Le attese umane…
…che nutrono il cuore, o lo rendono di ghiaccio
Sulla strada della vita ci sono persone che non sanno ancora quale sarà la terra nella quale mettere radici per portare frutti. Per tanti – purtroppo! – l’attesa è quella angosciante di riuscire finalmente a trovare un lavoro, una casa, o che la pace torni in famiglia… Nella vita delle nostre città un ritornello sembra oggi diventato mentalità comune: sopportare il peso dei giorni lavorativi in attesa del fine settimana! E ci sono le attese ordinarie, più o meno di tutti, di un gesto di amicizia, un segno di fiducia, un incoraggiamento sincero. Attese che in genere passano inosservate alla stessa persona che se le porta dentro, ma hanno il potere di nutrire il cuore o di renderlo di ghiaccio! Perché con il cuore da una parte e la vita da un’altra è frustrazione continua. Un cuore umano in realtà per aprirsi ha bisogno di essere e sentirsi amato; altrimenti dà il via a un sistema di autoprotezione in cui rimane ingabbiato e indurito. D’altra parte anche la maschera, che tanto spesso si indossa con cura per mostrare il meglio di se stessi, costituisce un muro tra sé e la simpatia che si va cercando. A muovere la persona insomma è sempre una fame di cose grandi come l’amicizia e l’amore. L’arte più difficile però rimane quella di dimenticarsi e amare sul serio, in concreto. Quando poi non si conosce proprio quest’arte, anche dietro una facciata di grande efficienza, correttezza e ambizione, un uomo può essere morto! Ma Dio segue le nostre tracce lungo tutti i sentieri in cui ci smarriamo e getta nel terreno della vita il seme dell’inquietudine, che lì germoglia e continua a crescere come unico segno di vita.
È tanto difficile però dare il nome giusto a ciò che si vive. E grande è il bisogno di persone che con l’ascolto e con le domande giuste accompagnino a scoprire ciò che realmente si vive, unica via per riuscire ad essere coerenti tra ciò che si dice e ciò che si vive.
Il proprium della vita consacrata – ce lo ricorda Papa Francesco – è l’aspetto profetico, che in fondo è la capacità di assorbire la morte, il fallimento, l’inevidenza, la marginalità… E farlo come scelta durevole per tutta la vita.
È un servire, questo, che davvero non ha aggettivi. Chiede solo umiltà, perseveranza, accettare di sbagliare, riconoscerlo… Ma è, probabilmente soprattutto oggi, il luogo privilegiato per riscoprirsi dentro l’umile identità di un pugno di lievito; un semplice pugno di lievito con il prezioso compito di scomparire nella pasta dell’umanità di cui ognuno è parte. E diventare così una specie di memoria vivente del fatto che il meglio di noi è sempre oltre noi stessi. Nel cuore della folla sarà certamente un sussulto di speranza e di gioia.
Luciagnese Cedrone ismc
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