si esprime un vivo senso di Dio; in essi sono racchiusi sublimi insegnamenti su Dio, una sapienza salutare per la vita dell’uomo e mirabili tesori di preghiere».
Già nel lontano 1993, il biblista J.L. Ska in un illuminante articolo pubblicato sulla rivista ‘Civiltà cattolica’ 144 III (1993) 209-223, risponde alle domande che molti si pongono dinanzi ad alcune pagine ‘difficili’ della Bibbia.
1. Come accettare, ad esempio, il fatto che i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe dinanzi a situazioni rischiose, per salvarsi la vita dicono bugie? Abramo afferma che Sara è sua sorella (Gen 12,10-20; 20,1-18). Lo stesso fa Isacco (Gen 26,6-11); Giacobbe inganna due volte il fratello Esaù (Gen 25,29-32; 27,1-28,9).
I racconti biblici che riguardano i patriarchi non hanno lo scopo primario di proporre dei modelli di virtù: questi racconti sono memorie su personaggi che ebbero un ruolo importante nella storia del popolo d’Israele, sono gli antenati del popolo, il quale in essi ritrova le proprie radici. Che Abramo, Isacco e Giacobbe abbiamo avuto debolezze non impedisce di essere i padri di Israele secondo la carne e nella fede. Lo scrittore sacro non intende formulare dei giudizi nei loro riguardi, ma semplicemente descrivere il loro cammino. I patriarchi non sono stati perfetti, ma nonostante i loro errori, dubbi e incertezze, nei quali chiunque in ogni tempo si può riconoscere, essi non hanno smesso di cercare Dio, di affidarsi a lui e di lasciarsi guidare dalla sua parola. Questa è l’eredità che consegnano ai discendenti.
2. In alcuni libri emergono giudici crudeli e amorali (cfr. Sansone, Gdc 13-16; Iefte, Gdc 9-11), grandi re peccatori a crudeli, persino Davide e Salomone (cfr. 2Sam 11; 1Re 11). I testi violenti si comprendono alla luce dell’usanza del tempo che richiedeva la distruzione completa delle città conquistate (legge dell’Herem), il massacro degli abitanti, del bestiame e gli oggetti preziosi dovevano consacrarsi solo a Dio.
I racconti di violenza presenti in questi testi biblici, sono scritti in un genere letterario, simile all’epopea. Secondo genere non esistono mezze vittorie. O si vince o si perde. Occorre, inoltre, tener presente che sono storie composte, dopo aver perduto la terra promessa, durante il periodo dell’esilio o del post-esilio. In queste storie si vuole idealizzare il passato che, tramite l’epopea, appare glorioso. Non è vero, ad esempio, che tutti i cananei furono distrutti! Israele, in realtà, ha dovuto convivere con essi mantenendo la sua identità religiosa. L’esigenza di distruzione attribuita a Dio, espressa da questi racconti, riguarda l’astensione dai culti idolatrici e da ogni forma di compromesso con il mondo pagano. Il dramma di Iefte non vuole, ad esempio, edificare, e non invita all’imitazione, ma è un racconto che vuole, invece, commuovere. II racconto induce a partecipare all’esperienza dolorosa dell’amore di un padre verso sua figlia e a capire la sua ingenuità. Altri testi affermano che Dio non vuole sacrifici umani (cfr. Gen 22).
I cristiani nell’AT non cercano sempre e immediatamente modelli da imitare, ma, nel leggerlo, fanno attenzione al senso dei racconti e a ciò che essi vogliono trasmettere e al genere letterario che usano.
3. Il libro di Giobbe che affronta il tema della sofferenza del giusto presenta una soluzione terrena che non corrisponde all’ esperienza. Non vi sono, inoltre, aperture o speranze nella vita oltre la morte o nel dogma della resurrezione. Anche i salmi imprecatori creano dei problemi dove si maledice il nemico e se ne augura la distruzione. Il dramma di Giobbe permette di riflettere sul carattere insondabile dell’azione divina e sul mistero della sofferenza, che trova luce soltanto nella passione e resurrezione di Gesù. Oltre a ciò, insinua che la vocazione umana fondamentale e primaria è di ricercare il senso dell’esistenza, anche nei suoi aspetti più drammatici, soltanto nel confronto schietto e aperto con Dio. Le imprecazioni che troviamo nei salmi [cfr. Sal 34 (35); 108 (109),6-8; 51 (52),7 ecc.] testimoniano l’esperienza religiosa di sofferenza del fedele che la supera unendo la sua causa personale con quella di Dio. La distruzione del nemico appare giusta perché il nemico del credente è considerato nemico di Dio. L’orante, tuttavia, mai chiede di farsi giustizia con le proprie mani e secondo i suoi criteri, ma chiede a Dio di intervenire, secondo la sua ‘giustizia’. Un cristiano può pregare con questi salmi, perché pregandoli identifica i suoi sentimenti di dolore e di giustizia davanti a Dio al quale affida la sua causa. Il tal modo lasciando la ‘vendetta’ a Dio, esce liberato dal peso che lo schiaccia. I salmi imprecatori danno voce al dolore e alla sofferenza di tanti innocenti e aiutano a essere solidali con quelli che soffrono ingiustizia e non possono esprimere la loro ira.
Da ricordare che
Il documento della PCB, L’interpretazione delle Scritture afferma che «La Bibbia riflette un’evoluzione morale considerevole, che trova il suo compimento nel NT» (p. 101). Non basta, dunque, che una concezione attestata nell’AT come la schiavitù, il divorzio o lo sterminio sia valida. Occorre un necessario discernimento e le giuste chiavi di lettura che tengano conto del contesto storico -culturale, del genere letterario, dell’ evoluzione morale che si compie nel NT. Gesù stesso ha detto: « E’ stato detto, ma io vi dico» (cfr. Mt 5-7).
sr Filippa Castronovo, fsp