Esisterà sulla terra un adulto che non abbia fatto l’esperienza – più o meno amara – di una malattia più o meno lunga e più o meno ‘grave’?
Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: “La malattia e la sofferenza sono sempre state tra i problemi più gravi che mettono alla prova la vita umana. Nella malattia l’uomo fa l’esperienza della propria impotenza, dei propri limiti e della propria finitezza. Ogni malattia può farci intravvedere la morte”.
Una affermazione decisamente verista. In essa è descritta tutta la drammaticità esperienziale della persona che si ritrova, spesso improvvisamente, affetta da una fragilità non solo inattesa, ma profondamente non voluta. Per questo la malattia – fisica o psicologica – può immettere sulla strada dello sgomento, degli interrogativi più esistenziali, di domande che non hanno risposta, quando non sulla via della disperazione, della negazione dell’esistenza stessa di Dio al quale viene attribuito il male di cui si è affetti.
La visita – o l’assistenza – al malato ha le sue esigenze: richiede una particolare sensibilità, una specifica competenza; a volte la specializzazione, sempre una squisita capacità di ascolto. Diceva Giobbe ai suoi accusatori: “Ascoltate bene la mia parola e sia questo almeno il conforto che mi date” (21,2). Sempre il tutto guidato dalla sapienza dell’amore cristiano. Una parola fuori luogo, un gesto inopportuno rischiano di acutizzare la sofferenza, di aggiungere alla sofferenza fisica l’amarezza, lo scoramento. E la gratuità: non attendere nulla, se non la gioia per aver compiuto un gesto dovuto, richiesto dall’amore, appunto. “Non temere di visitare gli ammalati – consiglia il Siracide – perché da loro sarai riamato” (7,35).
Molti dei nostri Istituti non compiono soltanto l’opera di ‘visitare gli infermi’. Porre la propria attenzione, il proprio affetto e dedizione competente sul malato fa parte della loro identità, del mandato ricevuto da Dio. Per carisma si fanno carico di ogni infermo. Ripetono lungo i secoli quello che ha fatto Gesù. Scrivono le Figlie di san Camillo nella loro Regola di Vita: “Testimoniare l’amore sempre presente di Cristo verso gli infermi, con opere di misericordia corporale e spirituale anche con il rischio della vita e professato con quarto voto specifico” (Annuario USMI 2009).
La compassione e l’agire di Gesù verso gli ammalati abbraccia diverse situazioni di fragilità. Gesù non si ripete. Perché ogni ammalato è se stesso e ha una sua dignità che deve essere riconosciuta e rispettata. L’uno è diverso dall’altro. Diverso nella specificità della propria malattia non solo, ma anche e soprattutto nello stile di vita con cui la situazione è affrontata. Il cieco di Gerico, Bartimeo, la donna curva, l’idropico, i dieci lebbrosi inviati a presentarsi al sinedrio, il paralitico fatto scendere dal tetto, la figlia di Giairo… Infermi diversi, approccio e modalità di guarigione diverse… Giacomo nella sua Lettera parla inoltre di una ‘Unzione’ che per il cristiano è sacramento, fonte di vita nuova (cfr Gc 5,14ss).
Posare delicatamente un bacio sulla fronte dell’infermo; far scorrere una carezza sulla guancia forse smunta, offrire una stretta di mano particolarmente intensa: semplici gesti che dicono: ti voglio bene, sono con te… Seduto ai bordi della malattia, anche per l’ammalato potranno tornare a brillare le stelle, le stelle dell‘accettazione e della speranza.
sr Biancarosa Magliano,
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